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 2017  ottobre 18 Mercoledì calendario

Il nuovo linguaggio delle femministe

A Venezia, il 25 novembre prossimo, sarà presentato il “Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’informazione” (respiro) «contro ogni forma di violenza e discriminazione attraverso parole e immagini». Ed è già chiara la prima vittima: la sintesi, perché un tempo sarebbe bastato scrivere «manifesto dei giornalisti per la parità tra uomini e donne» ma ora no, bisogna scrivere «giornaliste e giornalisti» (entrambi, e prima le donne) e la parità è sempre «di genere». Il linguaggio è così stereotipato che anche l’inizio del Manifesto («Sistematica, trasversale, specifica, culturalmente radicata...») basta cercarlo su google e risulta identico a un articolo di Brunella Gasperini su “D” di Repubblica, 3 agosto 2016: «La violenza di genere è sistematica, trasversale, specifica e gravissima, culturalmente radicata...». Quindi o è la stessa tizia che ha scritto il manifesto (e ha copiato da se stessa) o altri hanno copiato e basta. Gli altri sarebbero il Sindacato Giornalisti Veneto più le Commissioni pari opportunità della Federazione della stampa e del sindacato Usigrai, più varie associazioni regionali dei giornalisti. Bene, ma a noi che ce ne importa? Ce ne importa perché è un manifesto che segna il conformismo parolaio e l’autentica moda (moda, sì) verso cui sta andando questo Paese, abituato a muoversi per riadattamento di quanto avviene nel nord del mondo. 
CULTURA DEL TEMPO 
Parte del Manifesto lascia lascia stucchevolmente il tempo che trova, con quella “langue du bois” che è tipica dei burocrati. Sono due pagine. Nella prima si dice che la convenzione di Istanbul (2013) ha sancito che la violenza contro le donne è ancora diffusissima e che bisogna raggiungere l’uguaglianza, poi dice che che anche l’informazione ha un certo ruolo. E sta bene. Nella seconda pagina si passa a ciò che i firmatari ritengono «prioritario», e allacciate le cinture. Sono dieci punti e ne riporteremo solo alcuni. Passiamo direttamente al punto 3: «Adottare un linguaggio declinato al femminile per i ruoli professionali e le cariche istituzionali» eccetera. Ecco: già questo se lo possono scordare. La battaglia per declinare al femminile certi ruoli storicamente riservati a uomini non pare abbisogni di strappi o forzature, e seguiterà a fottersene di regolette imposte a chi è cresciuto con la cultura del suo tempo. Se molti dicono «maestra» o «contadina» ma faticano a dire «ministra» o «assessora», una ragione c’è: anzitutto perché, a chi non è abituato, suonano da schifo, anzi, scrivere «sindaca» pare denigratorio o una presa in giro. Inoltre, non serve la regoletta imposta con arroganza: serve la consuetudine che scaturisce da una parità professionale progressivamente raggiunta (col tempo, non con le regole) e che si attenga alla realtà. Si dice da sempre, e senza problemi, “la” preside e “la” maestra: perché sono sempre state la maggioranza, fine. C’è, poi, la questione scrittòria e giornalistica: io, per esempio, continuerò a scrivere «la Boldrini» e non «Boldrini», perché trovo che mettere l’articolo mi dia un’informazione in più. Per la stessa ragione continuerò a scrivere «signora presidente» o «signora ministro». 
Il punto 5, perlomeno da queste parti, equivale a una dichiarazione di guerra nel suo intimare l’obbligo di «utilizzare il termine specifico femminicidio per i delitti compiuti sulle donne in quanto donne». Anzitutto non è sempre facile stabilire se una persona sia stata assassinata «in quanto donna» o in quanto altre cose, dopodiché va rilevato che la maggioranza spesso fa proprio il contrario, ossia, ogni tanto, prende a chiamare «femminicidio» l’omicidio di qualsiasi femmina. Cominciamo col chiarire che il femminicidio espressione odiosa, perché esiste solo l’omicidio è da intendersi come omicidio di donne da parte di conoscenti o partner, punto. Dopodiché, a proposito di «rispetto della verità sostanziale dei fatti», non c’è tema sul quale sia stata fatta più mistificazione: ogni campagna di sensibilizzazione è legittima, ma sul tema è stato detto che il fenomeno è in aumento quando invece è in netto declino, è stato detto che sono tanti quando la media è nettamente inferiore a quella europea, è stato detto che trattasi di «eredità arcaica» ma i femminicidi sono più frequenti nel norditalia. 
Punto 6: «Evitare che ci siano violenze di serie A e di serie B a seconda di chi sia la vittima e chi il carnefice». Ma il rischio è proprio l’inverso, cioè che la denuncia di una discriminazione ne produca un’altra. Ricordo una prima pagina che in apertura aveva la notizia di «due femminicidi» e più in basso, con minor importanza, c’era la notizia «Ferito dalla moglie, finito dalla figlia». Fanno tre omicidi di stampo familiare, ma l’agenda politico-sociale aveva dettato un fisiologico ordine d’importanza. E sarà sempre così, a seconda di quella che sarà percepita (o decisa) come l’emergenza sociale del momento. 
FACOLTÀ DI SCELTA 
Punto 7: «Illuminare tutti i casi di violenza, anche i più trascurati come quelli di prostitute e transessuali, utilizzando il corretto linguaggio di genere come raccomandato dalla comunità LGBT». Allora: anzitutto, in Italia, ci sono abbastanza omicidi da determinare una macabra facoltà di scelta; in secondo luogo, il discorso dovrebbe valere anche per tutti gli eventi perennemente “notiziabili” (morti sul lavoro, suicidi, bullismi) che ci sono giornalmente: ma che a decidere le priorità sia un direttore oppure “il pubblico” è ancora meglio, a nostro dire, che a deciderlo siano gli estensori di un manifesto. Ultimo appunto: del «corretto linguaggio di genere raccomandato dalla comunità LGBT» ce ne si può anche fottere, con permesso. 
Punto 8: «Evitare ogni forma di sfruttamento a fini commerciali (più copie, più clic, più ascolti) della violenza sulle donne». E qui l’unico commento è: ciao core. Chiudete tutta la stampa italiana, le tv e internet. 
Alla fine del manifesto, sotto il punto 10, c’è una serie di norme liberticide che spiegano in maniera generica che cosa si deve scrivere o non scrivere. Tipo: non usare termini «fuorvianti come amore, raptus, follia, gelosia e passione accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento». Da capo: servirebbe un Freud da scrivania per avere la certezza che gli omicidi siano sempre dettati da volontà di possesso e annientamento e mai da amore, raptus, follia, gelosia e passione. Chi scrive, per esempio, pensa che gli omicidi siano talvolta dettati da amore, raptus, follia, gelosia e passione. Infine: c’è un passaggio in cui si intima di evitare «immagini e segni stereotipati che riducano la donna a mero richiamo sessuale o oggetto del desiderio». Divertente: come se non ci fossero anche tante donne che fanno di tutto per “ridursi” a richiamo sessuale assolutamente da sole. Senza contare che ciò che corrisponde a richiamo sessuale per me, magari, non lo corrisponde per te. C’è gente che si eccita guardando le suore, altri che davanti a un film porno si addormentano. Da capo: chi sarebbero i giudici? I firmatari, intanto, aspettano firme.