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 2017  ottobre 15 Domenica calendario

Ian Buruma, nuovo direttore della New York Review of books

Adesso chi glielo spiega a Tom Wolfe, l’inventore dei radical chic, che la New York Review of Books, la rivista che lui stesso definì “l’organo principale” della sinistra intellettuale, è pronta a far scrivere sulle sue leggendarie colonne anche le teste più calde della destra? «Perché no», dice Ian Buruma, sessantacinque anni, il nuovissimo responsabile del magazine fondato mezzo secolo fa da Barbara Epstein, la donna che lanciò in America il Diario di Anna Frank, e Robert Silvers, il direttore che l’ha guidata fino alla sua scomparsa nella primavera scorsa, chiamandoci a collaborare il gotha della letteratura da Truman Capote ad Aleksandr Solženicyn. Sì, Laurene Powell, la vedova di Steve Jobs, ha appena comprato The Atlantic, e New Republic è ripassata dalle mani di Chris Hughes – il co-fondatore con Mark Zuckerberg di Facebook – a quelle di Win McCormack, l’editorialista di The Nation. Il mondo dell’editoria intelligente è sottosopra ma Buruma, l’autore di Assassinio a Amsterdam, lo studioso che indagando sull’omicidio di Theo van Gogh vide emergere dieci anni fa i populismi d’Europa, non sembra spaventato dall’impresa di ridare slancio, aprendola ai più giovani, alla rivista che oggi nel mondo vende continua?
centotrentamila copie. E davanti a un succo di arancia in un localino sul Malcolm X Boulevard – che proprio lui, alla faccia del politicamente corretto, chiama ancora Lenox Avenue – confessa che la sfida più grande, adesso, è «dover andare in redazione tutti i giorni». Pentito? «La prima reazione è stata l’emozione, la sfida. La seconda: ma che ho fatto? Lascio una vita diciamo comoda, scrittore freelance, accademico part- time, per prendermi la responsabilità di dirigere un magazine che è una specie di leggenda». “La sua grandezza di direttore”, ha detto ricordando il fondatore Bob Silvers, “fu di non avere nessuna ambizione da scrittore”. Lei è uno scrittore che ora fa il direttore: come la mettiamo? «Se un direttore aspira a essere uno scrittore si mette in competizione, c’è quel retropensiero che lo porta a pensare: farei meglio io. Fossi stato un po’ più giovane, il rischio c’era: ma qualche libro l’ho scritto anch’io, e onestamente non mi vedo in competizione con gli scrittori che edito». Nella storia della “Review” è apparso un solo editoriale, sul primo numero, 1 febbraio 1963, e si chiedeva “se in America c’è non solo il bisogno, ma la richiesta per una rivista così”. Evidentemente c’era: ma c’è ancora, nell’era del digitale? «Non è il digitale a fare lo scarto: la questione non è “come” ma “cosa” si legge, carta o kindle non mi interessa. Il punto è che cosa può rappresentare, oggi, questa rivista. Un luogo dove giornalismo e accademia si incontrano, dove le idee emerse dall’università possono arrivare al pubblico più vasto. Ma anche un luogo dove si discute serenamente di arte, musica, perfino canzoni». Ecco. “Non voglio fare come quei preti”, ha detto, scherzando sull’esigenza di attirare i giovani, “che entrati in chiesa tirano fuori una chitarra e ci provano con una canzone”. E lo dice lei, che sulla serissima “Review” ha raccontato il mito di David Bowie. «Ma Bowie e Bob Dylan è tutta gente della mia generazione: roba che per i ragazzi è già vecchia». Come li attirerà dunque i nuovi lettori? «Non posso cercare di indovinare i loro gusti: non ho l’età. Però posso invitare a collaborare autori più giovani: è così che si intercetta il nuovo pubblico». Non con internet e il digitale? È la scommessa che da “Atlantic” a “New Republic” stanno facendo tutti i più gloriosi magazine letterari, e non solo. «Ma proprio la crisi di New Republic è la dimostrazione di cosa succede quando si gioca tutto sui nuovi mezzi e non sul contenuto. Intendiamoci: sulla tecnologia ci punto. Dare a blog e newsletter sempre più spazio, e soprattutto un profilo sempre più alto. Ma se cerchi di infilare tutto nei blog e nei tweet fai un errore gravissimo: i lettori più giovani ormai la carta non la leggono più ma questo non vuol dire che non vogliano leggere saggi lunghi e approfonditi online». Troverà spazio per i video? Userà Twitter e Facebook? «Video no, ma podcast sì. Twitter non mi sembra particolarmente adatto a una rivista come questa, mentre Facebook ti consente di distribuire i tuoi prodotti a un pubblico molto più vasto». A quale pubblico pensa? Quanto diverso dai vecchi lettori? «Nell’educazione li vedo piuttosto simili, accomunati dalla stessa istruzione. Ma interessi e conoscenze sono diversi. La generazione più anziana, quella della Review di Silvers, se guardava fuori dall’America guardava all’Europa. Ma i lettori più giovani oggi probabilmente saranno più interessati, chessò, alle anime giapponesi o ai film cinesi: cose impensabili per la generazione che era ancora capace di leggere latino o greco. Mettiamola così: i giovani hanno meno senso della storia, ma sanno più cose». La sua stessa biografia sembra rappresentare la nuova “Review”. Padre olandese, madre inglese, studi a Tokyo e Hong Kong, la vita a New York. In “Their Promised Land” racconta una famiglia culturalmente eterodossa, compreso zio John Schlesinger, il regista di “Un uomo da marciapiede”. Crede che la sua storia personale possa aiutarla a ricoprire questo nuovo ruolo meglio di altri? «Meglio non so, però aiuta. In entrambi i rami della mia famiglia c’è sempre stato un grande interesse per le arti e la musica, avere due culture alle spalle mi ha permesso di guardare oltre i confini nazionali, e lo studio del cinese mi ha dato una prospettiva ulteriore». Dovrà trovare l’equilibrio tra continuità e novità. «Continuità, certo, ma questo non è mica un monumento. Io voglio cambiare. Nessuna rivoluzione: ma non possiamo continuare a parlare di arte contemporanea fermandoci a Picasso e Matisse. E poi ci sono aree del mondo da guardare con più attenzione: l’Asia, appunto, ma anche l’Africa e l’America Latina. Mi piacerebbe seguire molto di più la letteratura straniera: voglio sapere che cosa sta succedendo in Italia, Spagna o Argentina». Al “New York Times” ha lasciato Michiko Kakutani, la signora delle recensioni, sessantadue anni, e al suo posto arriva Parul Sehgal, trentacinque. La “Review” sceglie lei che parla di cambiamento e spazio ai giovani. Non è il riconoscimento di un fallimento? «Il mercato della critica letteraria si è ristretto pesantemente. La crisi della carta stampata, d’accordo. Ma c’è anche un’altra faccia del discorso. In America c’è sempre meno interesse per quello che accade nel resto del mondo, sempre più chiusura verso l’interno. Io voglio provare a fare il contrario: voglio rendere questo giornale anco- ra più cosmopolita. Anche per combattere questo provincialismo crescente». Sta parlando dell’America di Donald Trump? Lei stesso ha dato atto al suo predecessore di aver coraggiosamente schierato il giornale negli anni di George W. Bush: torniamo alla “Review” militante? «La differenza è che contro la guerra in Iraq c’erano solo la Review e The Nation, mentre dal New York Times in giù i grandi giornali stavano più o meno tutti con il governo. Adesso togli Fox News, e sono tutti contro Trump. Ma non credo che sia utile usare una rivista per manifestare la propria rabbia: è più difficile, ma più utile, cercare di spiegare il fenomeno, la connotazione storica, studiare la gente che lo circonda. Lo fa James Mann, un grande giornalista, raccontando su questo numero quelli che abbiamo chiamato “Gli adulti nella stanza”, cioè John Kelly, Jim Mattis, H. R. McMaster – i generali della Casa Bianca. Non ha senso inseguire le sue follie su Twitter: penso anzi che sia necessario fare un passo indietro. Analizzare e spiegare, invece di indignarsi». Non crede che questo lavoro andasse fatto prima? Non vede la responsabilità di tanti intellettuali che hanno sottovalutato Trump? «Se vivi a New York, Chicago o San Francisco è facile ignorare quello che sta succedendo nell’America profonda. A Manhattan la gente è acculturata, ha un buon lavoro: e non ha mai incontrato in vita sua un elettore di Donald Trump. Da qui quel senso di noncuranza: i democratici non si sono neppure degnati di andare a fare campagna elettorale nel Midwest, così sicuri che là avrebbero vinto». Il suo giornale, dice, sarà un luogo di discussione: dando spazio anche agli elettori di Trump? «Questo è un altro discorso. Difficile trovare anche un solo intellettuale serio dalla sua parte. Trump è un demagogo che gioca sulle emozioni: ed è complicato mettersi a ragionare con chi gioca sulle emozioni. Non è un caso che i repubblicani siano spaccati, e tanti conservatori sono ormai dichiaratamente anti Trump. Ecco, magari è con loro che un magazine liberal può parlare». Facciamo un nome. «C’è per esempio questo giornalista, Max Boot. Era a favore della guerra in Iraq, è conservatore, repubblicano, e adesso è uno dei più feroci critici di Trump: con uno così si può discutere». Sta dicendo che sulla sua nuova “Review”, sull’icona dei liberal, farebbe scrivere i conservatori più arrabbiati? «Se è la persona giusta per il tema giusto – perché no?». ?