L’Economia, 16 ottobre 2017
Intervista a Giovanni Caforio
In prima linea nella corsa a sconfiggere il cancro c’è un italiano: Giovanni Caforio, 52 anni, nuovo amministratore delegato di BristolMyers Squibb, il colosso americano dell’industria farmaceutica che vale 106 miliardi di dollari a Wall Street. È uno dei pochi italiani alla guida di multinazionali e un leader riconosciuto a livello globale nell’innovazione biotech. Rilascia raramente interviste, ma ha accettato di parlare con L’Economia delle novità del suo settore e della sua azienda dai suoi laboratori a Princeton, New Jersey.
Prima di lei, ceo di Bms era un altro italiano, Lamberto Andreotti (in pensione da maggio): una coincidenza?
«Sì e no. Certo è una coincidenza che Bms abbia un ceo italiano dopo l’altro. Ma non è una coincidenza che io lo sia oggi: ho avuto il privilegio di lavorare per 17 anni con Andreotti, che mi ha assunto nel Duemila; lui ha sempre avuto come priorità reclutare talenti e far crescere la nuova generazione di leader nell’azienda, preparando la sua successione».
Come mai parecchie società farmaceutiche e biotech di successo sono italiane?
«Perché l’Italia ha ottimi ricercatori scientifici. Noi facciamo numerose ricerche oncologiche con partner italiani, per esempio con l’Istituto nazionale dei tumori e l’Istituto europeo di oncologia a Milano. Bms è uno dei leader nella ricerca clinica in Italia: attualmente ha 79 studi clinici in corso, in circa 380 centri con 2.400 pazienti coinvolti, per lo sviluppo di 17 nuove molecole, di cui dieci sono biotech».
Crede che il biotech potrebbe contribuire alla crescita in Italia?
«È un settore che potrebbe andare anche meglio se fosse supportato da più capitali finanziari. Noi stiamo valutando l’opportunità di entrare in fondi che investano anche nel biotech italiano. E guardiamo con interesse al progetto dello Human technopole a Milano, per la parte riguardante la ricerca sul genoma».
Dall’Italia lei ha fatto carriera in Bms fino a diventare ceo nel maggio 2015: su che cosa si è concentrato in questi ultimi due anni?
«Su tre aree. Prima di tutto un aumento degli investimenti in Ricerca & sviluppo (R&D), cruciali per un’azienda innovativa come la nostra: negli ultimi due-tre anni sono cresciuti del 13% l’anno, mentre le spese totali sono rimaste sostanzialmente piatte; oggi ammontano a 5 circa miliardi di dollari l’anno, il 20% del fatturato, un livello superiore alla maggioranza dei nostri concorrenti. E abbiamo scelto di focalizzare l’R&D solo su quattro tipi di ricerca: l’oncologia, le malattie cardiovascolari come lo scompenso cardiaco, la fibrosi e il settore dell’immunologia. Poi abbiamo migliorato la performance commerciale: nel 2016 le vendite sono aumentate del 17% e i profitti per azione del 40%. Infine, 12 mesi fa abbiamo intrapreso la trasformazione di Bms in un’azienda più agile, veloce, competitiva, più simile a una piccola società biotech».
Bms è stata pioniere nella immunoterapia, che per combattere il cancro sfrutta il sistema immunitario, le difese “naturali” dell’organismo. E lei è stato il responsabile dell’Oncologia negli Usa dal 2007 al 2009, all’inizio del vostro impegno su questo tipo di terapie.
«È stato uno sforzo di squadra, guidato dall’allora ceo Jim Cornelius e da Andreotti, che nel 2009 era a capo della nostra organizzazione commerciale. Siamo stati fra i primi a credere nell’eccitante novità della immunooncologia, mentre altre aziende farmaceutiche la consideravano troppo rischiosa. Ricordo nel 2008 i risultati dei primi pazienti curati con questa nuova strategia, alcuni dei quali avevano risposte profonde e durevoli alla terapia. Così abbiamo raddoppiato il nostro impegno e nel 2009 abbiamo comprato Medarex, una piccola società biotech all’avanguardia in questo campo: la loro prima scoperta, Yervoy, si è dimostrata efficace nel trattare il melanoma, la forma più aggressiva di cancro della pelle».
Opdivo è il vostro prodotto più importante in oncologia: a che punto è la ricerca per impiegarlo nella cura di diversi tipi di tumori?
«Opdivo è stato introdotto nel 2014 ed è già stato approvato per il trattamento di sette diversi tumori. Abbiamo studiato Opdivo in campi molto diversi, dal trattamento in fasi precoci (detto adiuvante) del melanoma, agli stadi più avanzati della malattia, sia da solo che in combinazione con Yervoy. La combinazione ha già mostrato una grande efficacia nel trattamento del melanoma e dei tumori renali. Ma siamo solo all’inizio della scoperta del ruolo di questo farmaco, e stiamo conducendo 250 studi clinici in almeno 46 tumori».
Quali sono i trattamenti più promettenti in fase di sviluppo?
«L’attuale lista di futuri prodotti è la migliore della nostra storia. Posso citare Lag-3 che in combinazione con Opdivo sembra funzionare bene per i malati di melanoma che non rispondono a Opdivo da solo o hanno avuto una ricaduta. E stiamo facendo ricerca sui cosiddetti ‘tumori freddi’ – come quelli al seno, alla prostata e al colon – che finora non hanno risposto all’immunoterapia».
Quanto vicini siete a una cura che sconfigga davvero il cancro?
«La ‘cura’ del cancro è una parola grossa. Il tumore è una malattia davvero difficile da curare. Ma i pazienti trattati con l’immunoterapia hanno risposto vivendo più a lungo. Ci sono malati di melanoma che, dopo sole quattro dosi di Yervoy dieci anni fa, sono ancora vivi».
Per nuove terapie vi affidate di più sulla R&D interna o sull’acquisizione di altre società biotech?
«Seguiamo entrambe le strade. Abbiamo sviluppato internamente Sprycel, per la cura della leucemia. E lo scorso agosto abbiamo annunciato l’ultima acquisizione: Ifm, una società biotech con un nuovo approccio alla immuno-oncologia».
I gruppi farmaceutici, criticati spesso per gli alti prezzi delle medicine, si giustificano con i costi della ricerca. Ma un recente studio dell’Institute for New Economic Thinking sostiene che la causa è il perseguimento del “massimo valore per gli azionisti”. È d’accordo?
«Posso parlare per Bms. Noi investiamo sull’innovazione che sia davvero trasformativa, per risolvere importanti problemi medici e cambiare la vita di molti pazienti. E lavoriamo con i governi e con chi paga le medicine affinché il prezzo non sia mai una barriera. Per esempio in Italia tutti i nostri farmaci sono rimborsati dal servizio sanitario nazionale. Sottolineo anche che il costo delle medicine, in generale, è minimo rispetto alla spesa totale per la salute: il 14% negli Usa, il 15% in media in Europa. Quanto agli azionisti, noi puntiamo a generare valore di lungo termine per loro, attraverso l’innovazione e le nostre medicine».
La rivoluzione digitale, come sta trasformando la salute?
«Noi abbiamo una strategia e un team dedicati al digitale. Che per noi significa tre cose: investire sulla diagnosi precoce del cancro; usare Big data per l’analisi predittiva e lo sviluppo più veloce di nuove terapie; creare applicazioni per far star meglio i pazienti. Per esempio abbiamo investito in una società che sta studiando la biopsia liquida: un domani con l’esame del sangue si potrebbe individuare presto un tumore».
Altri esempi?
«Analizzando i dati di milioni di malati di cancro – raccolti dai sistemi sanitari nazionali o da altre fonti – si possono anticipare le loro reazioni alle cure e trovare prima le soluzioni, con maggiori possibilità di successo. E una ‘app’ per malati di cuore è un apparecchio portatile, piccolissimo, che fa l’elettrocardiogramma in un minuto e, collegato allo smartphone, invia il risultato al cardiologo che così può intervenire subito. Non ho dubbi: stiamo vivendo una delle fasi più eccitanti per la ricerca e l’innovazione farmaceutica, con grandi progressi in tutte le aree, nell’oncologia e oltre».