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 2017  ottobre 13 Venerdì calendario

Prigionieri delle ossessioni

Cadendo ho battuto violentemente la testa, ho bisogno di una Tac» dice l’uomo arrivato al Pronto soccorso. Gliela fanno, ed è tutto a posto. Ma appena fuori dal macchinario fa una nuova richiesta: «Temo di aver sbattuto la testa anche qui, rialzandomi dal lettino. Potreste rifarmi la Tac?». Gli infermieri strabuzzano gli occhi. Poi qualcuno lo riconosce: è quel signore che ogni due settimane vuole fare una Tac “per stare tranquillo”. Il suo problema, ovviamente, non è fisico, ma psichico: soffre di un disturbo ossessivo-compulsivo (spesso abbreviato con l’acronimo Doc), condizione che riguarda molti (in Italia si stima circa 1’1 per cento della popolazione, 800 mila persone) in forme evidenti come questa o molto più leggere e quasi indistinguibili da innocue bizzarrie. Come il camminare stando molto attenti a non calpestare gli interstizi tra le lastre del selciato, accendere e spegnere la luce per un numero ben preciso di volte prima di lasciare una stanza, tenere tutte le sedie di casa orientate nella stessa identica direzione e riposizionarle non appena qualcuno le sposta. Sono casi trattati nel saggio Non riesco a fame a meno. La scienza dietro le nostre ossessioni (Feltrinelli) da Sharon Begley, giornalista scientifica per Reuters e Wall Street Journal. Lettura che non aiuta solo a compren dere la malattia, ma anche chi ne soffre.
«Uno dei messaggi del libro è: anche se non riuscite a trattenervi da queste azioni ossessive, non significa che il vostro cervello sia difettoso. L’ansia, perché di questo si tratta, in sé è nonnaie e anzi utile: fin dalla preistoria ha aiutato la nostra specie a intuire minacce imminenti» spiega Sharon Begley. «Il problema del Doc è che chi ne soffre risponde all’ansia con comportamenti estremizzati. Se abbiamo appena gettato la spazzatura e ci accingiamo a mangiare un panino, il circuito cerebrale della preoccupazione – formato da corteccia orbitofrontale, corteccia cingolata anteriore e striato – ci allerta giustamente dandoci una sensazione fastidiosa, una specie di “qui c’è qualcosa che non va. Forse dovresti fare qualcosa“, che ci induce a lavarci le mani. Nei malati di Doc questa impressione scatta di continuo, a vuoto, per via di un circuito della preoccupazione iperattivo. E la loro risposta per disinnescare l’ansia è la ripetizione di “rituali“, per esempio lavarsi le mani cento volte al giorno, anche se non si è toccato nulla. La differenza tra questi comportamenti e i nostri non è qualitativa, ma quantitativa: e questo diventa molto visibile, ad esempio, negli accumulatori compulsivi,chesi riempiono la casa di oggetti». Meno visibile, ma ancora più tormentosa, la condizione di chi accumula pensieri nella testa. Una volta questi infelici erano considerati posseduti dal demonio. La prima testimonianza storica è la Scala paradisi, scritta dal monaco Giovanni Climaco nel VI secolo: un testo che include, tra le regole per raggiungere la perfezione cristiana, il resistere a qualcosa che nella descrizione appare come un disturbo ossessivo: «Essere spinti a formulare pensieri blasfemi da un nemico atroce, le cui parole impronunciabili non sono nostre, ma di un diavolo fuggito dal cielo». Lo stigma demoniaco durerà fino al 1700 e poi si attenuerà. Le ossessioni iniziano a diventare oggetto di curiosità medica e di occasionale dileggio. È il caso del famoso critico letterario e saggista inglese Samuel Johnson: quando camminava per la strada, dice una biografia del 1791, non poteva fare a meno di toccare tutti i pali che incontrava. Inoltre «era attento a entrare o uscire da una porta compiendo un certo numero di passi» scrive il biografo James Boswell. È la stessa forma di disturbo che ha afflitto negli anni Ottanta Joey Ramone, leader della storica band dei Ramones. Suscitando però meno scalpore, perché questa malattia era già piuttosto diffusa e nota.
«Per molto tempo negli Stati Uniti il disturbo più comune tra gli universitari è stato la depressione. Da soli due anni è diventato l’ansia. Ed è anche molto più diffusa tra gli adulti. Segno di quanto stressante sia diventata la società» sottolinea Begley. «Il mondo – cambiamento climatico, disoccupazione, terrorismo – ci sembra sempre di più al di fuori del nostro controllo. E un piccolo comportamento rituale, come riordinare la scrivania, che ci illude di riprendere le redini della nostra realtà, può apparire come un’ancora di salvezza contro l’ansia». A ciò si aggiungono le lusinghe della tecnologia: la possibilità di essere sempre connessi agli altri, via WhatsApp o social media, provoca oggi un nuovo tipo di ansia che sfiora la compulsione: la cosiddetta Forno (Fear ofmissing out, paura di essere tagliati fuori),che porta a controllare di continuo lo smartphone.
La società dei consumi del resto crea un humus continuo perle compulsioni, anche al di là dei gadget digitali: lo shopping, ad esempio, è oggetto sia di dipendenze che di disturbi ossessivo-compulsivi. «La dipendenza – per lo shopping, come per il gioco d’azzardo o la droga – scatta quando c’è un forte piacere iniziale che il cervello impone di procurarsi di nuovo appena possibile. Invece la compulsione è un’esperienza molto più cupa: non si prova alcun piacere, e ci si dà allo shopping smodato solo per allontanare l’ansia. Che fatalmente tornerà». A volte le differenze sono sottili: «La difficoltà di distinguere dipendenze, compulsioni, ansia e depressione, e la mancanza di un test neuroscientifico valido, fanno sì che negli Stati Uniti possano volerci anche dieci anni di psicoanalisi per arrivare a una diagnosi corretta».
Alcune delle forme più bizzarre di Doc coinvolgono i numeri: «Una donna che ho intervistato si prendeva pause di secondi prima di rispondere alle mie domande. Le chiesi perché: rispose che doveva contare il numero di sillabe e di parole nelle frasi che le rivolgevo» spiega Begley. «Parlare con gli altri le dava un sovraccarico emotivo, e il contare – che è un’attività molto semplice, la prima che impariamo a scuola – le ridava l’impressione di padroneggiare la situazione».
Le terapie per affrontare questo tipo di disturbi sono varie: la prima è quella cognitivo-comportamentale, basata soprattutto sulla tecnica di esposizione e prevenzione della risposta. «Consiste nell’esporre i pazienti a ciò che innesca la compulsione – magari chiedendo loro di toccare un oggetto impolverato, o il lavandino di un bagno pubblico – ma impedendo loro di mettere in atto la compulsione, ossia, in questo caso, di lavarsi le mani» spiega Begley. «Gradualmente, e con fatica, il paziente può imparare a controllarsi. Ma l’esposizione è così spiacevole che circa il 50 per cento dei pazienti abbandona la terapia appena può. Sembra avere invece più successo la seconda terapia, quella della mindfulness. Insegna, anche attraverso la meditazione, a guardarsi come se si fosse osservatori esterni, e a riconoscere le irragionevolezze per quello che sono. In modo che, quando ti assale il pensiero che tutte le magliette dell’armadio dovrebbero essere orientate a sinistra, tu possa dire a te stesso che non è vero, che si tratta solo di un impulso cerebrale uscito fuori pista».
Se i comportamenti ossessivo-compulsivi possono sembrare assurdi, bisogna anche rendersi conto che chi li mette in atto affronta uno sforzo titanico: crearsi un prezioso minuto di tregua dall’inferno grazie a un gesto che non costa nulla e definisce un angolino sicuro di mondo. E poi un altro minuto. E poi un altro ancora. Fino a rischiare di non avere più tempo per altro.