La Lettura, 15 ottobre 2017
Magris, 50 anni di «Corriere»
Cinquant’anni fa Claudio Magris firmava il primo articolo per il «Corriere della Sera». Era il 15 ottobre 1967, lo scrittore triestino era un ventottenne (l’anno dopo sarebbe diventato professore a Trieste) a cui la madre batteva a macchina tutto ciò che scriveva. Con quell’articolo intitolato «Da Praga a Tel Aviv» (che qui sotto riproduciamo integralmente) Magris entrava direttamente nel cuore dei suoi studi e dei suoi interessi, quella matrice ebraica nella cultura mitteleuropea che era stata l’oggetto della sua tesi di laurea pubblicata nel 1963: Il mito absburgico nella letteratura austriaca. Da allora sono passati quasi duemila articoli e il matrimonio con il «Corriere» non si è mai interrotto. Magris ha scritto libri importanti, da Danubio e Itaca e oltre (direttamente legati al «Corriere») a Microcosmi, Un altro mare, Alla cieca, Non luogo a procedere, eppure la scrittura giornalistica non è stata per lui un’arte minore rispetto alla letteratura, agli studi di germanistica e all’insegnamento universitario, ma un filo robusto di un unico intreccio. I commenti politici, gli editoriali sulle questioni internazionali, le recensioni, i ritratti degli autori amati e i colloqui con altri intellettuali, ma anche i testi brevi che lo scrittore pubblica sotto il titolo «Istantanee» o «Ritagli», hanno un’unica, riconoscibile voce capace di far parlare la letteratura e di interpretare il mondo.
La redazione Cultura
La colpa, scrive Max Brod, è di Praga. Nella sua Vita battagliera, cioè nelle memorie pubblicate ora dal Saggiatore nella versione di Italo Alighiero Chiusano (pp. 395, lire 3.500), il celebre biografo ed amico di Kafka sembra voler ricercare l’origine di una sua pretesa carica polemica nelle contraddizioni della vecchia Praga, di quella città slava tedesca ed ebraica nella quale gli scrittori boemi portavano spesso cognomi germanici e viceversa, mentre gli ebrei, l’elemento più vivo e culturalmente più stimolante, oscillavano tra diverse possibilità di scelta nazionale. Felix culpa, si potrebbe aggiungere, questa condizione di incontri e di contrasti che ha fatto di Praga una delle capitali della letteratura moderna: la città di Kafka, di Rilke, di Kubin. È soprattutto come documento di quella civiltà, travolta da due guerre mondiali e dal nazismo, che l’autobiografia del vecchio Max Brod, in sé alquanto modesta, acquista un suo valore e un suo significato.La fama di Max Brod si affida, com’è noto, alla sua preziosa opera di editore, interprete e divulgatore degli scritti kafkiani, anche se la critica non ha mancato di rilevare le deficienze e magari le forzature della sua esegesi, operate con assoluta buona fede e disinvolta approssimazione. Neppure queste memorie, come del resto nemmeno le sue opere creative, sono scevre di tali difetti. Da Tel Aviv, il paese d’elezione, Brod cerca di ricostruire, non sempre con rigore, il volto distrutto della patria mitteleuropea. Spesso i ricordi si snodano sul filo di una nostalgia non certo originale né particolarmente lucida o acuta e s’immergono nelle tenerezze del tempo perduto, nelle pugnaci lotte e nelle amicizie della giovinezza. Ma queste amicizie, vere e vissute da vicino, si chiamano Werfel e Kafka e la vita recuperata nella memoria s’identifica con uno dei più importanti capitoli della cultura del Novecento. Molti protagonisti di questa cultura appaiono nella concreta immediatezza della loro formazione, scuole e correnti poetiche come l’Espressionismo emergono nella freschezza della loro genesi, nelle discussioni ai tavolini dei celebri caffè o negli appassionati dialoghi notturni fra le ombre della spettrale e barocca città. Brod sembra però credere che quegli eventi e quei nomi leggendari emanino da soli una forza magica e che basti menzionarli o citarli per evocare quella magia. Entro certi limiti, ciò può essere vero: l’incerto fascino del volume risiede proprio nella sua frammentaria incompiutezza che può, come un album di fotografie, appena suggerire l’interpretazione o la commozione. Il libro rimane dunque al di qua della ricostruzione critica e della trasfigurazione poetica, non senza una puntigliosa pretesa d’autorità e non senza giudizi ingiusti, per esempio su Karl Kraus.
Eppure, in certe pagine, il ricordo dell’idillio antecedente alla prima guerra mondiale sfuma, involontariamente, in un significato più vasto: mostra le ripercussioni della tragedia storica nell’intimità delle coscienze e dei sentimenti, rivela l’impotenza dell’astratto umanesimo pacifista dinanzi alle forze politiche dell’irrazionale, denuncia l’ignara incoscienza con la quale tanti intellettuali del mondo di ieri andarono incontro, senz’accorgersene, all’apocalisse. Nella sua condizione di ebreo, Max Brod visse e patì al più alto grado queste drammatiche esperienze; le più belle pagine dell’autobiografia illuminano infatti il problema dell’ebraismo e il dilemma della scelta, per gli ebrei, fra il cosmopolitismo della diaspora, la realtà (necessariamente limitata) di un loro stato nazionale e l’attaccamento alle culture dei paesi d’origine.
A questo problema, così vivo anche oggi nella cultura ebraica di tutto il mondo, Brod diede una risposta scegliendo con decisione Israele, ove svolse un’illuminata battaglia culturale per la concordia con gli arabi. Nel suo ebraismo si alternano caldi messaggi di fraternità ed elucubrazioni un po’ oscure, nobili slanci umanitari e improvvisi limiti dogmatici: assorto nei suoi ideali, rimprovera per esempio Werfel di non aver seguito la sua stessa via sionista oppure, chiuso nel suo spiritualismo, non riesce ad avere comprensione né attenzione per gli sforzi della più recente letteratura ceco-tedesca, che tenta di rinnovare la tradizione praghese nella Cecoslovacchia del secondo dopoguerra. Scritto alcuni anni fa, il libro, che si chiude su una prospettiva di conciliazione umanistica secondo il pensiero di Martin Buber, esce in Italia quasi sorpassato dai recenti eventi del Medio Oriente, che sembrano schernire la caparbia speranza di Max Brod. Forse proprio per questo essa, nelle sue intuizioni migliori, è più che mai urgente ed attuale.