Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  ottobre 15 Domenica calendario

Le città adulte sono nazioni dentro le nazioni

E se le città diventassero le nuove nazioni? Guardate i numeri. Nel 2030 – dopodomani – Tokyo, già ora la metropoli più abitata, darà casa a 37,2 milioni di persone. Molto più della metà della popolazione italiana di oggi e pari a quella della Polonia. Seconda in classifica sarà (ancora) New Delhi: 36,1 milioni, con una crescita di oltre 10 in una dozzina d’anni appena. In pratica, il Canada. Subito dietro arriva (e continuerà ad essere) Shanghai: 30,8 milioni (in crescita da 23,7). Come se ci vivessero greci, svedesi e portoghesi tutti insieme appassionatamente.
Dai tempi di Atene o dell’antica Roma, noi umani preferiamo fare i topi di città. Il grande inurbamento in atto in Cina dagli anni 2000 è epocale solo perché la popolazione mondiale (e cinese più di ogni altra) ha raggiunto livelli record: nel 2050, due umani su tre saranno cittadini, per il 90% in Africa e Asia. Ma le capitali, politiche ed economiche, hanno sempre calamitato frotte di gente desiderose di condizioni di vita migliori di quelle delle campagne. O, semplicemente, di cibo. Si pensi al boom delle città inglesi con l’industrializzazione del primo Ottocento. Manchester nel 1750 era ancora un borgo agricolo: nel 1830 superava quota 300 mila abitanti. Leeds (non Londra!) nel 1801 ne aveva già 292 mila, 50 anni dopo addirittura 800 mila.
Insomma: non ci possiamo stupire troppo per la grande transumanza dei nostri giorni in direzione delle metropoli. Eppure, qualche differenza significativa c’è. Basterebbe già guardare con attenzione la visualizzazione del World Urbanization Prospects realizzato con i dati Onu e la sua classifica delle città più popolose nel 2030. Balza all’occhio: solo tre – Tokyo, Osaka e New York – si trovano in Paesi ad alta industrializzazione. Los Angeles, Parigi e pure Mosca, oggi parte del gruppo, per allora saranno scivolate fuori. Non è secondario. Le vere megalopoli del nostro futuro si trovano in Cina, in Bangladesh, in Pakistan, in India, in Messico. Dentro i loro Paesi, assumono dimensioni sempre più preponderanti. Manila produce metà dell’intera ricchezza filippina. Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo, che ha 11 milioni di abitanti (il triplo di Roma…), conta per il 13% dell’intera popolazione nazionale e produce l’85% del Pil. Quando, fra 13 anni, avrà raddoppiato gli abitanti, al resto del Paese resterà solo di consegnare le proprie ricchezze e nessuna voce in capitolo nelle decisioni che contano. Ecco l’altra grande novità: le dimensioni – numero di abitanti, produttività – si traducono nella tracimazione, chiamiamola così, delle aspirazioni. Le megacity cominciano a comportarsi, appunto, come se fossero nazioni dentro le nazioni, pur senza averne formali poteri.
Da un decennio, 90 metropoli sono riunite nel network C40, presieduto dalla sindaca di Parigi, Anne Hidalgo, con l’obiettivo di far massa critica e trovare soluzioni comuni soprattutto al problema del cambiamento climatico. Bypassando, o nella migliore delle ipotesi, anticipando le politiche dei governi a cui devono obbedienza. Pochi giorni fa, in un fiordo norvegese, a Stavanger, 40 primi cittadini di città di varie dimensioni (da Città del Capo a Bristol) si sono ritrovati per il secondo summit del Parlamento Globale dei Sindaci per dare «priorità ai temi urbani rispetto alle politiche nazionalistiche».
Fanno rete al di là dei Paesi di appartenenza e cercano di conquistare peso specifico per risolvere problemi più grandi di loro. Qualche città pensa di averne già la forza. Prendiamo le «città santuario» americane. Sono circa 200, da Chicago a New York e Los Angeles, offrono rifugi sicuri a chi non ha le carte in regola negli Stati Uniti: hanno alzato la testa contro le politiche anti-immigrazione di Donald Trump opponendosi con le unghie e con i decreti. Il presidente americano sta facendo molto per loro: suo malgrado.
È bastato che la Casa Bianca rigettasse l’accordo di Parigi sul clima perché decine di sindaci, in tutto il mondo, si levassero in piedi per adottarlo all’unisono. «Trump sta unendo le città in un modo che non avevo mai visto», osserva il sociologo Richard Florida parlando di una vera «dichiarazione di indipendenza urbana». «Può questo gruppo evolvere in un più ampio corpo bipartisan che possa contendere la sovranità al governo di Washington su questi e altri argomenti? Di sicuro appare più probabile, oggi». Le città, non solo americane, rivendicano il fatto di giocare un ruolo centrale nello spingere un po’ più in là l’agenda energetica mondiale. Hanno ragione: il 70% delle emissioni inquinanti di anidride carbonica è loro responsabilità. In positivo, la quota urbana di utilizzo di fonti rinnovabili è all’11%: il potenziale è del 60%. Secondo alcune stime, il mercato globale delle smart city, a cominciare dalle tecnologie legate proprio ai problemi del riscaldamento globale, crescerà a un tasso del 14% all’anno.
Le metropoli, poi, sembrano volere appropriarsi anche di un altro potere tradizionalmente di competenza delle nazioni: la politica estera. La partecipazione ai summit ne è una conferma. New York, poi, agisce come se la sua influenza fosse sganciata da quella del resto degli Usa. E come potrà non stare stretto alle megalopoli del 2030 – per esempio a centri che non sono capitali, come Lagos, Nigeria (24,2 milioni di abitanti), o Calcutta, India (19,1 milioni) – il fatto di dover prendere ordini dal governo centrale nella gestione dei rapporti con Paesi uguali o più piccoli, dall’Australia (24 milioni) alla Repubblica Ceca (10)? Si arriverà ad avere una diplomazia urbana? Ci ritroveremo con un assessore agli Affari Esteri? C’è chi ci crede. Perfino Sciences Po, la facoltà parigina di Scienze Politiche, ha dato vita a un corso di City Diplomacy, dedicato al ruolo crescente delle città nelle relazioni internazionali.
In realtà, il problema principale delle città potrebbe essere un altro. Secondo l’Onu, in 3 metropoli su 4 le differenze fra ricchi e poveri sono oggi più alte rispetto a vent’anni fa. Prima o poi, le metropoli si troveranno di fronte alla priorità di adottare politiche economiche per ridurre la disuguaglianza di reddito fra cittadini. Come una nazione. «Sta prendendo forma una nuova narrativa urbana che ritrae le città come perno del dinamismo economico e di un melting pot etnico-culturale portatore di innovazione», sostiene il trend-guru olandese David Shah. Allora, le città saranno le nuove nazioni? Se accadrà davvero, però, non ditevi sorpresi.