la Repubblica, 15 ottobre 2017
Quando in casa avevamo il canapè
Quante parole dell’italiano conosciamo? Circa duemila sono di uso frequentissimo, secondo i calcoli del compianto Tullio De Mauro, e costituiscono il “lessico fondamentale” della nostra lingua; se vi sommiamo 2.500 parole “di alto uso”, che anche chi è poco istruito riesce bene o male a capire, potremmo sostenere che la stragrande maggioranza dei parlanti italiani è in grado di comprendere circa 4.500 parole (molte di meno quelle effettivamente usate), che coprono poco più del 95 per cento di tutto quel che normalmente diciamo. Per le persone di media cultura la quota delle parole comprese aumenta di diverse migliaia di unità: alle circa duemila parole di terza fascia, dette “di alta disponibilità” ( anch’esse più o meno di uso quotidiano), che possono arrivare a coprire un ulteriore due per cento dei nostri normali discorsi, se ne aggiungono moltissime altre, tra formali o raffinate, precise o specialistiche, gergali o regionali e così via. La dotazione di un parlante molto colto può rasentare le cinquantamila parole. Fra queste anche vocaboli non più in uso.
Come muore una parola, e perché? Si spegne in genere lentamente, dopo una lunga fase di agonia, spesso venendole a mancare il sostegno del referente, astratto o concreto, che le è toccato in sorte di indicare. Cambiano le mode e le tendenze; mutano i costumi, i comportamenti, le abitudini; s’innovano pratiche, tecniche, tecnologie; nuove idee, visioni e percezioni del reale, nuove cognizioni e concezioni del mondo soppiantano le vecchie; le invenzioni ultime arrivate spediscono in soffitta quelle che le hanno precedute; le istituzioni del passato cedono il passo a quelle del presente. Il ricambio lessicale, in una lingua, è conseguenza di tutto questo e di molto altro ancora. A testimoniarlo, nella nostra, i termini di ausilio alla memoria dei classici, in molti casi parte del cospicuo lascito di una tradizione lirica che non ha ancora smesso di parlarci: aura e desio, atro e periglio, ermo e romito.
Oppure, e sono numerosissimi, i vocaboli che fotografano il passato dell’abbigliamento o dell’arredamento, dei mezzi di comunicazione o di trasporto, delle professioni e dei mestieri; della vita quotidiana coi suoi riti, i suoi ritmi, le forme del suo svolgimento, i suoi oggetti di uso comune; dell’immaginario collettivo e delle sue tante manifestazioni, tra reali, mitiche o fantastiche: il trumeau e il canapè; il paggio e lo staffiere; il cembalo scrivano e il piccione viaggiatore; la ghetta e la gorgiera, la crinolina e il giustacuore; il cocchio e la biga, la corriera e il vetturino; il pallottoliere e l’abbecedario, il mangianastri e il mangiadischi; creso e apollo, la lonza e il color perso, il grifone e il liocorno, il centauro e l’arpia. Una determinata parola non è però detto si estingua per sempre. Può tornare a rivivere all’improvviso, anche rientrando in circolazione dopo secoli di oblio e perfino numerose volte, carsicamente: s’inabissa e riaffiora, per reimmergersi ancora e andare nuovamente giù e di nuovo ritornare su. Spesso nemmeno muore davvero, non essendo mai davvero vissuta. Vive di una vita sotterranea, nell’attesa di potersi esibire sul palcoscenico del mondo. Come respingimento: attestata per la prima volta nel Cinquecento, e di rado nei due secoli seguenti, gode di una certa fortuna fra Otto e Novecento ed esplode, negli anni a cavallo del Terzo millennio, solo coi respingimenti dei migranti alle frontiere.
Quali parole salveresti “per scrivere il futuro”? È la domanda che accompagnò la sesta edizione ( 2009- 2010) di un premio di scrittura bandito dalla Zanichelli. Se una parola è a rischio di estinzione, e sentiamo il bisogno di continuare a tramandarla, potremmo volerla salvare perché ne avvertiamo ancora la rilevanza, o perché siamo consapevoli che la forza di una lingua passa anche per la stratificazione del suo patrimonio lessicale e per l’eleganza, la grazia, la raffinatezza di tanti suoi preziosi vocaboli, sebbene poco comuni: blaterare o rilucere, stentoreo o tracotante, morigerato o cupidigia, degnazione o verecondia. Le dieci parole più votate fra le duecento allora selezionate dalla redazione dello Zingarelli furono, nell’ordine: zotico, uggioso, artefice, oblio, abominio, arduo, duttile, ameno, bislacco, ciarpame. Tra le motivazioni addotte dai partecipanti per queste e molte altre, oltre al loro potere di evocazione di versi e prose letterarie, ambienti e atmosfere culturali: l’insostituibilità, l’unicità, la perfezione delle prescelte; la loro dolcezza, corporeità, musicalità, lucentezza; la loro capacità di ravvivare ricordi personali ( la tenerezza delle nenie infantili e i primi amori adolescenziali, i motivetti che cantavamo da giovani, i fumetti che leggevamo o i film che vedevamo, il radicamento nella sapidità popolare e sanguigna di paesaggi d’altri tempi).
Denominatore comune della preferenza accordata all’uno o all’altro termine fu la sorprendente consapevolezza degli utenti del valore magico del lessico, della sua capacità di schiudere orizzonti da mozzare il fiato, delle infinite personalità accolte al suo interno. Fra i commenti più belli quest’omaggio alla lingua come atto gratuito, a difesa di aulente: “Parola dal suono così dolcemente evocativo che meriterebbe di essere salvata anche se non significasse nulla…”.
Protervia, decoro o sussiego, difficilmente sostituibili con sinonimi che calzino a pennello, sono altre fra le tante parole “da salvare”. Le loro identità verbali lavorano per la causa delle sfumature e delle differenze, si ergono a baluardo di una varietà che non si lascia intimorire né dalle minacce dell’omologazione né dalle pretese di chi vorrebbe sbiadire o rendere incolore il mondo, cancellarne il caleidoscopio di valori, sensibilità e facoltà di scelta sotto una misera passata di vernice. Si prenda corrivo. È spesso abbinato a stile, ed è allora sinonimo di superficiale o banale, ma la facilità negativa di chi parla, scrive o pensa in modo corrivo è altra cosa se applicata all’idea che lasciamo correre, distratti e un po’ colpevoli, quando dovremmo invece intervenire: se siamo corrivi verso i nostri figli dimostriamo nei loro confronti un’eccessiva tolleranza, cedevolezza, condiscendenza. Un terzo significato di corrivo, più o meno letterario e assai prossimo al secondo, emerge da espressioni come corrivo a credere, a giudicare, ad assecondare un bisogno; qui si afferma, di una persona corriva, che è troppo incline, portata, propensa a lasciarsi prendere dall’impulsività, dall’imprudenza o dall’avventatezza.
Le parole che rischiano di scomparire sono state contrassegnate nello Zingarelli dal fiore delle carte. Si è aggiunto al segno di quadri, che accompagna le parole dell’italiano fondamentale. Se ai fiori e ai quadri si affiancassero i segni di picche e di cuori potremmo iniettare nel dizionario un pizzico di senso civico: picche per marcare le parole dell’odio, scritte o pronunciate nei confronti di categorie di persone discriminate ( dai neri ai gay); cuori per le parole speciali degli affetti, dei sentimenti più intimi o riposti.