la Repubblica, 17 ottobre 2017
Peshmerga tra Kirkuk e Raqqa. È la battaglia del Kurdistan nella terra di mezzo del mondo
Intorno alla cittadella di Erbil, i negozi di materiale militare propongono zaini tattici e giubbotti antiproiettile a prezzi scontati. Sotto i banconi ci sono articoli più pesanti, come i Kalashnikov che i combattenti curdi esibiscono al fronte. I Peshmerga, “coloro che fronteggiano la morte”, sono in prima linea in Iraq e nelle prime pagine di tutto il mondo. «Si arruolano anche a sessant’anni, comprandosi le armi da soli, e suppliscono con l’entusiasmo alla mancanza di mezzi o alla forma fisica non perfetta», raccontano gli istruttori italiani. Al di là della frontiera, i guerrieri curdi delle Unità di protezione popolare Ypg guidano in queste ore le Forze di difesa siriane – di cui sono la spina dorsale – nelle ultime fasi della liberazione di Raqqa dallo Stato islamico. L’inquadratura politica è diversa, la tradizione militare è la stessa.
Proprio a Kirkuk, vicino alla statua del Peshmerga alta venti metri, i combattenti curdi si sono visti rivolgere contro le armi dagli alleati di ieri. I soldati iracheni, che avevano abbandonato Kirkuk allo Stato islamico, non mostrano gratitudine ai curdi che la difendono dal 2014, al contrario devono riprenderla, assieme agli immensi giacimenti che vi stanno sotto. Apparentemente i Peshmerga hanno tutti contro: Baghdad, Ankara, Teheran e persino Damasco, convinte che non sia ancora arrivato il momento giusto per il più numeroso popolo senza terra del pianeta, 35 milioni di curdi (più di metà degli italiani), le cui aspirazioni sono sempre finite nel nulla in nome degli equilibri globali.
Stavolta però la strategia pacata del presidente Masoud Barzani potrebbe avere qualche possibilità in più. Lo fa pensare il fatto che la stessa offensiva irachena sia rivolta soltanto contro Kirkuk, che non era compresa nei confini del Kurdistan e che potrebbe essere stata presa per poi cederla come “merce di scambio”, con i giacimenti, per una trattativa sull’indipendenza.
Sembra crederlo Mosca, che ha firmato con Erbil ricchi contratti estrattivi e vuole costruire un nuovo gasdotto per il gas curdo attraverso la Turchia. Il Cremlino ha espresso tiepida preoccupazione per l’instabilità della regione, ma quest’estate il ministro degli Esteri, Sergeij Lavrov, aveva sottolineato la necessità di accontentare le aspirazioni a una patria curda. Anche quella di Washington è una “non-condanna”. L’Amministrazione Trump era contraria al referendum, che avrebbe messo preziosi alleati gli uni contro gli altri. Ma dopo tutto almeno 1.700 Peshmerga sono caduti per fermare i jihadisti di Al Baghdadi. Così ora gli Usa cercano di “raffreddare” la crisi, chiedendo alle parti di negoziare. E la richiesta stessa di una trattativa corrisponde a una scelta di campo, sia pure prudente, in favore di Erbil. Gli Stati Uniti vogliono raddrizzare gli errori commessi con l’invasione del 2003 e consolidare il proprio radicamento in declino, anche per contrastare l’influenza crescente dell’Iran. Di questa strategia fanno parte le dieci basi militari aperte nel Rojava, l’entità curda all’interno dei confini siriani: difficile che i marines sgombrino in fretta, liquidato lo Stato islamico, per dar via libera alle truppe di Assad e ai consiglieri russi. In più, i cattivi rapporti con Erdogan rendono difficile l’uso della base Nato di Incirlik e indispensabile trovare altri punti d’appoggio nella zona.
Un sostegno di cui, scriveva Time, i curdi farebbero volentieri a meno, è quello di Israele: il governo Netanyahu sostiene il Kurdistan indipendente, limitandosi a prendere le distanze dal Pkk. La scelta, che pure irrita l’alleata Turchia, è interpretata in chiave anti-iraniana.
Non è ben chiaro fino a che punto sia autentica l’irritazione turca: l’ipotesi di un intervento militare non è esclusa, tanto che le autorità curde sono corse a smentire la presenza di guerriglieri del Pkk a Kirkuk, pretesto che Ankara avrebbe potuto usare per attaccare. Ma le minacce verso Erbil sembrano in realtà dirette ai curdi della Turchia, perché non si azzardino a sognare avventure indipendentiste. Può essere un segno in questo senso il fatto che nonostante la tensione il petrolio curdo continua a scorrere attraverso l’oleodotto che passa in Turchia.
Mentre il governo siriano adotta un approccio di modesta apertura, gli unici decisi a muoversi in concreto contro il Kurdistan sembrano essere gli iraniani, che vedono uno Stato curdo indipendente come ostacolo alla loro influenza e all’alleanza sciita con Baghdad. La Repubblica islamica ha spedito l’uomo forte delle unità speciali, il generale Qassem Suleimani, a sovrintendere le operazioni nel nord Iraq. Difficile non leggere come provocazione voluta e cercata lo scontro di ieri sera delle milizie sciite di Hashd al-Shaabi con i Peshmerga, in cui dieci guerrieri curdi sarebbero stati decapitati.