Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  ottobre 15 Domenica calendario

La bellezza rinasce nell’ex zuccherificio. Così si restaurano opere «dimenticate»

Se molti di loro ancora risplendono, lo si deve alle pazienti mani di studiosi e restauratori che qui hanno imparato prima a conoscerli e poi ad amarli restituendogli l’antica luce. Gli antichi mosaici di cui Ravenna è capitale non hanno segreti per questa squadra di esperti. Sono talmente famosi che nel 2009 – in accordo con la Farnesina – si sono persino recati a Damasco per formare alcuni tecnici del museo della capitale siriana e aiutarli a recuperare i pannelli musivi della Cittadella.
Bisogna spingersi fino a Classe (minuscola frazione ravennate di mille abitanti, lì dove Nastagio degli Onesti nel Decamerone si perdeva tra i boschi) per ammirare il prodigio della riparazione. Proprio dietro la Basilica di Sant’Apollinare in Classe si trova il Laboratorio di Restauro della Fondazione RavennaAntica, nato nel 2009 e ora ospite di un ex zuccherificio destinato a diventare nel 2018 un grande museo archeologico. È al piano terra di questo edificio che sta rinascendo (con la biennale RavennaMosaico) una copia degli anni ‘50 della Madonna in Trono della Basilica di Sant’Apollinare Nuovo. Ed è sempre qui che pavimentazioni e raffigurazioni anche di epoca romana, rinvenute nel circondario o in giro per l’Italia tessera dopo tessera si caricano della vecchia luce.
«La crisi edilizia ha colpito anche noi, lo stato ha diradato i bandi di restauro e molte ditte sono scomparse o hanno cambiato business, ma ora qualcosa si sta muovendo di nuovo», è fiduciosa la responsabile del Laboratorio Paola Perpignani, mentre si muove in un grande open space tra mosaici incompleti che riposano a terra. Il cuore di questa fucina sono lei e un’altra restauratrice, più i vari collaboratori a chiamata e gli studenti dell’Università di Bologna.
Il processo di recupero a cui va incontro un mosaico è lungo e meticoloso. Quello che componeva l’atrio con la vasca dell’impluvium della Domus dei Pugili (primo secolo avanti Cristo) e che raffigurava due lottatori è stato addirittura esposto alle Gallerie d’Italia di Milano due anni fa. Prima del restauro portava ancora i segni dei carri che vi erano passati sopra per decenni, dopo che la casa fu trasformata in magazzino. «Ravenna non è solo mosaici bizantini», puntalizza Perpignani. Il mosaico di via Dogana, del quinto secolo dopo Cristo e rinvenuto a Faenza, era stato distaccato e impiantato nel 1967 su una piastra di cemento armato. Una pratica comune in quegli anni. Solo che con il tempo l’armatura interna in ferro tendeva a ossidarsi e a spaccare la lastra. Il Laboratorio è intervenuto stendendo colla idrosolubile e poi sopra due reti, una a trama grossa in cotone e una a trame fine in lino: la prima assicura resistenza, la seconda entra in tutti gli interstizi. Con dei dischi diamantati si incide il cemento e con dei martelli ad aria si rompe piano piano tutto. «Una volta abbiamo trovato anche un cancello come armatura e se troviamo che le tessere sono unite da una malta dell’epoca ci fermiamo. In alcuni casi abbiamo rivenuto le tracce del disegno originario, realizzate sbattendo dei fili sulla malta morbida».
Il mosaico che ne rimane viene poi steso su una tavola di alluminio con calce idraulica, sabbia e polvere di marmo. La due reti applicate all’inizio sono staccate con il vapore. A questo punto scatta l’integrazione delle tessere mancanti: sono realizzate in calce e poi dipinte ad acquerello tono su tono, oppure si inseriscono quelle in pasta di vetro.