Corriere della Sera, 16 ottobre 2017
«Il mio mito non esiste. Se Messi fosse italiano gli fareste fare il Papa». Intervista a Julio Velasco di La Plata
Cosa è sopravvissuto, nell’autunno 2017, del «Velaschismo»?
«Mai esistito. Sono morte le grandi ideologie politiche ma alla gente ne servono altre: danno sicurezza. Il Guardiolismo, il Mourinismo… Il mio è un lavoro pragmatico, non ideologico. Io non credo alla verità unica, men che meno nel modo di gestire le persone».
Julio Velasco di La Plata, guru del volley, a 65 anni, da c.t. dell’Argentina, vive a Bologna. Dove – cittadino italiano dal ‘91 – vota. «Chi? Per carità, cambiamo discorso...». Nella pallavolo italiana c’è un prima e un dopo Velasco. Sono trascorsi 28 anni dal primo oro europeo, 27 dal primo mondiale, 21 dall’argento di Atlanta ‘96, primo arrembaggio al tabù dell’oro olimpico, eppure il totem è ancora conficcato al centro del villaggio. «Incredibile». Parliamone.
Velasco era (ed è) più tecnica o psicologia?
«Il lavoro dell’allenatore è una summa di fattori. La tecnica è uno strumento, il gioco un’altra cosa. La psicologia non basta. Nella musica è importante suonare bene. Nella letteratura scrivere bene. Nello sport giocare bene».
I pilastri della sua formazione?
«Io non funziono così. Lavoro sulle idee, le prendo dappertutto: ambiente, cinema, politica, arte. Per un allenatore la cosa più importante è capire il gioco. Poi le persone. Per portare avanti le idee serve una metodologia. Io ho la mia, uguale a nessun’altra. Ho letto la biografia di Phil Jackson e mi ha deluso: lo zen nel basket, okay, ma alla fine non dice niente. Ho studiato cinque anni filosofia. Eraclito, il primo pensatore dialettico, mi ha condizionato molto. Ma col tempo si cambia. Mi piace imparare: negli ultimi anni sto studiando come funziona il cervello. Interessantissimo».
Un esemplare onnivoro, quindi.
«Perché in Italia c’è questo bisogno di scegliere tra Guardiola e Mourinho? È forse una reminiscenza del Pci e della Dc? Io prendo dalla realtà tutto ciò che può servirmi. Imparo anche guardando giocare le mie nipotine: i bambini sono una scuola meravigliosa».
Calcio, volley, pallanuoto, basket. Non ha la sensazione che il concetto di sport di squadra in Italia sia in crisi?
«Al contrario. In assoluto credo che il gioco di squadra non sia mai stato forte come adesso. Si è evoluto, è cresciuto. Barcellona, Real Madrid, Juventus sono grandi squadre. Si perde quando si gioca male o quando si affronta qualcuno di più forte. Punto. Senza alibi».
C.t. dell’Argentina dal 2014 dopo Italia, Repubblica Ceca, Spagna e Iran: perché ci ha messo tanto?
«Circostanze: si è creata l’occasione e io avevo voglia di tornare a casa. Non allenerò altri vent’anni: mi piaceva l’idea, prima di smettere, di guidare la Nazionale del mio Paese».
L’Albiceleste è l’ultima avventura?
«Non lo so. Trapattoni è andato avanti fino a 74 anni: per me la sua passione è da sempre motivo d’ammirazione. Doug Peterson lasciò e poi cercò di tornare. Quando smetti da vecchio, è molto difficile rientrare. Devo essere sicuro. È la mia grande paura: vivo in gruppo da quando ho 15 anni. Non è solo l’adrenalina delle partite. Passare a fare le cose da solo, mi spaventa. Ma fino a Tokyo 2020 ci arrivo».
Riallenerebbe le donne?
«Sì. Più nazionale che club. È più faticoso perché devo studiare di più. Gli uomini li conosco, ho l’esperienza. Avere tre figlie è un vantaggio ma non basta: siete troppo diverse da noi. I cinesi dicono l’altra metà del cielo. L’errore è pretendere che le donne siano come i maschi».
È ancora in contatto con la generazione degli invincibili?
«Molti allenano in giro per il mondo, organizzare una rimpatriata è impossibile. L’ultima volta è successo a Roma anni fa, ore a scherzare e raccontare vecchi aneddoti. Non abbiamo una chat però rimarremo legati per tutta la vita».
L’oro olimpico è un rimpianto?
«Zorzi ci pensa molto: ha fatto un’opera di teatro sul tema. Io no. Sono un positivo, è il mio modo di vedere la vita. Ci sono cose ben peggiori: amici morti, mio fratello torturato dal regime militare...».
Negli Anni 90, da noi, era un Papa laico.
«Consideravo ridicolo quell’acritico mettermi sul piedistallo solo perché allenavo bene una squadra e facevo quattro riflessioni sullo sport. Sembrava avessi inventato io il volley! Era il periodo in cui in Italia si voleva far fare a De Gregori il ministro della Cultura. Se Messi fosse italiano gli chiedereste di fare il Santo Padre».
E a Velasco il ministro dello Sport.
«Che non esisteva. Infatti non mi è mai stato proposto. Ci avrei riso sopra».
Abbiamo bisogno di eroi.
«Più che agli eroi, io credo nei processi. L’allenatore, i giocatori, sono parte del processo. Gli eroi ti deludono: cadono tutti senza eccezione perché li si mette in posizione impossibile».
Come se ne esce?
«Con le istituzioni. Con il sistema, con il metodo. L’idea che arriva uno che risolve tutto, oltre che sbagliata, è pericolosa. Soprattutto di questi tempi».
Tre anni in Iran cosa le hanno lasciato?
«Esperienza fantastica. Non è l’Arabia Saudita: le donne studiano, guidano, lavorano, oggi vanno allo stadio. È un paese capitalista, quasi tutti parlano inglese, molti hanno la green card americana e viaggiano, c’è un orgoglio islamico che gli deriva dall’essere eredi dell’Impero persiano. Nel volley ho lasciato un metodo di lavoro e la fiducia di poter essere di primo livello».
Con il calcio ha chiuso?
«Non ho voglia di fare il dirigente. Mi piace troppo la panchina. Ho sempre scelto quello che mi gratifica di più. Non me ne frega niente se in un altro posto sono più importante».
Perché il «Velaschismo» non ha sedotto il calcio italiano?
«Che io sia stato respinto come un corpo estraneo è una leggenda. Con i giocatori ho avuto un ottimo rapporto, sia alla Lazio che all’Inter. Certo a Milano il ruolo non era molto chiaro e poi è cambiato l’allenatore. Ma non l’ho mai vissuta come se mi avessero ostacolato».
Di cosa è più orgoglioso, fin qui?
«Delle mie tre figlie. E di non aver mai derogato alle cose fondamentali. Non ho mai avuto il mito di Achille, che preferiva la morte gloriosa alla vita senza gloria».
Tornerà a lavorare in Italia?
«È più facile che torni per allenare i bambini. Quello che di certo non farò mai è il politico. Io sono un tecnico: faccio le cose che vanno fatte».
Gaia Piccardi