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 2017  ottobre 20 Venerdì calendario

Barcellona ora punta a una secessione «modello Kosovo»

Qualche mese prima che tutto iniziasse, era maggio di quest’anno, Carles Puigdemont ricevette nella sede della Generalitat a Plaça Sant Jaume, a Barcellona, il primo ministro di un piccolo Stato dell’ex Jugoslavia, il Kosovo, capitale Pristina. L’interesse di Puigdemont era quello di conoscere meglio attraverso l’incontro con Isa Mustafa, allora premier (è stato sostituito all’inizio di settembre), la storia dell’indipendenza kosovara dalla Serbia, nel 2008. Una dichiarazione unilaterale che venne sponsorizzata dalla Comunità internazionale, Stati Uniti in testa, come una “remedial secession” o “secessione terapeutica” della maggioranza albanese del Kosovo, e che, per i catalani, dimostra che la secessione unilaterale è valida, anche per l’Onu, se la regione che si separa subisce «un uso della forza illegale o gravi violazioni dei diritti umani e della norme internazionali». I primi ad accarezzare l’idea di riuscire a creare, nello scontro tra il governo di Madrid e quello di Barcellona, una “prospettiva Kosovo” sono state le organizzazioni civiche dell’indipendentismo, l’Anc e Òmnium, che non a caso hanno lavorato moltissimo sui social network per affermare il concetto della Catalogna come regione repressa e maltrattata dalla Spagna “imperialista”. È sufficiente seguire alcuni dei numerosi hashtag, del tipo #HelpCatalonia, per rendersene conto. E dopo i fattacci del 1° ottobre, l’Assemblea nazionale catalana ha messo in piedi una campagna internazionale (Support Catalonia) nella quale si chiede ai cittadini di tutta l’Europa di inviare lettere e e-mail ai loro capi di Stato con un documento di denuncia delle violenze subite dai catalani. Il documento, redatto dall’Anc, e inviato a migliaia di persone dice: «Possiamo guardare dall’altra parte di fronte alla brutalità della polizia contro la popolazione? Contro le donne e gli anziani? Fino a quando si può stare in silenzio mentre reprimono i nostri vicini per le loro opinioni politiche?».
Uno degli spin-doctor della campagna verso la “prospettiva Kosovo” è Pilar Rahola. Scrittrice e giornalista, ha una rubrica sul più importante quotidiano di Barcellona, La Vanguardia, Rahola è anche molto vicina a Puigdemont. Sulla questione indipendenza è stata spesso tranchant: «Sono trecento anni che cerchiamo di convivere con gli spagnoli ma è impossibile, adesso siamo davvero stufi». Naturalmente la Generalitat si dimentica di aggiungere che l’indipendenza del Kosovo fu la conseguenza di dieci anni di guerra e migliaia di morti. Ma l’ipotesi di una “autodeterminazione terapeutica” ha comunque fatto breccia anche in alcuni ambienti internazionali. Uno sponsor dell’idea catalana è, per esempio, Alfred de Zayas, esperto dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani.
Poi c’è il presidente del governo spagnolo. In linea con quello che ha fatto in tutti questi anni, lasciando marcire la questione catalana mentre l’appoggio al secessionismo non faceva che crescere, Rajoy ha scelto soprattutto la strada dei tribunali per affrontare il conflitto. L’arresto dei due leader indipendentisti, Jordi Sànchez e Jordi Cuixart, e l’accusa di sedizione – che anche Amnesty giudica “davvero eccessiva” -, insieme all’ipotesi, sollevata da diversi dirigenti del partito di Rajoy, di mettere fuorilegge Anc e Òmnium, non ha fatto altro che radicalizzare le posizioni. E lo stesso effetto, quando avrà tra una decina di giorni il via libera del Senato, farà il commissariamento dell’autonomia. Oggi, con tutta l’Unione europea che sostiene Rajoy nella sua guerra catalana, la “prospettiva Kosovo” sembra una chimera ma per la leadership secessionista non lo è: «Più ci faranno del male – dicono -più saremo vicini alla realizzazione del sogno».