la Repubblica, 15 ottobre 2017
L’Unesco, salvare il mondo senza un soldo in cassa
PARIGI Nominata venerdì scorso direttore generale dell’Unesco, Audrey Azoulay prende le redini di un’istituzione pesantemente fragilizzata da difficoltà economiche e diplomatiche, soprattutto dopo il ritiro di Stati Uniti e Israele annunciato tre giorni fa. Quarantacinque anni, franco-marocchina di religione ebraica, la Azoulay si è diplomata all’Ena per poi transitare alla Corte dei conti e al Centre national du cinéma, prima di approdare all’Eliseo come consigliera di François Hollande e da lì alla testa del ministero della Cultura. Per i diplomatici con cui avrà adesso a che fare, ha un solo handicap: non essere cresciuta nel vivaio dell’Unesco. Tuttavia, le parole pronunciate appena eletta riflettono bene la filosofia dell’organizzazione: «Voglio che l’educazione sia fermento di uguaglianza tra i sessi e punto di riferimento per uno sviluppo sostenibile».
La sua prima missione consisterà nell’evitare ogni pretesto che possa prestarsi alla politicizzazione dell’agenzia Onu. Inoltre, come ha dichiarato la direttrice uscente, la bulgara Irina Bokova, dovrà «riunire le forze in campo e trovare nuovi fondi». Infatti, a dispetto dell’elegante edificio che l’ospita, affrescato al suo interno da Picasso e costruito negli anni Cinquanta dai più grandi architetti dell’epoca davanti alla Tour Eiffel, l’Unesco è un’istituzione povera in canna. E ciò anche per via delle sue numerosissime missioni, dalla diffusione della cultura della tolleranza all’aiuto ai malati di Aids nei Paesi più poveri o a quello alle donne vittime di soprusi. Creato all’indomani della Seconda guerra mondiale per garantire la pace con altri mezzi che con le armi, ossia com’è scritto nel suo atto costitutivo «con l’educazione, la cultura e le scienze», conta oggi 2000 dipendenti e un budget di 326 milioni che servono a organizzare conferenze ma anche a pagare legioni di esperti e collaboratori per salvaguardare il patrimonio e per mandare avanti i programmi scolastici.
Nel 2011 fu la prima organizzazione Onu a riconoscere la Palestina, provocando la fine dei finanziamenti israeliani e statunitensi (un quarto del totale), con gravi conseguenze sui suoi progetti. La Azoulay farà dunque di tutto per far rientrare Washington e Tel Aviv, anche perché le sfide che deve affrontare sono gigantesche. Tra queste, dovrà, per esempio, combattere il terrorismo con un sistema educativo che funzioni nelle zone di crisi e che non lasci il minimo spiraglio ai predicatori del fondamentalismo. Si tratta d’interventi su larga scala per i quali servono tanti soldi, così come per restaurare il patrimonio archeologico di Palmira distrutto dallo Stato islamico, i mausolei di Tumbuktu devastati anch’essi dalla barbarie fondamentalista o i templi nepalesi crollati durante il terremoto del 2015.
Altrettanto importante è il suo ruolo dell’Unesco nell’identificare, per meglio preservarle, le ricchezze del pianeta, siano esse culturali, storico-artistiche o naturalistiche come le riserve di biosfera di cui ne sono già state catalogate più di 600 in 120 Paesi. La sua lista del patrimonio mondiale conta 1073 “beni”, mentre quella dei luoghi a rischio arriva a 54. Tra questi ultimi sono elencate sia le foreste tropicali di Sumatra sia il sito archeologico libico di Leptis Magna sia la valle afgana di Bamiyan. Vasto programma quello che aspetta Audrey Azoulay e bisogna augurarle che altri Stati non seguano l’esempio di Trump e Netanyahu. L’Unesco avrà infatti bisogno dell’aiuto di tutti, perché per garantire la pace di domani il modo migliore è quello di proteggere oggi la nostra cultura.