L’Economia, 16 ottobre 2017
Banche, duello con l’Europa. La risposta del mercato
Dietro le otto grandi colonne di Piazza Meda, nel centro di Milano, il lavoro sui numeri e con gli investitori sta diventando sempre più intenso. Banco Bpm, quarta banca italiana per volume di crediti deteriorati, prepara la prossima grande operazione del sistema: la vendita a fondi specializzati di un grosso blocco di attivi problematici, da concludere a inizio 2018. La banca cercherà di cederne almeno per un valore teorico di tre miliardi di euro ma, se gli acquirenti e i prezzi lo consentiranno, conta di arrivare a sei. Sarà una corsa contro il tempo e i concorrenti. Banco Bpm (altro servizio a pagina 8) non è sola a coltivare piani del genere. Unicredit, che in luglio ha già piazzato portafogli di prestiti mediocri o cattivi ai fondi Fortress e Pimco per 17,7 miliardi di valore nominale, vorrebbe chiudere l’anno superando la soglia dei venti miliardi. E il mercato dei crediti deteriorati italiani inizia a crescere: il Fondo monetario internazionale stima che le banche si siano liberate di queste posizioni per 65 miliardi solo nel 2017 (anche se quelle di Popolare Vicenza, Veneto Banca e Monte dei Paschi, per 36 miliardi, sono state segregate e non vendute). Questa cornice non fa che rafforzare l’intenzione dei manager di Banco Bpm di portare a termine la cessione. Per l’istituto nato dalla fusione fra la Popolare di Milano e il Banco Popolare di Verona sarebbe una svolta fondamentale. Il suo titolo è stato fra i più colpiti dalla dai crolli di Borsa, da quando due settimane fa la Banca centrale europea ha annunciato un approccio più restrittivo per obbligare le aziende di credito a liberarsi in fretta dei loro crediti deteriorati. Questa resta una ferita aperta per l’Italia, dove il valore nominale lordo degli attivi problematici resta di circa 240 miliardi di euro. E rimane più specificamente una questione da affrontare per Banco Bpm che, a 17,4 miliardi lordi, presenta un’incidenza di crediti difficili al 14% del portafoglio prestiti (sopra la media italiana del 10%, che a sua volta è circa il doppio della media europea).
Rischi prospettici
Se l’istituto lombardo-veneto non affronta questo problema, rischierà tra non molto di diventare preda di un’acquisizione dall’estero, soprattutto se la Bce dal 2018 dovesse fissare nuovi parametri molto severi sugli accantonamenti anche a fronte dei portafogli dei crediti cattivi già esistenti. Non solo su quelli che emergeranno in futuro. A Francoforte si chiede infatti che le riserve di capitale salgano al 100% del valore di un credito deteriorato dopo sette anni nel caso delle operazioni con garanzie (per esempio, un prestito ricevuto impegnando un immobile) e dopo due anni nel caso di crediti non garantiti (per esempio, un prestito per pagare una vacanza). Nuove richieste di capitale da parte di Francoforte possono erodere il valore del titolo azionario di una banca molto esposta su debitori insolventi, creare pressione per svenderli anche a prezzi molto inferiori al valore imputato in bilancio e così ampliare ancora di più le carenze di patrimonio.
Se questa spirale riparte, diventa facile conquistare una preda il cui valore reale è molto superiore al prezzo di Borsa. Si può dissentire dall’approccio di Francoforte, ma adesso per le banche stare ferme ed aspettare non è più un’opzione. Ancora meno lo è perché, in prospettiva, la fine degli interventi sui mercati della Bce farà salire i tassi di mercato e renderà più costose le garanzie pubbliche oggi disponibili per la vendita di almeno parte dei crediti cattivi.
Le «coperture»
Non fare nulla non è soprattutto più possibile per gli istituti più esposti a questo genere di problemi, né per quelli che hanno accantonato riserve di capitale relativamente meno alte.
Secondo stime di Mediobanca, ad oggi le coperture sui crediti problematici lordi sono piuttosto confortanti per le banche italiane più grandi, che presentano anche esposizioni deteriorate sotto la media del Paese. È il caso di Intesa Sanpaolo, che ha accantonamenti al 61% su un portafoglio lordo dell’8% dei prestiti. Ed è anche il caso di Unicredit, che ha il 66% di accantonamento sul 6% dopo la grande cessione di luglio scorso e rafforzamenti sul capitale per circa 20 miliardi fra aumenti e vendite di attività. Invece le banche medie e medio-grandi del Nord Italia non sembrano del tutto fuori dal guardo.
In certi casi l’eredità dei crediti cattivi accumulata in recessione resta pesante (appunto Banco Bpm, ma anche la Bper in Emilia-Romagna, anch’essa al 14% sul totale degli impieghi). In altri gli accantonamenti di capitale a fronte dei crediti difficili non sono ancora saliti al livello delle migliori, come per Ubi che è al 49% (la media italiana è del 65%). È vero che quando ci sono insolvenze non tutto dipende dai banchieri. «Sui tempi di recupero delle garanzie e delle esecuzioni giudiziarie del crediti problematici bisogna che il sistema giudiziario batta un colpo» dice Roberto Nicastro, il banchiere che ha gestito la ristrutturazione di Banca Etruria, Banca Marche, Carife e Carichieti. Poi però ci sono le scelte dei manager e qui Unicredit ha mostrato uno dei modelli possibili: ha raccolto venti miliardi di capitale per coprire il costo delle svalutazioni e ha ceduto crediti deteriorati del valore nominale di 17,7 miliardi al prezzo medio di 13 cent per ogni euro di esposizione (i singoli pezzi variavano fra 5 e 33 cent). Unicredit ha sì cercato di trattenere parte del margine a scadenza – magari si possono recuperare 30-35 cent per euro prestato – mantenendo il 49,9% del veicolo a cui ha venduto. Ma l’idea di fondo è che la banca guadagnerà di più grazie alla fiducia che le ha permesso di ridurre il costo del capitale dopo la cessione dei crediti cattivi, piuttosto che gestendo questi ultimi per anni. La filosofia è voltare pagina, anche pagando un prezzo, ma in fretta. Non è ovvio che questa ricetta possa valere per tutti. Se un signore robusto va alla porta del teatro e la forza, probabilmente uscirà all’aria aperta. Ma se lo fanno tutti gli altri spettatori allo stesso tempo, resteranno bloccati all’uscita e alcuni anche schiacciati. Troppe vendite di crediti deteriorati ne distruggono il prezzo e con esso i bilanci bancari. L’altra via possibile è dunque gestire quelle posizioni nel tempo, ma solo aziende solide come Intesa Sanpaolo possono realmente permetterselo. Dunque servirà molta reattività. «Fra le due strade prenderei la terza – commenta la country manager di Barclays per l’Italia, Alessandra Perrazzelli -. Ristrutturare le aziende per tenere sotto controllo i costi, in modo da non farsi trovare di nuovo impreparati alle prossime svolte».