Millennium, 1 ottobre 2017
Torino, Palazzo Campana.Lo storico, il cronista e l’enigma del potere
La scritta di vernice rossa recita uno dei “pensieri” più abusati del Grande Timoniere, il presidente Mao Zedong: «Il potere politico sta nelle canne dei fucili». Chi l’ha salvata, restaurandola come un affresco medioevale, ha ripristinato persino le sbavature del pennello, poi l’ha “strappata” dal muro e incollata su un supporto fermato con dei ganci di ferro: nello stesso punto di allora. Accanto, sulla sinistra, ce n’è una seconda. Monca, interrotta, come se l’umidità e la storia (o l’anonimo estensore) avessero voluto fissare nel tempo un enigma incompiuto, qualcosa che poi non si è realizzato. «Il potere è sulle...», si legge.
Giovanni De Luna adesso le guarda entrambe, dopo aver salito i 28 gradini che da via Carlo Alberto, passando per il portone seicentesco al numero civico 10, portano sino al primo pianerottolo dello scalone. Proprio lì, sotto la vecchia bacheca di legno che, in quei giorni, era coperta dai volantini “ciclostilati in proprio” e oggi ospita le foto dei “grandi matematici”, ci sono le scritte. I graffiti poveri e basici di quando, il 27 novembre 1967 e con 34 giorni di anticipo, qui cominciò il Sessantotto italiano: prima, addirittura, del Maggio francese, dell’invasione sovietica di Praga e nelle stesse settimane dei 50 anni della Rivoluzione russa. Ernesto Che Guevara, invece, era stato ucciso il 9 ottobre in Bolivia.
«Questi gradini li ricordo tutti», comincia a raccontare lo storico del Partito d’Azione e dell’antifascismo. «Ce li fecero fare i poliziotti con il sedere, uno alla volta, trascinandoci via di peso nel febbraio 1968. Era il quarto sgombero in poche settimane, ma non fu una cosa violenta: c’era, anche in quei momenti, la dimensione ludica, gioiosa, trasgressiva e pacifica delle nostre giornate. E aveva contagiato persino le forze dell’ordine. Ecco perché mi sono sempre chiesto se questa citazione di Mao e dei fucili sia stata scritta davvero nel novembre 1967 e non dopo, quando troppe cose cambiarono. Mao Zedong? Ne sapevamo molto poco all’inizio. Nella stanza a sinistra del pianerottolo, prima di quel novembre, ci si andava per giocare d’azzardo e a fumare. Era un bisca, con l’occupazione non ci mise piede più nessuno».
IL VENTO DEL MEKONG Torino, Palazzo Campana, sede unica allora delle facoltà umanistiche e scientifiche dell’ateneo subalpino: quel 27 novembre era un lunedì. A quattro passi dal Museo Egizio e da Palazzo Carenano, dov’era nato Carlo Alberto e che ospitava l’ufficio di Camillo Benso conte di Cavour e la sede polverosa del primo Parlamento Subalpino. L’ora, più o meno esatta, è stata ricostruita attorno alle 17: la prima occupazione, otto giorni dopo altre tensioni alla Cattolica di Milano. Nella città della Fiat, del Pei e della classe operaia e degli intellettuali del Partito d’Azione che hanno fatto la Resistenza, nella Torino stravolta dall’ immigrazione meridionale che riempe le catene di montaggio di Mirafiori, comincia a soffiare un vento che arriva dal delta del Mekong e dai campus statunitensi. Nel vecchio edificio, con le aule piccole e i tramezzi dipinti con colori orribili, gli studenti “scoppiano”. Da tre anni, l’Università italiana sta diventando davvero di massa (i 268 mila iscritti del 1965 sono saliti a 402 mila) e ora l’inadeguatezza delle sedi scatena un cracche, però, è culturale, di rapporti di forza, generazionale, politico.
De Luna aveva 24 anni e stava per laurearsi in giurisprudenza. Con lui, in una giornata già fredda e un po’ nebbiosa, nel tempio della cultura paludata e accademica, ci sono gli altri della “meglio gioventù”: Marco Revelli (intervistato sul n. 2 di Fq Millennium), Peppino Ortoleva, Andrea Casalegno, Vittorio Avanzini. Giuliano Mochi Sismondi, Luciano Bosio, Massimo Negarville. Sui giornali, stupefatti e impreparati a raccontare quegli eventi come la borghesia che li legge, si cominciano a conoscere nomi che saranno poi presenti per dieci anni nelle cronache della contestazione. Vittorio Rieser, Laura De Rossi, Guido Viale. Suscitano “scandalo” soprattutto alcune presenze: come quella di Luigi Bobbio (figlio di Norberto, il filosofo amico di Cesare Pavese e di Leone Ginzburg) o di Carlo Maria Donat-Cattin (figlio di un fratello del futuro ministro De del Lavoro). La Stampa, il giornale degli Agnelli, minimizza e titola: «Trenta studenti occupano l’Università. I giovani vogliono opporsi all’autorità della scuola». Nell’aprile 1968, tredici di loro finiranno per qualche giorno nelle celle del carcere Le Nuove accusati di violenze e minacce.
«Ecco, il problema oggi è proprio la memoria», riprende a ragionare De Luna che, dopo il 1967, è stato giornalista, professore universitario e, in mezzo, tra i fondatori (e tra coloro che ne decisero la fine) di Lotta Continua. «Con il mestiere che faccio, ho imparato a diffidarne. La memoria è volatile, tradisce anche chi fa lo storico, e poi cambia nel corso della nostra vita. Negli anni Ottanta, per esempio, ricordare quei momenti assumeva quasi una luce sinistra. Significava sentirci esuli in un “Paese da bere”, segnato dall’egoismo. Oggi? Diciamo che abbiamo elaborato il lutto. Per me, però, è difficile scegliere in che veste parlarne: il testimone nuota in mezzo ai fatti, lo storico invece sta sulla riva e osserva».
Il dialogo ora si sposta in una stanza del piano ammezzato del palazzo sorto, tra il ’600 e il ’700, come convento, ma poi usato dai Savoia per il ministero del lavoro e dalla dittatura fascista come sede del partito c della milizia. Lo liberarono i partigiani di Felice Corderò di Pamparato, il “comandante Campana” impiccato a un balcone dalle brigate nere: di qui il suo nuovo nome. L’ospite è Franco Pastrone, docente di fisica matematica e per anni direttore del dipartimento universitario intitolato a Giuseppe Peano. «Avevo 22 anni e c’ero anche io a Palazzo Campana», racconta. «Ero già vicino al Pei, rimasi in parte distaccato da quelle vicende. Ricordo tante cose giuste, tante speranze. Avevo quasi imparato a memoria il documento degli studenti di Pisa che chiedevano una riforma vera, la fine delle baronie universitarie. In questi corridoi e nelle aule di lezione c’erano anche professori prepotenti, gli esami in alcuni casi erano momenti di umiliazione ingiustificata. Il rito delle firme di presenza alle lezioni era impastato con la corruzione dei bidelli che le falsificavano. Poi ricordo anche tanta demagogia, le frasi fatte. Che cosa è rimasto? In fondo, la delusione: forse un’università meno baronale, ma che poi non è cambiata veramente».
IL BARONE E IL SUO PARQUET
Fu lui a guidare la ristrutturazione di Palazzo Campana negli anni Novanta: «Pretesi che fossero recuperate almeno quelle due scritte, prima che i decoratori le facessero sparire», spiega. «Non fu così invece nei sotterranei, dove i repubblichini avevano allestito le celle per gli arrestati che, prima di morire, riempirono i muri di disegni e parole: una forca, un “Mussolini crepa”. Gli operai dell’Enel hanno imbiancato tutto, per fortuna le fotografie sono conservate all’Istituto storico della Resistenza. Anche le aule delle assemblee non ci sono più, resiste solo il lungo corridoio del primo piano che, durante l’occupazione, ospitò il concerto dei Nomadi».
Ma è proprio la scrivania di legno scuro di Pastrone a riaccendere i ricordi di De Luna. Era quella di Giovanni Getto, uno dei “baroni” di allora, docente di letteratura italiana. «Forse l’esempio più vero per spiegare la sacralità del potere accademico che respingevamo. Teneva gli esami in uno stanzino con il parquet di legno e lo scaldava con una stufetta. Quando entravi, ti obbligava a usare delle pattine per camminare sul legno. Spesso, però, per superare il filo elettrico le perdevi ed era la fine: ti bocciava».
L’aneddoto dei soprusi di Getto ha cancellato la malinconia dagli occhi del testimone-storico. Così, all’improvviso, i giorni di Palazzo Campana sembrano riacquistare la frenesia e la giocosità. «Era un insieme di bisogno di vivere, di liberarsi, di buttare via tutto ciò che non ci piaceva. Il pretesto fu che, pochi giorni prima, il senato accademico aveva deciso di trasferire le facoltà umanistiche nella tenuta della Mandria, vicino alla Reggia di Venaria che allora era un immenso rudere. In realtà, era tutto un sistema che ci aveva spinti a quella scelta. Quando si ricostruisce quel periodo, si pensa subito all’influenza dei campus americani, a Berkeley. A me invece, chissà perché, viene in mente Volare di Domenico Modugno, e quella parola che è quasi il simbolo di un grido liberatorio che butta a mare l’Italia cattolica, democristiana, sessuofobica. Ai pilastri dell’ordine costituito, opponevamo la scommessa sul mondo».
Gli studenti di Palazzo Campana hanno letto Marcuse ed Hemingway, pochi conoscono Marx, ma hanno già il mito del Che. A ottobre, sono sfilati urlando: «Vietnam libero, Vietnam rosso». Alle spalle molti di loro hanno un buon liceo, ottime biblioteche casalinghe, famiglie borghesi e antifasciste che continuano a frequentarsi e nelle quali amicizie o amori si estendono alle nuove generazioni. E hanno anche attraversato l’impegno ormai deluso nei “parlamentini” studenteschi che scimmiottano i partiti tradizionali. «Durante l’occupazione», rievoca De Luna, «si svolsero le elezioni dell’Unione goliardica italiana, l’organizzazione di sinistra vicina al Pei e al Psi. Eravamo alla Camera del lavoro, a pochi metri da Palazzo Campana. Quando capimmo che stavano vincendo gli studenti legati ai partiti, feci un segnale a un compagno che spense la luce e facemmo sparire l’urna con le schede che bruciammo. Finì quasi in una rissa tra me e Giusi La Ganga, il futuro dirigente del Psi di Bettino Craxi».
IL PRIMO EVENTO GLOBALE
La realtà intemazionale spinge verso la ribellione: il Vietnam, la guerra di un popolo che usa le frecce contro i computer della grande potenza, le manifestazioni pacifiste dei giovani davanti alla Casa Bianca. Dopo sarà la volta della Primavera di Praga e la speranza in un comuniSmo diverso. Ma non è tutto: i ragazzi di Palazzo Campana lottano fischiettando le canzoni di Bob Dylan e dei Beach Boys, hanno già sentito parlare dei Figli dei fiori e del poeta beat Alien Ginsberg. «È la cultura giovanile che ci arriva dagli Usa. Ci insegna la non violenza, che abbiamo imparato più dalle canzoni di Dylan che da Gandhi, conosciuto ma ancora da leggere. È tutto il mondo che si muove e quello è stato davvero il primo evento globale della storia».
Con quel bagaglio, l’occupazione parte e durerà sino al 27 dicembre, poi si ripeterà altre quattro volte. Su Youtube, un raro filmato della Rai rilancia in bianco e nero alcune immagini di quelle ore. Nella prima parte, la cinepresa riprende i poliziotti davanti all’ingresso laterale di via Principe Amedeo: cercano di far entrare una piccola folla di studenti, mentre da dentro gli occupanti si oppongono. Chi è in strada, è vestito ancora secondo i modi classici della fine degli anni Sessanta: giacca, cravatta e impermeabile per i maschi, gonne lunghe, soprabiti e foulard per le ragazze, le montature degli occhiali sono robuste e severe, i capelli dei ragazzi sono corti, quasi nessuno ha la barba. «Quelli che volevano entrare erano i monarchici guidati da Luigi Rossi di Montelera spiega De Luna l’erede della famiglia proprietaria della Martini & Rossi che sarà poi rapito da Luciano Liggio e che diventerà “mister preferenze” nelle liste della De. Lo si intravede mentre tiene un piccolo comi zio con il megafono». Nella seconda parte, ecco un giovanissimo Luigi Bobbio che veste già alla maniera del ’68: camicia a quadrettoni e maglione girocollo. Manca ancora “l’eskimo innocente” di Francesco Guccini, ma Bobbio parla ormai sicuro davanti al microfono: «Chiediamo – dice – l’abolizione delle lezioni per una piena parità tra studenti e professori, e anche degli esami: sono una forma di controllo poliziesco e gerarchico». Nel palazzo si discute di giorno, ci si diverte la sera, si dorme nei sacchi a pelo la notte. E per la prima volta le ragazze restano fuori di casa e vengono a occupare. Ci si trova, si parla, si studia e ci si innamora, nei primi cortei si sfila assieme, con la stessa dignità. In quei giorni mutano per sempre il costume e il rapporto uomo-donna, un avvenimento assoluto, anche se poi la volgarità dei denigratori del ’68 liquiderà tutto con le battute sulle orge nelle aule. «In realtà riprende De Luna – cambiarono nello stesso tempo l’immagine femminile, l’estetica dei corpi, le dinamiche dei ruoli, i criteri di bellezza. Scompaiono le maggiorate, ma anche i loro equivalenti maschili: gli sciupafemmine. La scossa finale la dà l’avvento della pillola anticoncezionale. Nei corridoi dell’occupazione si scambiano informazioni sui ginecologi che la prescrivono, si ridimensionano i tabù, il senso del pudore».
Tutto si accelera nel “Palazzo del 1967” e si crea rapidamente, le idee si moltiplicano come le parole d’ordine. Nascono i “controcorsi” e sono la vera “rivoluzione”, il sogno realizzato in quel castello di una cultura “nemica” e adesso espugnata. Nessuno guarda in faccia nessuno, nulla viene perdonato. Non conta, per esempio, che il “magnifico rettore” torinese sia quel Mario Allara (insegna, con teorie un po‘ bislacche, diritto privato) insediato dopo il 25 aprile 1945 dal Cln piemontese: del “sistema” non si accetta più niente. A lui si ispira il manifesto dell’occupazione: il mezzo busto di un manichino, con il volto di un teschio, il parruccone d’ordinanza (lo si usava ancora nel senato accademico) e un coltello conficcato nel petto accanto a due medaglie. Lo si può ancora acquistare su Internet, al costo di 600 euro e lo slogan è, ovviamente, «contro l’autoritarismo accademico, potere agli studenti». Gli occupanti hanno il diritto di veto verso chi non vogliono lasciar entrare («i professori, essenzialmente»), ma non c’è davvero violenza, per il momento, nei gesti e negli atti dei primi contestatori. «Coltivavamo un’idea positiva e ottimista».
Nel Rettorato di via Verdi 8, i “baroni” cacciati dal tempio tengono le lezioni per chi non vuol partecipare ai controcorsi, ma Palazzo Campana trabocca di studenti: nelle vecchie aule si studiano Marcuse e la Scuola di Francoforte, la storia deH’America Latina e dell’Indocina, sviluppo capitalistico in Italia, psicanalisi e repressione sociale. E gli esami, e i voti? È l’argomento più spinoso, che fa storcere il naso anche a molti progressisti. Giorgio Bocca arriva a Torino da inviato e scrive parole non troppo tenere: «I professori sono invitati dagli studenti a discutere il loro ruolo. In pratica devono stare in mezzo a un’assemblea vociante da cui vengono informati che il loro ruolo è dannoso o inutile... E così gli studenti ottengono che invece delle lezioni tradizionali, in cui bene o male imparerebbero qualcosa, sì tengano dei dibattiti e dei controcorsi sul pensiero di Mao...». Fabrizio Dentice, de L ’Espresso, riesce, dopo estenuanti trattative, a intervistare i leader, ma deve versare un un «obolo» di 50 mila lire per finanziare l’occupazione. Due settimane dopo, la tariffa è già raddoppiata.
Nel “sistema” da abbattere, però, rientrano anche “i padri”, in qualche caso professori in quelle stesse aule: come Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone. «Qui insegnava anche Michele Pellegrino, che poi sarà arcivescovo e cardinale di Torino», aggiunge Pastrone. «Aveva la cattedra di letteratura cristiana antica e girava nei corridoi con la talare su cui aveva fatto cucire un taschino pieno di penne. Era il più affabile, il più semplice». E si dividono soprattutto gli intellettuali azionisti che De Luna racconterà poi nella sua Storia del Partito d’Azione: «Con Bobbio e Galante Garrone ci fu un rapporto dialettico, di dialogo, chi si schierò dalla nostra parte, anche personalmente, fu invece lo storico Guido Quazza. Altri invece, anche loro azionisti come Franco Venturi e Aldo Garosci, si arrabbiarono molto con noi». Antifascisti, combattenti per la libertà, hanno conosciuto le galere fasciste, il confino e l’esilio, hanno visto morire i loro amici, e non sopportano l’attacco all’Università che ritengono un caposaldo della democrazia che hanno contribuito a far risorgere. Venturi è appena rientrato da un corso di insegnamento negli Stati Uniti e non intende transigere. Un sarcastico volantino del febbraio 1968 fa la cronaca del suo tentativo, ostinato e combattivo, di tenere comunque la lezione di storia in una normalità ormai perduta e secondo dei canoni che, di fatto, non esistono più: «Venturi show, gli urlatori della cattedra. Appena uno alza la mano, risponde il grido del professore: Lei non può chiedere la parola! Finché la lezione non è iniziata! E sono io che dichiaro aperta la lezione!...».
BOBBIO CON GLI STUDENTI
Norberto Bobbio si muove diversamente, ammette la veridicità di alcune critiche studentesche. «Il professore ha la libertà (giusta libertà) di scegliere entro certi limiti come deve fare lezione», scrive. «Non ha la libertà di non farla. Per quanto la retorica ufficiale proclami che tutti i professori fanno il loro dovere, ognuno di noi sa che non è vero. Ogni professore ha la sua tendenza a far Yimperator in regno suo».
Adesso però, nella rievocazione di questi cinquant’anni, è giunto il momento più difficile: quello di fare i conti con ciò che venne dopo. La violenza, gli “anni spietati”, i giovani che scoprivano la “critica delle armi”. De Luna, per quanto lo riguarda, ha cominciato a farli nel 1976, quando si sciolse Lotta Continua il cui servizio d’ordine aveva già alimentato i terrorismi di Senza tregua e poi di Prima linea. «Fu la perdita della dimensione ludica. Nel giudicare, però, non bisogna mai scordarsi della strage di Piazza Fontana e della rottura che segnò nelle coscienze di molti. Il ’68 durò dieci anni e terminò davvero nel 1978, l’anno del sequestro Moro. Ma quell’esperienza, è bene non dimenticarlo mai, fu immersa profondamente, in Italia come nell’Europa della Spagna di Franco, della Primavera di Praga, della Grecia dei colonnelli e dell’Irlanda dell’Ira, nell’uso della violenza che ha attraversato il Novecento, tra il 1914 e il 1989, partendo dalla grande carneficina della Prima guerra mondiale. Ecco, l’Europa si è congedata dalla violenza solo con la fine del Novecento, un secolo nel quale la politica e il suo esercizio sono stati geneticamente segnati proprio dalla violenza».
Le ultime battute arrivano vagando ancora per i corridoi, alla ricerca delle vestigia del novembre 1967. Che cosa resta allora di quei giorni? Solo la “delusione” di cui parla Pastrone? De Luna risponde mentre scende lo scalone e ripercorre di nuovo i 28 gradini: «L’orgoglio di aver anticipato la modernità. Aver avuto vent’anni allora e non aver vissuto Palazzo Campana, secondo me, è uno choc dal quale non ti riprendi più. Chi oggi è più livoroso contro quelle vicende, forse lo è proprio perché non c’è stato. Poi c’è l’indulgenza per le cazzate che dicevamo e le durezze assurde che abbiamo compiuto. Con le mie figlie parlo poco di quell’esperienza: non c’è nessuno di noi che sia diventato un maestro, non abbiamo lasciato discepoli. Eravamo estranei al potere e volevamo mettere la maggiore distanza possibile dai poteri: così alcuni di noi, dopo, sono finiti ad adorare compiaciuti il potere, mentre altri hanno mantenuto una estraneità assoluta al potere».
E il congedo, mentre il portone di via Carlo Alberto 10 si chiude. E, forse, è anche la risposta all’enigma incompiuto («Il potere è sulle...») della scritta rossa di 50 anni fa.