La Lettura, 15 ottobre 2017
Ritratto di James Baldwin
Un uomo è in piedi davanti a una finestra. Fuori è buio, così vede sul vetro il proprio riflesso specchiato. L’uomo è americano, si chiama David, e la casa in cui si trova ormai da solo è nel sud della Francia. Trascorre così, insonne, la notte che lo porterà al «mattino più tremendo» della sua vita. All’alba, il ragazzo italiano che è stato il suo amante per una stagione verrà giustiziato con la ghigliottina. È all’interno di questa cornice teatrale che si svolge La stanza di Giovanni. Nel tempo di una sola notte David rievoca le circostanze che lo hanno portato lì, e che hanno condotto Giovanni al patibolo; cerca di risalire al «momento cruciale, determinante, il momento che ha cambiato tutti gli altri», pur sapendo che, nel farlo, ci si trova sempre «incalzati e dolenti in un labirinto di falsi indizi e porte che si chiudono bruscamente».
Due anni prima David si era trasferito da New York a Parigi, spinto da uno di quegli attimi tipici della seconda giovinezza che Conrad chiamava «di tedio, di stanchezza, di insoddisfazione» e che lui definisce in modo più sintetico, alla francese, di ennui. A Parigi ha conosciuto Hella, americana come lui, alla quale ha chiesto di sposarlo. Dopo la proposta lei è partita per la Spagna, era incerta, voleva riflettere, ma nei mesi in cui David si trova da solo, qualcosa di antico e rimasto sopito a lungo si impadronisce di lui. Viene attratto magneticamente dagli ambienti più libertini, dissoluti della città e in uno di quei bar, gestito da un uomo lascivo di nome Guillaume, incontra Giovanni. David s’innamora di lui e finisce per vivere i mesi senza Hella nella sua stanza, la «stanza di Giovanni» del titolo, dove le lenzuola sono sempre disfatte, sporche, umide, i muri scrostati e finestre verniciate di bianco per impedire di guardare all’interno. Poi, all’improvviso, Hella torna con una risposta, David va ad accoglierla e tutto precipita in fretta, dentro e intorno a lui.
La stanza di Giovanni – del quale ho cercato di restituire i tratti essenziali di trama senza rovinare gli svelamenti su cui è costruito – è il secondo romanzo di James Baldwin, pubblicato nel 1956, quando lui aveva trentadue anni. Torna ora nelle librerie italiane per Fandango, inaugurando la ripubblicazione di tutta l’opera di quello che è stato, senza tema di smentita, uno degli scrittori e degli intellettuali più importanti del secolo scorso, una ripubblicazione che avviene anche grazie all’impulso ridato alla figura di Baldwin dal documentario di Raoul Peck, I Am Not Your Negro, vincitore dell’Oscar.
La storia editoriale di La stanza di Giovanni è tumultuosa, venata di scandalo. Come avviene per molti «secondi libri», anch’esso nasceva in gran parte da una reazione all’esordio, Gridalo forte, che affrontava la questione razziale e aveva, contrariamente alla sua volontà, relegato fin dal principio Baldwin nella categoria asfittica degli scrittori afroamericani. Così lui, nero di Harlem, osò spiazzare tutti raccontando una storia ambientata a Parigi, dove i protagonisti erano bianchi e il cui fulcro era l’omosessualità, a quel tempo vietata per legge negli Stati Uniti. L’agente di Baldwin, dopo averlo letto, gli consigliò di bruciarlo e la casa editrice di Gridalo forte, la Alfred A. Knopf, si rifiutò di pubblicarlo con la scusa che Baldwin stesse tradendo il suo pubblico. Baldwin licenziò l’agente e contattò un’altra casa editrice di minore prestigio, la Dial Press. «Scrivere un romanzo omosessuale “senza razza” – dice Caryl Phillips nella prefazione all’edizione Penguin —, e farlo all’esordio di una carriera promettente, suggerisce un calcolo o un’ammirabile avventatezza di spirito, oppure entrambi. In retrospettiva, è chiaro che James Baldwin sapeva esattamente che cosa stava facendo».
E tuttavia, ancora oggi sarebbe un errore confinare il romanzo di Baldwin alla categoria della «narrativa omosessuale», così come era stato un errore confinare la sua prima opera nella riserva della «letteratura afroamericana», perché la questione che il libro affronta è molto più ampia dell’omosessualità intesa come orientamento personale, difficile da accettare o socialmente reprensibile. Tutto questo esiste nel libro, sottotraccia, ma il vero problema legato all’emergere – o meglio, al riemergere – dell’omosessualità nel protagonista è per Baldwin qualcosa di molto più assoluto e grave e inesprimibile, qualcosa che ha a che fare con la libertà illimitata e spaventosa che si spalancherebbe dinanzi a David se solo lui permettesse al proprio desiderio di esistere. L’atto decisivo della storia, infatti, non è quello con cui David sceglie di entrare nella stanza di Giovanni, bensì la sua decisione di uscirne a un certo punto. La libertà che si trova oltre la porta della stanza di Giovanni è per lui eccessiva e dunque inaccettabile. Gli era già capitato in passato di risvegliarsi nel letto di un ragazzo. In quel momento il suo corpo gli era apparso «come la bocca nera di una caverna nella quale sarei stato tormentato fino a impazzire, nella quale avrei perso la mia virilità. (...) Forse iniziai quell’estate a sentirmi solo e iniziai, quell’estate, la fuga che mi ha portato a questa finestra che piano piano si oscura».
È forse azzardato cercare un’origine della tensione morale che rende Baldwin molto più di uno «scrittore omosessuale», molto più di uno «scrittore nero», come la doppia segregazione costantemente in atto in letteratura rischierebbe di bollarlo. Può darsi che si tratti di un’inclinazione innata, oppure di una pura ricerca formale. D’altra parte, come scrive Colm Tóibín, «Baldwin guardava più a Henry James che a Richard Wright. Voleva che il pericolo venisse dall’interno». Ma possiamo tuttavia avanzare l’ipotesi che parte della sua inquietudine abbia a che vedere con la sua infanzia religiosa. Il patrigno di Baldwin, un uomo scostante e violento, era un predicatore pentecostale e fin da piccolo Baldwin era stato avviato alla stessa pratica. Quando era ancora molto giovane conobbe un’insegnante bianca, Orilla Miller, della quale parla nel saggio Congo Square, una donna fuori dagli schemi che lo introdusse al cinema e al teatro. Baldwin le era devoto, ma un giorno si recò da lei, sulla dodicesima strada a New York, per comunicarle che era stato «salvato» da Dio e che pertanto non sarebbe più andato al teatro o al cinema, né l’avrebbe rivista. La risposta di Orilla a quel tradimento si sarebbe conficcata per sempre nel cuore di Baldwin: «Non nutro più molto rispetto per te». «Probabile – aggiunge lui raccontandolo – che da quel momento in avanti ne avessi perso molto io stesso».
Ecco il nodo di La stanza di Giovanni e forse di tutta la produzione di James Baldwin: l’impossibilità di accedere al desiderio di libertà che si trova in ognuno di noi per la paura, altrimenti, di esserne distrutti. Parigi è la grande realizzazione simbolica di questa libertà proibita, con i suoi bar e i balli fino a tarda notte e le ostriche e i boulevard illuminati e la bellezza straziante. «Gli americani non dovrebbero mai venire in Europa – afferma Hella – perché poi non possono più essere felici». In America, vale a dire negli Stati Uniti, la felicità è infatti garantita a ognuno dalla nascita, a patto che egli interpreti senza eccezioni il ruolo che gli è stato assegnato. Così Hella, esattamente come David, avverte l’inevitabilità di sposarsi, di tornare in America e fare dei figli, di incarnare infine lo stereotipo che le compete. Così ogni maschio deve essere eterosessuale, un «toro», ogni donna deve essere madre, ogni nero uno schiavo, ogni bianco un cowboy e ogni scrittore afroamericano deve scrivere di afroamericani. Il prezzo per la disubbidienza è un terrore infinito.
Baldwin stesso dichiarò in un’intervista: «La questione sessuale e la questione razziale sono sempre state intrecciate. Se gli americani possono maturare a livello di razzismo, allora devono maturare a livello di sessualità». Vanno interpretati in questa chiave i discorsi oziosi che David e Giovanni fanno durante la loro prima lunga notte insieme, sballottati fra Les Halles e Montparnasse: «Ah, mi dicono che New York sia molto bella. È più bella di Parigi? – Oh, no, nessuna città è più bella di Parigi». Quelle parole all’apparenza vuote si muovono attorno all’ennesimo groviglio identitario, importante per David quanto lo era per James Baldwin. Anche lui, per anni, continuò a scappare da New York e a ritornarci, governato dalla nostalgia di Harlem quando era lontano e dall’inquietudine di esserci quando tornava, dall’impossibilità di accettare il proprio essere americano negli Stati Uniti che lo rifiutavano in quanto nero e in quanto omosessuale, mischiato alla consapevolezza di essere americano in ogni tessuto del corpo. David si lamenta così: «Mi dava fastidio che mi dicessero che ero un americano (e mi dava fastidio che mi desse fastidio) poiché sembrava ridurmi a nient’altro che quello, qualsiasi cosa fosse: e mi dava fastidio che mi dicessero che non ero americano poiché sembrava annullarmi».
Ma, se il rischio della libertà è chiaro, qual è la conseguenza della rinuncia al proprio desiderio, della rinuncia a Orilla Miller, a Giovanni, ad Harlem e all’America? Forse questo lo sappiamo tutti, almeno in segreto: è la condanna a una vita di menzogna, allo squallore e all’odio di sé. Nell’invettiva che rivolge a un certo punto contro David, Baldwin accusa se stesso e ognuno di noi: «Vuoi lasciare Giovanni perché ti fa puzzare. Vuoi disprezzare Giovanni perché non ha paura della puzza dell’amore. Vuoi ucciderlo in nome di tutti i tuoi falsi piccoli moralismi. E tu... tu sei immorale».