Il Sole 24 Ore, 18 ottobre 2017
Sui rottami di rame la Cina ha già iniziato ad alzare la guardia. Il prezzo del metallo rimane sopra 7mila dollari
Ottimismo sull’economia cinese, previsioni di scarsità dell’offerta e un ritorno di interesse da parte degli speculatori sono le cause più evidenti del rally del rame. Ma c’è anche un altro fattore, meno visibile, che ha contribuito a portare i prezzi oltre 7mila dollari per tonnellata, una soglia che era rimasta inviolata per tre anni e che anche ieri è stata mantenuta. Proprio in questi giorni è riemerso il timore che Pechino possa avere la mano pesante nel limitare le importazioni di rottame, facendo così aumentare la necessità di rifornirsi all’estero di metallo e concentrati. La notizia di possibili restrizioni a fine luglio aveva scatenato un’ondata di acquisti sul metallo rosso, che ne aveva spinto le quotazioni a 6.400 dollari, all’epoca un record da due anni.
Shanghai Metals Market (Smm), una società di consulenza cinese che ha un sito molto seguito in lingua inglese, ha appena pubblicato un report in cui sostiene che già oggi è diventato più difficile importare rottame di rame dall’estero e che dal 2018 i commercianti di rottame – da cui passa il 20% dell’import, ossia 260mila tonnellate l’anno – saranno completamente tagliati fuori dalla catena di approvvigionamento: solo gli utilizzatori finali potranno avere la licenza per acquistare dall’estero.
Sulle normative c’è tuttora molta incertezza, ma quest’estate era sembrato che le restrizioni sul rottame di rame sarebbero entrate in vigore non prima del 2019.
Forse anche per questo l’import cinese di metallo raffinato, dopo essere rimasto stabile per mesi, è aumentato del 26,5% in settembre, a 430mila tonnellate, il massimo quest’anno.
Anche il Metal Bulletin a fine settembre aveva lanciato l’allarme, citando fonti riservate secondo cui attraverso il ministero dell’Ambiente e le autorità doganali «la Cina sta già attuando alcune restrizioni sull’import, tagliando le quote e limitando il numero di licenze in alcune regioni del Paese». «Tutte le licenze – avvertiva la newsletter – dovranno essere rinnovate nel quarto trimestre e i trader non saranno più in grado di assicurarsene una per il 2018».
Il cambio di passo, coerente con la nuova attenzione di Pechino verso l’ambiente, è evidente e in alcuni settori, estranei ai metalli, ha già seminato il caos. I problemi – di cui alcuni Paesi hanno interessato anche la Wto – per ora riguardano soprattutto l’industria del riciclo di plastica, carta e tessili.
La Cina non vuole più essere la discarica del mondo e ha deciso di mettere un limite alle enormi quantità di spazzatura che fino a pochi mesi fa varcavano i suoi confini. Le ripercussioni sono state importanti soprattutto negli Stati Uniti, primi al mondo nella produzione di rifiuti, che improvvisamente si sono ritrovati a dover gestire cumuli di raccolta differenziata, ai quali un tempo provvedevano i cinesi. Il Wall Street Journal cita cifre dell’Institute of Scrap Recycling Industries (Isri), secondo cui Washington l’anno scorso aveva esportato “spazzatura” per ben 16,5 miliardi di dollari. In Cina erano finiti carichi per un valore di 3,9 miliardi, con percentuali altissime per alcuni materiali: oltre due terzi nel caso della carta da macero, il 40% nel caso della plastica.
Anche l’Europa comincia ad avvertire l’impatto. La Cina l’anno scorso aveva assorbito 1,62 milioni di tonnellate di plastica di riciclo dal Vecchio continente, oltre la metà delle esportazioni, che ora faticano a trovare una destinazione alternativa.
.@SissiBellomo