Millennium, 1 ottobre 2017
Roma, Valle Giulia. La battaglia dei famosi raccontata da chi c’era. E poi ha fatto carriera
Cinquant’anni dopo è l’episodio del ’68 di cui si continua a parlare di più. In occasione di incidenti di piazza, grandi o piccoli, c’è sempre qualcuno che rivanga: gli scontri di Valle Giulia, Pasolini che si schierò con i poliziotti, loro sì che erano il popolo, non gli studenti figli di papà... Ma come andò davvero? E Pasolini? Disse anche altro?
Come nelle migliori tradizioni orali, prima ancora che nei libri di storia, le testimonianze e la memoria degli eventi sono affidate ai versi di una canzone, scritta poco tempo dopo i fatti da Paolo Pietrangeli. Un testo che ruota intorno al riff con cui si è soliti riassumere, almeno tra le fila degli ex di quel Movimento studentesco, l’aspetto più importante di quella giornata: non siam scappati più! Non esiste ricostruzione dei fatti che non parta da questo assunto. In piazza quel giorno, riportano le cronache, ci sono tanti volti destinati a diventare famosi. Futuri giornalisti ed editorialisti come Giuliano Ferrara, che rimane ferito, Paolo Liguori, Paolo Mieli, Ernesto Galli della Loggia, Paolo Flores d’Arcais, Lanfranco Pace. O politici, come Franco Russo (leader del ’68 romano, poi parlamentare di Democrazia proletaria e Rifondazione comunista) e Claudio Petruccioli (poi parlamentare Pei e presidente della Rai dal 2005 al 2007), Aldo Brandirali (fondatore allora del gruppo maoista Servire il popolo, poi delfino e assessore De a Milano). E nomi che risuoneranno negli anni di piombo: oltre a Pace, Franco Pipemo e Oreste Scalzone, che di lì a poco animeranno Potere operaio. E ancora, il già citato Paolo Pietrangeli (poi regista di trasmissioni Mediaset, fra le quali Amici di Maria de Filippi) e Massimiliano Fuksas, quando la parola archistar era di là da venire. Il regista Bernardo Bertolucci (già 27enne) e, in divisa fra i poliziotti impegnati negli scontri, il giovane Michele Placido, di stanza al Reparto celere della Capitale. Molti anni dopo, nel 2009, da quell’esperienza, Placido realizzerà il film II grande sogna.
Roma. Primo marzo 1968. L’appuntamento è alle dieci in Piazza di Spagna. Lì si forma un corteo composto da qualche migliaio di giovani studenti, universitari principalmente, ma non solo. Quando prende corpo e si muove arriva sulla via Flaminia e quindi risale su viale Bruno Buozzi, verso via Gramsci, per essere alle undici e un quarto avanti ad Architettura. È questo l’orario rimasto a segnare l’inizio degli scontri tra studenti e poliziotti, è la “battaglia di Valle Giulia”. Sono circa quattromila i ragazzi coinvolti e intenzionati a entrare dentro la struttura universitaria, per occuparla di nuovo. Le cronache dell’epoca parlano di un corteo che va crescendo mano a mano che si avvicina all’obiettivo, ma anche di una certa impreparazione che pure si risolverà in una determinazione nuova e inaspettata, di fronte la polizia schierata. «Fino ad allora c’erano state manifestazioni per il Vietnam, cortei per il Che e altri eventi di protesta dove gli studenti prendevano un sacco di botte», ricorda a Fq Millennium il giornalista Paolo Liguori, con gli anni approdato alle reti Mediaset e oggi direttore di Tgcom 24. «Quel primo marzo invece gli scontri sono cominciati volontariamente, da parte nostra, esattamente all’angolo tra viale Bruno Buozzi e via Antonio Gramsci. Sono cominciati con la modalità che poi diventerà usuale: la testa del corteo cambiò e andarono avanti quelli organizzati, per lo più studenti di Lettere e Filosofia, che cominciarono a tirare le uova. I poliziotti erano schierati esattamente tra la facoltà e l’Accademia di Belle Arti. Ci fu una prima carica delle forze dell’ordine e una risposta del corteo che sfondò i cordoni. Poi tornammo indietro, rotolammo letteralmente sul lato della linea tranviaria e da lì ricominciammo. Andammo avanti così per ore» aggiunge Liguori.
LE TESI DELLA SAPIENZA
Quella “battaglia” sarà il punto di arrivo di una serie di vicende storiche che sul piano nazionale e intemazionale sembrano destinate a ribaltare, o quanto meno a smuovere, gli equilibri.
Si parte dal 27 aprile 1966, quando, a causa degli scontri con degli studenti di destra fuori la facoltà di Lettere alla Sapienza, muore Paolo Rossi: è l’evento che per molti segna la nascita del Movimento studentesco organizzato; nel febbraio del 1967, a Roma, dando se guito all’occupazione dell’università, vengono scritte e pubblicate le Tesi della Sapienza: è il primo tentativo di strutturare una piattaforma politica che parla di lavoratori e studenti come «forze subordinate al capitale». La eco delle “Tesi” arriva a Trento, nell’Istituto Superiore di Scienze Sociali, nato solo nel 1962, dove viene proposta una “università negativa”, cioè irriducibile alle esigenze produttive della società capitalistica e borghese. È l’autunno del 1967 e a Torino, il 27 novembre per la precisione, gli studenti occupano Palazzo Campana (reportage a pag. 13), sede dell’università. A queste città si aggiungono Pisa, Milano, Napoli e in ognuna di esse il Movimento tenta, e spesso riesce, a costruire un’alleanza con i lavoratori nelle fabbriche. Intanto, nel mondo: il 9 ottobre del 1967 muore Ernesto Che Guevara, in Bolivia; il 21 aprile dello stesso anno comincia la dittatura dei colonnelli in Grecia mentre in Vietnam parte quella che sarebbe dovuta essere la fase risolutiva del conflitto, quel “punto di svolta” per gli americani che non arriverà mai. Sono queste, raccontano Nanni Balestrini e Primo Moroni ne L ’orda d’oro, le premesse del “grande commutatore” sessantottesco, di cui la battaglia di Valle Giulia è l’evento rappresentativo.
La cronaca dei giorni immediatamente precedenti il primo marzo è altrettanto significativa, perché ci sono continue occupazioni e sgomberi all’università. È un crescendo che parte la notte tra il 2 e il 3 febbraio con l’occupazione proprio della facoltà di Architettura a cui seguono quelle delle aule di Fisica e di Lettere, e culmina con gli sgomberi violenti del 28 e 29 febbraio. È con queste premesse, rivendicando la necessità di rientrare all’università per continuare la protesta che aveva messo in dubbio tanto la diffusione del sapere, quanto gli esami e le votazioni, nonché per avere spazi assembleali autonomi, che il primo marzo del 1968 ci si dà appuntamento, ormai è storia, alle ore 10 in piazza di Spagna.
«Il corteo fu organizzato la sera prima, a via dei Frentani, al teatro della Federazione Comunista, durante un’assemblea nella quale il Movimento era sostanzialmente diviso tra gli studenti più belligeranti e quelli più pacifici», racconta a Fq Millennium Lanfranco Pace, all’epoca studente di ingegneria e coinvolto nel collettivo delle facoltà scientifiche, oggi in forza al Foglio dopo essere stato a lungo a La7.
Pace in seguito al “Processo 7 aprile” del 1979, contro Autonomia operaia, verrà accusato, a causa dei contatti tenuti con Morucci e Faranda durante le trattative del sequestro Moro e dopo la loro fuoriuscita dalle Brigate Rosse, di essere un fiancheggiatore del partito armato. Si rifugerà in Francia per 15 anni dove lavora per Liberation grazie alla politica del presidente Francois Mitterrand, “morbida” rispetto i reati di natura politica. Nel 1990 verrà condannato in via definitiva a 4 anni per associazione sovversiva, pena poi prescritta. Nel 1997 tornerà in Italia.
Ma torniamo al giorno della “battaglia”. Riguardo al perché di quella occupazione ribadisce invece l’architetto Massimiliano Fuksas, presente quel primo marzo a Valle Giulia: «Il motivo principale era la necessità di un posto in cui fare assemblee, giacché le diverse facoltà universitarie erano state occupate dalla polizia. Mi ricordo un dibattito piuttosto divertente sulle azioni da compiere: qualcuno propose di cominciare a lanciare i sassi, ma poi si disse che i sassi ce li avrebbero rilanciati. Allora si decise per le uova, perché una volta lanciate non potevano tornare indietro. Io arrivai un po’ in ritardo, raggiunsi il corteo che era già su via Flaminia. Avevo un pullover arancione, così giusto per non dare nell’occhio».
LA PRESENZA DEI NERI
«Fare una cronaca lineare degli eventi è impossibile. Sono successe tante cose in quella giornata. Fu il massimo della confusione e il massimo dell’unione del Movimento studentesco», sostiene Luca Villoresi, che la battaglia l’ha ricostruita come cronista di Repubblica, vent’anni dopo i fatti. Una confusione che determinerà innumerevoli interpretazioni sul quel primo marzo, a partire dalla presenza in piazza dei fascisti. Il loro ruolo, infatti, sarà a lungo motivo di aspri di battiti e interpretazioni. Se la loro presenza è certa, per qualche tempo si discuterà anche se la stessa fosse stata concordata con alcuni esponenti del Movimento 0 meno. La questione non è pacifica, perché è di cinque anni fa l’ultima scintilla seguita alla pubblicazione del libro del neofascista Stefano Delle Chiaie, imputato e assolto per la strage di Piazza Fontana e poi al servizio di Pinochet, in Cile. In L’aquila e il condor, l’ex di Avanguardia nazionale sottolinea ancora la centralità sua e dei suoi uomini nella battaglia, ribadendo una comunità di intenti tra i fascisti e il resto del movimento. La tesi è al contrario negata categoricamente da Oreste Scalzone – ex di Potere operaio e Autonomia operaia, rientrato in Italia anche lui dalla Francia nel febbraio 2007 al termine di 26 anni di esilio e la prescrizione dopo essere stato condannato a otto anni per partecipazione ad associazione sovversiva nel 1988 – che più volte ha sfidato Delle Chiaie a un confronto pubblico sui fatti.
«Gli studenti di destra c’erano», spiega Ernesto Galli della Loggia, editorialista del Corriere della Sera, presente anche lui a Valle Giulia il giorno della “battaglia”, «ma erano una minoranza, che so: quaranta cinquanta persone». Una partecipazione minima, ribadita da più fonti, che però è stata molte volte utilizzata per attribuire la paternità dei primi scontri. Questo forse anche a causa di alcuni atteggiamenti estranei al resto del Movimento. «Io mi ricordo uno di loro che, durante i tafferugli, si avvicinò a una camionetta, aprì il tappo della benzina, ci infilò uno straccio e gli diede fuoco. Ecco, quel tipo di azione non era nelle nostre corde» ricorda ancora Fuksas. Anche Villoresi sottolinea la presenza dei “fascisti”, che «facevano parte di quella confusione e di quella totalità: non erano infiltrati, non erano alla guida. Molti sono entrati a far parte del Movimento studentesco, sono passati a sinistra. E forse quel primo marzo è stato l’inizio e la fine del Sessantotto».
Più categorico è Adriano Mordenti, le cui foto scattate quel giorno a Roma sono in parte pubblicate in questo servizio: «C’erano i giovani di destra, che stavano lì per un’adesione personale. E poi c’erano gli infiltrati. Va distinto quindi quello che era di destra magari perché aveva il padre fascista oppure quello che lo era per posizione presa. Entrambi li potevi ritrovare dentro le occupazioni a fare azioni con il Movimento. Un’altra cosa sono Mario Merlino, Delle Chiaie e compagnia» (articolo a pag. 35).
Sempre Mordenti racconta: «Erano sassate, cazzotti in testa e ruzzolate. E si ricominciava». Quel giorno arriva in ritardo a Valle Giulia e questo forse giocherà a suo favore. «I giornalisti e i cineoperatori arrivati prima furono lateralmente spostati dalle forze dell’ordine.
Io mi ritrovai in mezzo al casino, dalla parte buona. Avevo tre macchine fotografiche. Dopo una carica della polizia, finii affianco a una ragazzetta con i tacchi che stava cascando. Allungai una mano per tenerla, ma andai giù insieme a lei. Quando mi rialzai una delle macchinette si era frantumata. A un certo punto vidi un poliziotto ben appostato che lanciava dei sassi. Scattai così l’ultima foto della giornata. L’ultima, perché quel sasso mi prese in pieno. Prese in pieno il teleobiettivo! Seconda macchinetta andata distrutta!».
Alla fine della battaglia, in serata, il corteo ricompattato si dirige verso Montecitorio, per chiedere le dimissioni del ministro della pubblica istruzione Luigi Gui. Una richiesta che si aggiunge a quella contro il rettore Pietro Agostino D’Avack, colui che aveva permesso la presenza della polizia all’università. Sul campo rimangono invece una decina di automezzi bruciati. Le forze dell’ordine riportano 144 feriti, mentre gli stessi tra gli studenti sono una cinquantina. Un numero approssimativo questo: molti di loro infatti evitano di farsi medicare nei pronto soccorso, poiché sarà anche attraverso i loro registri che l’autorità provvederà a formalizzare le denunce. Alla fine verranno fermati ben 228 manifestanti.
IL POETA DELLA BATTAGLIA
Massimiliano Fuksas oggi sostiene che quell’evento e tutto il 1968 siano il momento finale di una stagione precisa. Una stagione al termine della quale la dimensione politica, militante e radicale, e quella culturale e creativa si separano forse con troppa nettezza. «Degli anni Sessanta, e di quei giorni, rammento una vitalità entusiasmante. Su molti di noi si sentiva l’influenza dei romanzi americani tradotti o introdotti dalle parole di Fernanda Pivano, era il fascino della beat generation. Amavo I vagabondi del Dharma e Sulla strada di Jack Kerouac, due libri che avevo nel mio sacco da viaggio. Ma forse, soprattutto, eravamo giovani!». E proprio a quella gioventù Pier Paolo Pasolini chiederà un altro tipo di responsabilità. Il poeta, criticando gli scontri e l’atteggiamento di coloro che li hanno provocati, dedica all’evento una poesia dal titolo Il Pci ai giovani. Versi scritti d’istinto e poco belli, dirà poi Pasolini a distanza di tempo dalla loro uscita. Oggi se ne citano solo una manciata, in genere per tornaconto politico: le parole con le quali il poeta simpatizza con i poliziotti. La poesia, destinata alla rivista Nuovi Argomenti, viene pubblicata in parte il 16 giugno 1968 sulle colonne dell’Espresso, ed è molto più lunga e articolata dei suoi versi famosi, come lunghe e articolate saranno le interpretazioni successive. Alcune di queste attribuiranno al poeta una capacità profetica: in controluce Pasolini avrebbe tracciato il profilo della futura società italiana, creato dalla lima, grossolana ma impietosa, di una volontà borghese a vivere la vita. Quegli studenti ribelli non assaltano il cielo ma il controsoffitto elegante dei genitori, per prendere il potere di decidere quali abbellimenti produrre e come. «Così parlando, chiedete tutto a parole, mentre, coi fatti, chiedete solo ciò a cui avete diritto (da bravi figli borghesi)», scrive Pasolini, che pure s’era premurato di spiegare qualche verso prima: «Siamo ovviamente d’accordo contro l’istituzione della polizia». Ma anche questa visione profetica, riduttiva più che scomoda, non soddisfa. Sarebbe forse più fruttuoso rileggere quella poesia inserendola nella più vasta produzione dell’autore, lo stesso che in una delle tante interviste dell’epoca invita i giovani ad abituarsi a far fronte a quella che chiama «L’atrocità del dubbio».
Oggi Adriano Mordenti e Lanfranco Pace sono concordi nel definire quell’intervento del poeta come «inopportuno». «Valle Giulia fu un evento altamente simbolico e profondamente inutile: la polizia era sostanzialmente disorganizzata, e i giovani intenzionati a cercare lo scontro; tutto quel movimento finì nell’immediato per portare acqua al Pei» spiega Pace. Di opinione contraria Ernesto Galli della Loggia, secondo il quale il poeta ha saputo invece inquadrare una parte della realtà: «La distanza tra molti degli studenti e quei poliziotti era palese; i volti degli uomini in divisa erano davvero volti di contadini. C’erano delle forti differenze all’epoca, che magari oggi non noteresti più».
«L’evento fu interpretato in due modi», secondo l’analisi di Liguori, «come una forte positiva novità per via della risposta degli studenti, e come una condanna per via della piega che la protesta aveva assunto. La poesia di Pasolini fu di questo secondo tipo, una risposta viscerale di un intellettuale che ci voleva bene». E Pasolini non sarà l’unico degli intellettuali a dialogare con il Movimento studentesco. Un’altra figura importante è quella del regista Marco Bellocchio. Il suo film 1 pugni in tasca rappresenta in allegoria la rivolta di quella generazione. Esemplare anche il lavoro di Alessandra Bocchetti: un film documentario titolato Della Conoscenza prodotto autonomamente nel 1968 e composto di frammenti di interviste, assemblee e manifestazioni dell’epoca, tra i quali naturalmente quelli riguardanti la battaglia di Roma a Valle Giulia.
I MODERATI DELLA LOTTA
«Pasolini era un amico», racconta Paolo Ramundo, all’epoca dei fatti membro del collettivo universitario gli “Uccelli”, «era d’accordo con il necessario rinnovamento, ma non credeva fosse quella la strada». Gli Uccelli sono poco apprezzati dall’ala più radicale del Movimento, meno avvezzi alla violenza e decisamente più creativi. In quegli anni la loro base operativa è proprio dentro Architettura. «Non prendemmo attivamente parte agli scontri. Li vedemmo dall’alto piuttosto, perché noi avevamo occupato il sotto tetto della facoltà, e stavamo lì. E anche se la facoltà era stata sgomberata e presidiata dalle forze dell’ordine, continuammo ad accedervi attraverso un passaggio segreto. Sapevamo della manifestazione, che si sarebbero visti dalle parti di Trinità dei Monti e che sarebbero arrivati ad Architettura in corteo, ma non sapevamo come questo fosse stato organizzato, né quello che sarebbe successo». Il gruppo degli Uccelli è tra i più creativi di quegli anni. Autori, insieme con Renato Guttuso, dei murales sulle facciate dell’università, restaurati nel 2006 e visibili in diverse delle foto che raccontano la battaglia. «Ho visto una camionetta della polizia data alle fiamme. C’era poi chi aggrediva le forze dell’ordine e chi veniva malmenato. Una baraonda, per me senza nessuna possibilità di interpretazione» riprende Ramundo. A un certo punto arri vano anche i carabinieri a cavallo, tra i quali spiccano i “fratelli invincibili” dell’equitazione Raimondo e Piero D’Inzeo, rispettivamente oro e argento alle olimpiadi di Roma del 1960 nel salto ad ostacoli. «Un sali e scendi continuo tra le collinette della zona. Anzi, credo che proprio il terreno di scontro abbia evitato che la situazione degenerasse ulteriormente, perché la battaglia in realtà fu un continuo avvicinarsi, colpire, fuggire e cadere giù. Nel tardo pomeriggio abbiamo organizzato un corteo verso Montecitorio. Mi viene da ridere, a ripensarci, perché mi ricordo che tra i manifestanti alcuni indossavano i copricapo della polizia raccolti durante le ruzzolate».
La battaglia di Valle Giulia, patrimonio della memoria di una generazione, è un evento che appartiene alla storia e alla propria epoca, vivace e complessa. Cinquantanni dopo, è ancora difficile riassumerla in un giudizio categorico. Specie se piegato alle convenienze del momento.