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 2017  ottobre 16 Lunedì calendario

È brutto, sporco e cattivo: ecco il peggiore di Tripadvisor

È oltre il novemillesimo posto su diecimila tra i censiti a Roma su Tripadvisor. Il nome, si sa, non si fa mai, ma anche a volere, non potremmo. L’insegna parla chiaro e a caratteri cubitali: trattasi semplicemente di “Ristorante”. Anche detto “trappola per turisti cinesi di bassa lega”, “spenna polli”, “ladri senza vergogna” dagli avventori che dopo essercisi cibati, lo hanno recensito sul sito suddetto. Un gruppo variopinto di 356 persone mangianti “male” e “assai” paganti, che hanno fatto totalizzare al posto ben un pallino su cinque facendolo assurgere al top del peggior ristorante della Capitale. Sono solo malelingue, magari anche cattive forchette?
Seduti a quel tavolo con i piatti ordinati e appena assaggiati davanti, sopportando il puzzo e il rumore di frittura di olio del 1931, circondati da camerieri bengalesi vestiti a lutto, un leggero venticello dalla porta aperta da uno di loro più sensibile agli odori, con la faccia nel piatto dei vicini australiani, spiluccavamo un dolcetto azzimo e inacidito con la speranza, indomita, di esserci tutti sbagliati.
Quello non era davvero il peggior ristorante nel quale fossimo mai entrati, quello non era davvero il cibo peggior cucinato, quelli non ci avevano davvero chiesto “bo bino?” (“vuoi vino”, ndr), quella crema non era davvero rancida, quei frutti di bosco non erano veramente nerognoli e – soprattutto – quello non era davvero il conto: 74 euro per un antipasto, due primi, due contorni e due dolci. Solo acqua, niente “bino”. Ma al di là di tutto: non poteva stare accadendo quello nel centro di Roma, a due passi dalla Dolce Vita.
Perché di trappole per turisti ne esistono, è vero, e anche tra gli storici vicoli e strade della “Grande Bellezza”, chiaro. E non è facile soddisfare le aspettative culinarie e allo stesso tempo gli appetiti insaziabili dei turisti a un prezzo abbordabile ai turisti, è vero. Ma la mozzarella vaccina estratta a sorte dal cameriere fuori dal frigorifero a cassettone direttamente in sala e lanciata nel piatto portogli dal cuoco egiziano con una mano – ché con l’altra è intento a tenere la scopa per spazzare a terra in cucina – possiamo non pretendere che sia davvero “bufala”, come scritto sul menù internazionale, evidentemente peserebbe troppo sulle casse del proprietario. Ma che almeno sia del colore giusto: bianca.
Il piatto di verdure grigliate e gratinate, poi, e siamo all’antipasto, solo un matto potrebbe pretendere che sia della cottura ottimale e condito con olio extra vergine di oliva, che il pan grattato sia un po’ croccante, poi, figuriamoci, non serve, e neanche che le olive non siano incartapecorite, tanto sono buone uguale. Ma sarebbe sufficiente che l’ensemble fosse stato poggiato nel piatto solo qualche ora prima – e non settimane – per risultare commestibile al punto giusto. Invece niente.
“Gli chiedi i carciofi fritti, ti presentano un carciofo freddo alla Giudia….”, recitava un commento su Tripadvisor. Bene. Consolatevi. Se gli chiedi il carciofo alla Giudia aspettati solo l’olio stantio. Il carciofo è scappato per non affogare come i piatti forti. Idem per la parmigiana di melanzane. Se la scegli, te la sei cercata. Si obietterà che uno ordina appena arrivato, prima ancora di provare il gusto della cucina romano-bengalese. È vero. Ma te la sei cercata ugualmente, perché non ti sei chiesto che ne può sapere uno che viene dal Bangladesh – se nessuno glielo insegna – di come si fa la parmigiana. Bisogna essere indulgenti e ingoiarsi quest’installazione diremmo “scomposta” – anche i cuochi improvvisati guardano Masterchef Bangladesh – da tre fette di melanzane tagliate a disco su cui sono atterrate languide delle gocce di pomodoro stile ketchup.
Il tutto sepolto da una colata di formaggio maleodorante (calmi, non è roquefort) spessa e impenetrabile, quasi quanto lo sguardo del figlio del proprietario che si aggira tra i tavoli cercando di vendere in tutte le lingue promesse di piatti che non arriveranno mai. Risultato: provate voi a violare quella calotta gialla. Come la bandiera della resa sta lì su appoggiato anche il basilico. Ultimo ingrediente italiano rimasto in tavola dopo l’annegamento nel brodo di panna acida (Cannavacciuolo non c’entra) dei porcini congelati, avvinghiati alle fettuccine nel piatto da mensa del commensale di fronte. Accanto a loro cercano di scaldarsi da soli con lo strofinio dei pelati, i ravioli ripieni di foglie. “Che foglie?” (cit. Corrado Guzzanti). Devono essere gli stessi che sono valsi al ristorante il premio del “museo della pasta”. Non c’è alcun dubbio. Il riconoscimento risale agli Anni 90, e non è l’unico. È un’epoca che piace da queste parti. Dalla tovaglia di carta color salmone, alle fettuccine col pesce surgelato sopra, agli arredi di mogano dei bei tempi andati, al quadro di un bimbo – ora adulto – che di fronte alla porta d’ingresso fissa chi entra con l’aria innocente e sincera a implorare: “Per il vostro bene, scappate!”. Forse è proprio uno degli avventori di Tripadvisor, da piccolo.
Ma comunque sarebbe già troppo tardi per tornare indietro. Sulla soglia i camerieri stanno come i buttadentro, ad “accalappiare” gente per riempire questa cornice d’epoca. Fanno da sfondo le centinaia di bottiglie da 75cl di vino – prevalentemente Chianti – appoggiate a guardare gli ospiti dai bordi delle maioliche di finto cotto che ricoprono le pareti, quasi per intero. Non fossero lì (sempre con un occhio al museo) a spezzare la monocromia, a mezza altezza, le lastre di finto marmo in altorilievo che evocano scene di lotta e di caccia. Tipico italiano. Stesso stile anche per i frigoriferi verticali di acciaio e vetro che espongono prodotti doc, da supermercato, con tanto di etichetta di sconto al 30%. Caciotta romana, signori. Del discount. Sì, ma anche fosse, che ne saprebbero gli inglesi del tavolo in fondo che si sono spazzolati tutto e prima di andare via chiedono anche una camomilla. Il cameriere del Bangladesh non lo sa se c’è. Il proprietario, sì. Al lato opposto del corridoio-sala un’altra coppia, tedesca, aspetta il conto. Vanno via. Resterebbero volentieri, è solo che lei non sta bene. “Ho la febbre?”, chiede al marito. Speriamo. Pensiamo noi, che vorremmo seguirli.
Eppure c’è chi non solo è entrato deciso, ma che ha anche apprezzato. Anzi. Ha fatto la scarpetta ai piatti sbeccati col brodo di “pesce scuro”. È la compagnia di australiani capeggiati dal signor Gino. Orginario dell’Abruzzo, nato a Melbourne con moglie egiziana. Cenano e viaggiano da cinque settimane con un’altra coppia. Lei nativa delle isole Mauritius, lui australiano e basta. “Tutto ottimo”, commenta Gino che parla bene la lingua perché è stato “cresciuto da nonna italiana”. “Con un piatto di pasta non sbagli mai”.