L’Economia, 16 ottobre 2017
Risparmio tradito. Perché i colletti bianchi non pagano mai
I colletti bianchi non pagano mai? O, se accade, poco e tardi? Questi e altri interrogativi sono destinati a tornare di stretta attualità nel momento in cui la commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche, presieduta da Pier Ferdinando Casini, comincerà il suo incerto cammino. Ma è poi vero che i reati finanziari o contro la pubblica amministrazione, rispetto all’esperienza di altri Paesi, sono meno perseguiti e raramente puniti? Le sanzioni per la corruzione sono state inasprite nel 2015 (massimo dieci anni) con limiti al patteggiamento. L’impianto normativo è cambiato sul falso in bilancio dopo anni di visione quantomeno lasca se non giustificativa. Con il contestato nuovo codice antimafia il sequestro preventivo si estende, fra polemiche e dubbi di legittimità, agli indiziati anche di associazione a delinquere finalizzata a reati contro la pubblica amministrazione. La legge fallimentare, appena approvata definitivamente dal Senato, frutto dei lavori della commissione Rordorf, completa un quadro legislativo in forte, anche se non coerente, evoluzione. In particolare, estende l’obbligo di nomina dell’organo di controllo o del revisore nelle società a responsabilità limitata. Certo, se si alza lo sguardo a quello che succede altrove, la nostra stretta sui colletti bianchi impallidisce.
Arsenale inefficiente?
Bernard Ebbers, chief executive officer di Worldcom, ha subito la condanna a 25 anni di prigione per quella che è stata definita, nel 2002, come la più grande frode nella storia degli Stati Uniti. Jeffrey Skilling, ceo del gigante energetico texano Enron, costretto alla bancarotta nel 2001, si è preso la bellezza di 24 anni e 4 mesi. In processi durati poche settimane, non lunghi anni. Come
da noi, per esempio, con il crac Parmalat. Non sempre l’erba del vicino ben curata. In un articolo apparso sul New York Magazine, si notava come soltanto un manager del Credit Suisse, Kareem Serageldin, fosse stato condannato per la vicenda dei subprime, da cui partì la grande crisi finanziaria del 2008. E non possiamo dire che la giustizia inglese sia stata particolarmente inflessibile e occhiuta nello scandalo relativo alla manipolazione del tasso Libor (London inter bank offered rate) che ha visto finora poche condanne. Le più pesanti sono andate a Tom Hayes, ex trader di Ubs e Citibank e Jay Merchant, manager di Barclays, rispettivamente a 11 e 6 anni e mezzo di carcere. I vertici degli istituti erano ignari? Si potrebbe poi parlare a lungo anche della vicenda Volkswagen. L’arsenale degli strumenti penali a disposizione della giustizia italiana, per combattere la corruzione e i reati finanziari, è tutt’altro che sguarnito.
Un volume di fuoco, almeno sulla carta, enorme. «Sì, ma spesso inefficiente, contraddittorio – spiega Alberto Alessandri, ordinario di diritto penale alla Bocconi – e con risultati controproducenti. Sono troppi i procedimenti penali che iniziano e poi non si sa come vanno a finire. Il caso Mastella, che all’epoca nel 2008 fece cadere il governo Prodi, si è risolto dopo quasi dieci anni con una piena assoluzione. Si dovrebbe riflettere di più su questo e altri episodi, come ad esempio la lunga detenzione cautelare di Silvio Scaglia, ex ad di Fastweb, poi totalmente scagionato. Non è raro che le misure di prevenzione vengano applicate nel processo al di fuori di ogni garanzia. Con effetti devastanti. La verità, se volete paradossale, è che noi sappiamo assai poco del fenomeno della corruzione, ci manca una reale base empirica. Per gli abusi di mercato, la sanzione arriva a dodici anni con pene pecuniarie elevate, ma modesti risultati in termine di repressione e prevenzione. Le bancarotte di maggiori dimensioni sono spesso sottratte, per ragioni politiche o sociali, ai rigori della legge. I grandi imprenditori con forti debiti verso le banche sono trattati con guanti di velluto, i piccoli e i medi subiscono condanne assai più pesanti».
Facce feroci
«Uno dei temi di fondo – aggiunge Filippo Sgubbi, ordinario di diritto penale a Bologna e docente alla Luiss – è la coesistenza di un doppio binario fra il penale e altre misure. Si attende in proposito una sentenza della Corte di giustizia europea che dovrà chiarire se l’irrogazione della pena sia compatibile, per lo stesso fatto, con una sanzione di tipo amministrativo. Va compiuta, a mio avviso, anche una riflessione sui sequestri cautelari, per non parlare del carcere preventivo. Può accadere che un singolo cittadino venga a sapere di essere oggetto di un sequestro per equivalente dal blocco della sua carta di credito. Non è accettabile in uno stato di diritto. La riforma Orlando ha rivisto i tempi di prescrizione. Se il processo dura vent’anni però, i sequestri rischiano di essere non solo qualche volta ingiusti ma anche socialmente dannosi». Sia nell’analisi di Alessandri sia in quella di Sgubbi c’è un monito a non pensare che la lotta alla corruzione e alla criminalità finanziaria possa essere fatta solo sul versante penale. Insomma, che basti minacciare di più. Qualche volta la faccia feroce del codice penale non fa alcuna paura. «Se non vi è una più convinta moralità pubblica – dice Alessandri – un maggior senso di responsabilità della classe dirigente, accrescere le sanzioni non serve. I codici etici sono stati un fallimento. Sull’etica degli affari tante parole, in realtà ci si preoccupa dopo, non prima».
Il costo della violazione delle norme, in termini di perdita di reputazione, è in Italia pressoché inesistente. La tendenza a giustificare chi infrange regole di convivenza, non solo leggi scritte, è discretamente diffusa. L’invocazione dello stato di necessità frequente. Furbi e corrotti non sono espulsi dalla business community (e sarebbe questa la vera pena accessoria) come avviene in altri sistemi. Perché la relazione amicale fa premio sulla bontà della cittadinanza. «Ti giudico io, non il magistrato». Le corporazioni, non raramente, scambiano la difesa a tutti i costi degli iscritti come un’espressione irrinunciabile della loro autonomia.
Novità in banca
E i panni non si lavano nemmeno in casa. Un esempio, che riguarda il sistema bancario, è relativo ai requisiti di professionalità e onorabilità degli amministratori, previsti dalla direttiva europea Crd IV, e recepiti con decreto legislativo 72 del 12 maggio del 2015. Finalmente, nei prossimi giorni, dovrebbe essere varato un decreto del ministero dell’Economia in attuazione dell’articolo 26 del Testo unico bancario (Tub). Per far parte degli organi societari di un istituto di credito saranno necessarie professionalità, competenza e correttezza. La novità è che anche le sanzioni delle autorità indipendenti, oltre ovviamente alle sentenze passate in giudicato, costituiranno un ostacolo all’assegnazione degli incarichi. L’esistenza di «relazioni d’affari» tra soggetti e istituti di credito dovrebbe evitare per il futuro i numerosi casi di debitori diventati amministratori, di grandi affidati in conflitto d’interessi. Ci sarebbe anche un limite al cumulo degli incarichi – che già esiste per le società quotate oltre all’obbligo per l’intero consiglio d’amministrazione di esaminare i requisiti dei candidati e motivare le scelte. Regole di buon senso, si potrebbe commentare. Eppure introdotte a fatica, su spinta europea, su pressione della Banca d’Italia e della Consob, fra un certo fastidio degli addetti ai lavori e una generale resistenza al limite del sospetto. Il riflesso di una classe dirigente preoccupata più dall’eccesso di obblighi burocratici per il rispetto delle regole che dalla tendenza ad evaderle. Il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone ha scritto la prefazione al libro di Andrea Franzoso «Il Disobbediente» (Paper First), storia dell’ex dipendente delle Ferrovie Nord che denunciò spese e sprechi dei vertici. Ha ricordato che l’Anac è destinataria, per la legge Madia del 2014, delle segnalazioni che riguardano la Pubblica amministrazione e ha chiesto una legge che tuteli chi denuncia. La proposta è attualmente in discussione al Senato. Cantone ritiene che vada corretta e rafforzata. La normativa sui cosiddetti whistleblowers, letteralmente fischiatori, fatica ad essere approvata. A molti non piace e non ne fanno mistero. E, se si tentasse di tradurre il termine inglese, molti opterebbero per delatori.