Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  ottobre 15 Domenica calendario

Torna a casa lessico

In una passata edizione, l’illustrazione di copertina del vocabolario Zingarelli riproduceva la sezione di un vulcano. Ora si celebra il centesimo compleanno di questa veneranda istituzione lessicografica (le dispense della prima edizione compilata da Nicola Zingarelli cominciarono a uscire nel 1917) e a ripensarci la trovata del vulcano non era del tutto bislacca, come invece mi apparve all’epoca. A parte le lettere iniziali e finali, vocabolari e vulcani non paiono avere molto in comune: il binomio sfiora l’incongruenza di quello fra asparagi e immortalità dell’anima di cui Achille Campanile si fece sagace analista. Scrivere un vocabolario è una fatica erculea, uno slancio estremo di razionalità umana, la stessa razionalità di cui la benedetta tecnologia che oggi allevia il lavoro del lessicografo è comunque frutto. Di umano e razionale un vulcano non ha invece proprio nulla, e la sua attività è anzi una delle più spaventose manifestazioni dell’indifferenza che la Natura riserva a noi e ai nostri conati logici.
Ho parlato di “istituzione” e razionalità, caratteri che si riscontrano nella corrispondenza ordinata fra lemmi (i vocaboli da definire) e definizioni ( significati articolati per accezioni) che ricorda quella fra reati e pene depositata nei codici. Il vocabolario è esso stesso un codice. Non può però sfuggire che attorno a questo totem e alla sua ritta autorevolezza si aggirano devoti non esenti da bizzarrie e devianze. La biografia che James Boswell dedicò al suo amico Samuel Johnson (1709-1784), l’autore dello storico dizionario della lingua inglese, dimostra con quanta disinvoltura rigore ed eccentricità si contendano l’animo del vocabolarista. Decenni fa un editore mi confidò che l’autorevole vocabolario da lui pubblicato contemplava per burla una parola in realtà inesistente. Sulle prime sospettai che la vera burla fosse quella che lui stava giocando a me in quel momento, sapendo che la caccia a quell’asserito lemma- fantasma mi avrebbe snervato. Ma poi trovai davvero in quelle pagine una parola di totale stravaganza e ignota a tutti gli altri vocabolari ( parola che scomparve quando intervenne l’archiviazione digitale dei lemmari). Me ne accorsi leggendo il vocabolario, certo: perché se ci si limita a consultarlo rapidamente quando se ne ha bisogno, il vocabolario si incapriccia, risponde di malavoglia, la sua voce si fa fessa e, quando lo chiudiamo subito dopo averlo aperto e aver controllato il solo vocabolo che ci interessa, fa il rumore di una porta sbattuta per dispetto. “Amore. Intenso sentimento di affetto, inclinazione profonda verso qlcu. o qlco.”. Perché limitarsi a ciò? Risalendo alle voci precedenti e rimontando sopra “amorazzo” ci accorgeremo forse per la prima volta della somiglianza, ingannevole ma fascinosa, fra “amore” e “amorale”. Esplorando poi i termini della definizione, si registrerà una certa curiosa ricorrenza del termine “inclinazione” e si scoprirà così che il significato letterale di un termine può essere spiegato ricorrendo a una metafora. Amiamo, ci incliniamo.
Leggere un vocabolario è dunque come osservare un oggetto comune o anche una parte del proprio corpo sino a che non ci sembrino del tutto desueti. Fuori dallo stereotipo retorico, la Luna può essere molto meno interessante del dito che la indica. A proposito di astronomia, il più formidabile lettore di vocabolari che ho conosciuto si chiamava “Marte”, o almeno questo era il suo pseudonimo da enigmista. Accanitissimo risolutore, non si fermava di fronte ad alcuna difficoltà. Una volta doveva cercare un certo anagramma fra parole di sette lettere e già alla lettera A gli parve di aver trovato la coppia giusta, costituita da due arcaismi: “allotta” (= allora) e “attolla” ( da “attollere”, innalzare, sollevare). Un’altra volta insistette su un termine che aveva ricostruito per via d’anagramma e sullo Zingarelli non c’era: “cianoblepsia”. Fu dileggiato sino alla consultazione di una Treccani, in cui il termine era registrato (è il nome di un’affezione visiva che colpisce la gamma dei blu).
Oggi è però una forma di eccentricità già la sola abitudine di consultare vocabolari. Google scioglie i dubbi del momento rimandandoci a strumenti digitali ( e semplificati) comodi e veloci. Danno di ogni parola una versione come monodimensionale: ci informano su di essa senza farcela davvero conoscere. Ma sui social network si osservano dispute sul significato di una parola o l’altra senza che nessuno dei contendenti pensi di andare a controllare su un vocabolario (e magari più d’uno). Del resto capitò anche a Carmelo Bene e Vittorio Gassman, che a un certo momento si dettero l’un l’altro dell’ignorante a proposito del significato della parola “ossimoro” ( e, se la memoria non inganna, avevano torto entrambi. Simpatici). Ma non è solo per il significato che si può, e si dovrebbe, impiegare il volumone o una delle più recenti, e pratiche, sue disincarnazioni ( ebook, app). La struttura delle voci dello Zingarelli è fissa: vocabolo; eventuale indicazione di marchio registrato; trascrizione fonematica ( nelle edizioni elettroniche viene eseguita in un file audio); eventuali varianti di forma; etimologia ( con indicazione dell’anno della prima attestazione: misoginia, 1598); qualifica grammaticale; sezione morfologica ( formazione di flessioni: plurali, femminili, verbi ausiliari e forme irregolari); sezione semantica; sinonimi, contrari, analoghi; alterati e sottolemmi. Alcune voci poi possono essere integrate da una o più sezioni speciali: una “definizione d’autore” (la definizione di “fango” data dal rugbista Mauro Bergamasco comincia così: “Il fango si plasma e ci accoglie quando cadiamo, è l’impronta della terra sui nostri corpi, memoria della lotta …”); una breve analisi delle sfumature di significato ( alla voce “maleducato” si trattano le differenze con “incivile”, “villano”, “cafone”); inserti di nomenclatura. Queste due ultime sezioni sono quelle con cui il vocabolario lenisce il rimpianto di non essere un thesaurus, opera complementare che non abbina lemmi a significati ma li associa per grandi campi semantici. Così la tavola nomenclatoria di “scuola” elenca: tipi di scuola (pubblica, privata, inferiore, superiore…), attività scolastiche ( iscrizione, lezione, intervallo, voto), persone (studente, allievo, maestro, bidello), azioni (insegnare, interrogare, torchiare…). È qui che la montagna mostra di essere un vulcano. La solidità rocciosa e istituzionale del vocabolario, di cui l’imponenza dell’opera editoriale è tridimensionale rappresentazione, si scioglie: le parole che erano state fissate dalla loro rispettiva definizione rientrano in gioco, con la fluidità e l’entropia delle loro relazioni semantiche. Il codice riconosce così l’esistenza di energie linguistiche non domabili, come correnti telluriche. Si può quindi usare il vocabolario ( come anche la grammatica tutta) in modo normativo: si dice, non si dice; è corretto, è sballato. Oppure si può prenderlo per quello che è: un libro di viaggio, un manuale di zoologia fantastica, un diario collettivo, e certo selettivo, che registra i nostri usi e li organizza come può, nell’arbitrarietà assoluta, ma ergonomica, dell’ordine alfabetico.