il venerdì, 13 ottobre 2017
Io, cronista a caccia di Ottobre Rosso. Intervista a Ezio Mauro
Il più grande fraintendimento della rivoluzione del 1917 si produsse, quasi in tempo reale, nei destini di quegli intellettuali e scrittori che vi presero parte. La fulgida ascesa della rivoluzione si spense minacciosa nelle loro ombre. Passarono dall’euforia alla depressione, dall’entusiasmo alla delusione, dalle camere del popolo a quelle della morte. Almeno in certi casi. Altri finirono nei gulag. Qualcuno si suicidò. Qualcuno si normalizzò. Non e tutto quello che ricavo dalla lettura di L’anno del ferro e del fuoco (Feltrinelli), ma il termometro spirituale appare interessante per registrare la febbre rivoluzionaria che divampò come un fuoco di paglia tra le fila dell’intellighenzia russa: «Sono stati i libri di Akhmatova, Cvetaeva, Blok, Belyj, Berberova, Nabokov, Pastemak Majakovskij, Rozanov e naturalmente Bulgakov» dice Ezio Mauro «la vera mappa di questo mio viaggio nella Russia di un secolo fa». Dallo scaffale del suo studio Mauro estrae alcuni libri. Li mostra a riprova di un impegno durato più di un anno, ma che alle spalle ha una lunga consuetudine con quel paese. Scorrono davanti ai miei occhi le copertine di vecchie e a volte preziose edizioni: Rasputin di Fulòp-Miller, Kerenskij sulla rivoluzione russa e un altro sul massacro dei Romanov, due rare edizioni in lingua russa rispettivamente di Aleksandr Blok e Andrej Belyj. Sono attratto da una biografia di Lenin,dentroc e un ritratto di lui fanciullo. Sembra un irriconoscibilebambocciocon appiccicata sulla testa una parrucca svolazzante. Non sembra esserci traccia del suo futuro. «È vero, ma anni dopo per sfuggire alla caccia che gli davano gli avversari, tra cui Kerenskij, Lenin si travesti proprio con una parrucca», dice un po’ divertito Mauro.
In fondo anche tu per l’occasione hai usato il “travestimento” da cronista per indagare nella storia di quel grande evento.
«Ma sai, è il mio mestiere. Se mi fossi proposto da puro storico con il ditino alzato, tra citazioni e rimandi in nota, sarebbe stato come offrire al lettore qualcosa che non mi apparteneva».
Sei riuscito nell’operazione singolarissima di tenere insieme il distante e il vicino. La storia di un secolo fa come se scorresse sotto il nostro naso.
«Ho visitato i luoghi simbolo di quella rivoluzione, cercando di indagare su qualcosa che ancora resisteva all’usu ra del tempo: la testimonianza di una traccia o la voce di un racconto ormai re moto. In quei luoghi, di esaltazione e tra gedia, di speranze vissute e tradite, ho provato a lare il cronista. Ho misurato, certo, la distanza da quel mondo, ma al tempo stesso ho colto l’impronta di quell’anno che ha custodito nomi, fatti, episodi trasfigurati a volle in leggenda».
Cosa ti ha guidato nel viaggio?
«Anzitutto la scelta o meglio la riproposizione di un metodo di lavoro. A cominciare dallo studio della lingua russa. Inol tre, mi ha aiutato l’esperienza degli anni trascorsi come corrispondente a Mosca per Repubblica: infine, il materiale raccolto e schedato – spesso pensieri e letture f rutto di una fascinazione improvvisa e maturata nel tempoha costituito lo sf on do del lavoro».
Nei tuoi anni trascorsi a Mosca immaginavi di scrivere un libro così?
«Avvertivo solamente che stava acca dendo qualcosa.cui non ero ancora in grado di dare una f órma. Sensazioni con trastanti, prive di una effettiva direzione. Poi, quando ho intrapreso il viaggio in quei luoghi, molte cose si sono risvegliate e quel tormento che, nel ricordo della Russia, mi aveva spesso accompagnato, come di incanto si è placato».
Tormento è una parola impegnativa.
«Non più di quanto possa essere l’innamoramento che del tormento è l’anticamera. Mi ero innamorato di un Paese che avrebbe cambiato il volto del ’900 e che richiedeva lo sforzo di essere nuovamente guardato in f accia. Per questo sono tornato lì, consapevole che la Russia dice no a molte delle cose che vuoi sapere ma poi. generosamente, spalanca le sue porte».
Tu andasti via dall’Unione Sovietica poco prima della sua caduta.
«Sì e per tutto il tempo che ne sono stato lontano ho avvertito il mistero delle cose incompiute.»
Di una storia interrotta?
«Diciamo non finita e da completare: con tutto quello che sapevo, e tutto quello che c’era ancora da apprendere. La sola cosa certa e che sarei dovuto tornare alle origini di quella storia: al 1917».
Hai scandito i mesi di quell’anno affidandoli ogni volta a un personaggio. Perché ha scelto come prima figura Rasputin?
«Potrei risponderti per lo stesso motivo per cui chiudo il libro con il massa ero dei Romanov. C’è un filo che si tende tra questi due capitoli che racchiudono l’esaltazione e la drammaticità di quell’anno. La morte di Rasputin avviene il 30 dicembre del 1916».
Cosa rappresenta ai tuoi occhi quella fine violenta?
«Si tratta del vero inizio simbolico della rivoluzione. Mi aff ascinava la coin cidenza dei tempi: lui – il monaco lussu rioso, l’uomo di Dio ma anche il peccato re, il contadino siberiano semianalfabeta che strega la zarina – sulla porta del nuovo anno che non fa in tempo a vivere. Sembrava davvero che qualcuno avesse voluto scrivere una sceneggiatura sor prendente, dove i destini di uomini dall’immenso potere finirono nella poi vere, per far posto ai nuovi».
Tra i personaggi che racconti, lo zar Nicola II è quello che ti suscita forse più compassione.
«È una figura strana che mi ha sorpreso per certe sue punte di infelice moder nità. Vorrebbe essere protagonista della sua storia e invece è costretto al ruolo di comprimario. Fino alla fine, quando in sieme alla famiglia verrà travolto da un’esecuzione sommaria, non capisce cosa gli stia accadendo. Gli è piu facile perdere la corona che l’autocrazia. Non è stato educato a governare un mondo, è stato educato a fare lo zar».
Conosce l’intimità del suo cuore ma non quella del Paese?
«In questo è diverso dalle ambizioni della zarina, sospesa tra il senso di colpa di aver dato alla luce un figlio malato e l’ambizione di voler essere la nuova Caterina II. Ma gli sposi regali, nonostante tutto, si amano profondamente. Ci sono le centinaia di lettere che si scambiano a provarlo».
Tra i protagonisti della rivoluzione chi ti ha colpito di più?
«Probabilmente Trotzkij, l’intellettuale che si lascia afferrare dal demone della storia. Lui è il vero stratega, l’orologiaio della rivoluzione che dà i tempi dell’insurrezione, che studia la logistica, che censi sce le armi, valuta le forze in campo, assegna i compiti agli uomini, disegna la mappa dei punti nevralgici evitando lo scontro diretto».
Ma è anche quello che non sa leggere il futuro di quella rivoluzione.
«Non poteva, credo, immaginare che i I terrore di Stalin in pochi anni avrebbe divorato tutto, perfino la sua vita. Ma in qualche modo ne ha il preseli timento quando, pensando a Lenin, si rammenta della frase di Plekhanov: di questa pasta sono fatti i Robespierre della storia».
La più delusa è l’intellighenzia russa.
«Si sente tradita perché è stata educata nel culto del popolo a ribellarsi al potere. Sono anni eccezionali dal punto di vista della fioritura artistica».
Quello che racconti in poche pagine è un “fermo immagine“di alcuni protagonisti della vita culturale.
«Mi interessava coglierli, quasi fisicamente, nel momento della rivoluzione in corso. Che cosa fanno? Come reagiscono? Cosa amano? Da dovefuggono? Nabokov, ad esempio, scappa perché ha più da perdere che da guadagnare: suo padre è stato segretario del governo provvisorio. A Nina Berberova improvvisamente si rovescia la vita. Passerà in poche setti mane dall’agiatezza borghesealla pover tà assoluta. Alla Achmatova arrestano e condannano alla fucilazione l’ex marito, il poeta Gumelèv. Majakovskij si suici derà nel 1930. Mandel’stam morirà in un gulag nel 1938. dopo aver scritto: “Mio secolo, mia bel va. chr saprà guardare nelle tue pupille?”».
Forse pochi avevano saputo leggere nella brutalità di quegli occhi.
«Se ne resero conto dopo l’iniziale infatuazione. Bisogna sfogliare i Taccuini di riparo dall’ufficialità, il senso di una delu sione radicale; ravvicinarsi di una morte per denutrizione e soffocamento».
In fondo hai anche scritto un libro sui libri.
«Ho provato a farli parlare, come ho cercato di far parlare ceni luoghi. Sono stato sopra la collina di Kiev sulle tracce degli idoli distrutti; sono stato fuori Pietrogrado, nel bosco dove hanno bruciato i resti di Rasputin; ho ritrovato il punto esatto, proprio fuori della stazione di Pskotf, dove si fermò il treno dello zar; sono stato nelle case dei protagonisti della ri voluzione e in quelle degli scrittori; ho visitato infine i posti intorno a Ekaterinburg dove fu trucidata la famiglia Romanov. Non era una forma morbosa di turismo, ma un bisogno di capire».
Capire cosa?
«Che nessun altro Paese al mondo ha trafficalo così intensamente tra la vita e la mone. Nessun regime, come quello che è crollato dopo settant anni, ha speso un tale impegno per rimuovere il.passato per vederlo poi rinascere, quasi involontariamente, sul proprio corpo. I nuovi potenti cercarono di abolire ogni culto delle reliquie, ma ci riuscirono talmente bene da farle rivivere nei loro simulacri. Guardan do le mura del Cremlino, si ha l’impressione di stare nel piu grande cimitero ideologico che la storia abbia prodotto».
Anche questo è sorprendente.
«Tutto ci sorprende in questa enorme terra solo all’apparenza immobile. Ho cercato di attraversarla sapendo cosa avevo lasciato, ma non sapendo cosa avrei incontrato. In fondo, mi dicevo, le storie vanno raccontate se non vuoi che si perdano».
Antonio Gnoli