Il Messaggero, 16 ottobre 2017
Wallace, genio ipermoderno
Era un genio, un virtuoso della pagina scritta, per il New York Times possedeva «la mente migliore della sua generazione». Purtroppo venne costretto sin da adolescente a combattere contro la depressione, fu a lungo alcolista e drogato. Quando non resse più il peso David Foster Wallace decise di impiccarsi. Era il 12 settembre 2008 e con la sua morte, affermò Jonathan Franzen, «l’America perdeva l’erede contemporaneo della tradizione comica di lingua inglese iniziata con Swift e Sterne». L’occasione per riscoprirlo è offerta da Portatile (Einaudi, 794 pagine, 22 euro),un’ampia scelta antologica delle opere introdotta da Stefano Bartezzaghi, autore di un saggio nel quale ricostruisce la folgorante ascesa di un uomo con la certezza che «costruire un romanzo è come erigere un pollaio durante un uragano». E, tuttavia, convinto di non poter recidere il cordone ombelicale con la letteratura, sempre ritenuta «l’unica cosa che mi emoziona e mi convince a restare al mondo». Questo imponente volume, suggerisce Bartezzaghi, va letto svariando tra le sezioni, alternando i diversi generi di scrittura che lo stesso Wallace usava avvicendare anche all’interno del medesimo testo. La relativa difficoltà nel seguire l’evoluzione del suo pensiero, aggiunge, non era inconsapevole. Al contrario, faceva parte del progetto di Wallace, determinato «a mostrare attraverso la pagina i limiti del pensiero e della lingua lineare». Il difficile di Wallace, insomma, risiede nelle continue rotture della logica convenzionale del discorso piano in volumi a molti apparsi strani, fra i quali un’esilarante reportage su una crociera di lusso e romanzi di ragguardevoli dimensioni presto diventate negli Stati Uniti veri e propri oggetti di culto nei campus universitari. Nato a Ithaca nel 1962, Wallace aveva scelto molto presto di dedicarsi a tempo pieno alla narrativa: La scopa del sistema, che giudicava «il racconto della tormentata formazione di un giovane wasp ossessionato dalla filosofia di Wittgenstein e Derrida», apparve nel 1987 e ricevette dalla critica un’accoglienza entusiastica.
Il successo si ripetè con Il rap spiegato ai bianchi, un saggio composto con l’amico Mark Costello, e con la raccolta di racconti La ragazza dai capelli strani, del 1989, che lo lanciò come il miglior esponente della nuova scuola postmoderna grazie a una geniale capacità di intrecciare i generi.
CARATTERE
«Il mio modo di scrivere è quasi sempre argomentativo perché segue il mio carattere, il mio modo di essere. So che ogni aspetto dell’esistenza ha molti volti e io cerco di rendere conto di ognuno. Ne risulta una certa confusione, che mi auguro interessante», disse in un’intervista. A consacrare definitivamente la fama internazionale di questo ragazzo imponente sul piano fisico, con i capelli lunghi stretti in una bandana, fu nel 1996 uno sterminato romanzo dal titolo misterioso (Infinite Jest, ovvero Scherzo infinito) nel quale offriva il minuzioso resoconto di quanto accade in un’America del futuro dove il potere è nelle mani di un gruppo di pazzi con tendenze criminali, «una terra che diventa una sintesi da incubo tra Disneyworld e gli inferni di Bosch», osservò uno dei recensori. Il libro, che in originale è lungo 1200 pagine (di cui circa cento di note), diventate 1400 nella traduzione italiana uscita da Fandango, fece entrare Wallace nel Gotha della narrativa statunitense di fine millennio per l’originalità di un testo in cui si misura con l’artigianato della parola e la provocatoria sfida dei contenuti. Estraneo alla mondanità letteraria (ma senza gli eccessi da invisibile alla maniera di Salinger o di Pynchon), visse a lungo a Bloomington, città dell’Illinois grazie a un contratto offertogli dal piccolo ateneo. Poi si trasferì Pomona, nei pressi di Los Angeles, scegliendo la tranquillità garantita da una cattedra in una università di provincia.
VOLUME
Del 1999 è Brevi interviste con uomini schifosi, il secondo volume di racconti, seguito nel 2004 da Oblio, terza raccolta di storie con protagonisti personaggi eccentrici, innamorati della filosofia e della matematica, persi in privati universi fantastici e assolutamente incapaci di scendere a patti con la realtà. Per comprenderne la poetica e lo stile, suggerisce Bartezzaghi, sono particolarmente utili i saggi usciti su piccole riviste indipendenti, raccolti nel 2005 nel volume Considera l’aragosta, che offrono il graffiante ritratto di un’America profonda e sconosciuta ai media, e ne confermano le doti di pittore dell’ipermoderno e della cultura pop. La cerimonia per la consegna degli Oscar del porno gli permette così di ragionare sui misteri della libido, un festival organizzato nel Maine per promuovere il consumo di crostacei lo spinge a riflettere sul dolore, un viaggio al seguito di un candidato alle primarie presidenziali gli suggerisce considerazioni sull’influenza dei media sul dibattito politico.
Wallace si sofferma su vicende ordinarie accentuandone le caratteristiche surreali, mentre gli elementi di follia presenti negli uomini e nelle donne di cui si occupa vengono ritenuti indizi di un inconsapevole disagio di portata più generale, spesso originato dall’esagerata esposizione agli schermi televisivi. Un tema che ritorna in Il re pallido, il romanzo incompiuto al quale stava lavorando prima del suicidio, dove si narra l’estenuante routine quotidiana in un ufficio delle tasse.