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 2017  ottobre 15 Domenica calendario

Ayelet Waldman: «Perché la California dovrebbe scindersi dagli Stati Uniti»

Parla con franchezza e ironia, Ayelet Waldman, autrice di saggi e romanzi in grado di generare elogi e accendere polemiche – per esempio Sono una cattiva mamma e L’amore e altri luoghi impossibili. Nata a Gerusalemme e cresciuta secondo i principi della cultura ebraica, Ayelet si è trasferita ancora bambina con la famiglia prima in Canada e poi negli Stati Uniti, in fuga dalla Guerra dei Sei giorni. Nel 1991 si è iscritta alla Scuola di Legge di Harvard, dove, tra i suoi compagni, c’era anche Barack Obama: durante la campagna presidenziale è stata una dei suoi più grandi sostenitori. Nel 1993 ha sposato Michael Chabon.
Nel corso degli anni Ayelet è stata più volte in Israele. A giugno vi è tornata insieme al marito per promuovere Cenere e ulivi, un’antologia in cui i due hanno raccolto ventisei testimonianze di autori di differenti lingue e affiliazioni religiose sui cinquant’anni del conflitto con la Palestina. Un viaggio che li ha aiutati a conoscere più a fondo la sinistra israeliana e le tante comunità locali che si occupano di giustizia sociale.
Waldman e Chabon hanno quattro figli e abitano a Berkeley in una casa in stile Art & Crafts riparata dagli alberi. Sulla facciata è esposta la bandiera della Repubblica della California. «Ho scoperto che Michael l’aveva appesa solo quando sono rientrata da un viaggio di lavoro – racconta a “la Lettura” nel giardino sul retro – ma sono a favore della secessione. Mi sento legata alla California e piuttosto aliena al resto degli Stati Uniti. Mi piacerebbe fosse possibile lasciarli, soprattutto oggi che stiamo vivendo l’inizio di una nuova ondata di supremazia bianca. Ahimè, è un sogno irrealizzabile, ma se si arrivasse al voto direi sicuramente sì».
Alcuni gruppi di estrema destra sono arrivati anche qui nella democratica Berkeley, cercando di far chiudere la libreria Revolution Books che da anni lotta per la libertà di parola...
«Sono arrivati perché siamo un simbolo della sinistra e perché qualche stupido componente di Antifa, movimento che si autoproclama antifascista, ha dato loro ciò di cui hanno esattamente bisogno: un confronto ripugnante. Mia figlia ha seguito una protesta per il giornale della scuola ed è stata coinvolta in quella bassezza. Era molto spaventata. Al di là di questo, ci rifiutiamo semplicemente di far parte della loro viltà manipolativa».
È sempre più chiaro che i nuovi suprematisti bianchi d’America considerano anche gli ebrei una categoria razziale.
«A Charlottesville, tra i tanti slogan razzisti, i manifestanti esibivano svastiche e urlavano condanne anche contro gli ebrei; ma tutti gli estremismi sono spaventosi. Finalmente molti americani di estrema sinistra hanno aperto gli occhi e cominciano a vedere gli ebrei come vittime della supremazia bianca, ma alcuni credono ancora che a quelle marce gli afroamericani siano stati vittime di tutto, tranne che di neonazismo. E ci sono ancora troppi ebrei che sostengono Trump, e questo per me e Michael è incomprensibile».
Tutti questi anni sono passati invano?
«Sono nota per il mio pessimismo, però io credevo che l’arco della storia andasse verso la giustizia».
Invece?
«Prima c’era il quarto potere e i giornalisti avevano un codice etico. Oggi Facebook ha sostituito il giornalismo, senza avere un codice etico. L’informazione falsa è ubiqua. Credo che le elezioni di Obama siano state la fine di un’epoca. Pensavo che il razzismo si sarebbe estinto, una volta sepolti i pochi razzisti superstiti, ma l’elezione di Trump e il ritorno della supremazia bianca negli Stati Uniti hanno dato forza a quel piccolo gruppo che cresce, acquista sempre più potere e coinvolge anche molti giovani. È un circolo vizioso. Spero solo che il punto massimo arrivi dopo la mia morte. Michael è più ottimista».
Lei non coglie nessuna possibile soluzione?
«Forse dividendo questo Paese in due. Non credo alla costruzione di un muro in Palestina e Israele, ma la mia speranza che un muro possa funzionare qui negli Stati Uniti è alta».
Stati «blu», cioè democratici, da una parte e «rossi», repubblicani, dall’altra?
«È chiaro che viviamo già in due Paesi diversi. La prima è una nazione in cui alcuni valori fondamentali sono: possedere una pistola, sottomettere le donne, ripugnare i gay e i trans, disprezzare gli immigrati e dove ci si aspetta che ciascuno se la cavi da solo. L’altra è una nazione dove i diritti delle donne e di tutte le etnie sono riconosciuti e rispettati, il matrimonio gay ha senso, i trans non fanno paura, l’ambiente merita di essere protetto, il secondo emendamento è una reliquia, l’aborto e l’assistenza sanitaria sono diritti, i ricchi pagano le tasse in porzione equa e ai poveri è garantito un reddito di base. Un Paese dove l’immigrazione e le arti sono viste come un bene. Non sarebbe fantastico se potessimo semplicemente separare queste due nazioni? Vorrei che questa repubblica non fosse più in continua lotta con se stessa come un cobra e una mangusta».
A gennaio lei ha fatto discutere con la pubblicazione negli Stati Uniti di «A Really Good Day», il libro in cui parla di come alcuni suoi problemi di depressione e sindrome bipolare sono migliorati grazie al microdosaggio sperimentale per trenta giorni di Lsd, che è illegale.
«Mi aspettavo condanne di massa, invece il supporto che ho ricevuto è stato incredibile. Le persone sono state molto aperte di mente, anche alcuni giudici federali! Eravamo in un periodo in cui tutti sembravano avere un atteggiamento più sano ed equilibrato nei confronti dell’uso di droghe. Ora, grazie alle azioni retrograde del procuratore generale Jeff Sessions, siamo tornati indietro. Sono paranoica e mi aspetto che qualcuno bussi alla porta, sebbene abbia finito da tempo questa cura sperimentale e in casa non ci sia più nulla».
Ci suggerisce due romanzi che l’hanno fatta innamorare della letteratura?
«Un giorno la bibliotecaria mi ha visto riempire un cestone di libri d’amore. “Sono bellissimi” mi ha detto, “prendi anche questo”. Era un tascabile come gli altri, ma la ragazza in copertina aveva i seni un po’ più piccoli e un vestito modesto. Prima lessi tutti quelli che avevo scelto io. Poi presi il suo e il mio mondo fu sconvolto. Provai lo stesso piacere dei libri di Barbara Cartland, ma la scrittura era meravigliosa. Era Orgoglio e pregiudizio. Capii che da certi romanzi potevo avere entrambe le sensazioni di romanticismo e piacere della lettura. Credo di aver avuto circa quattordici anni».
Il secondo?
«È banale, ma dico Il giovane Holden, che per esempio a due dei miei figli è piaciuto mentre gli altri due continuavano a ripetere: “Smettila di piagnucolare, Holden. Sei un tale privilegiato. Ripigliati!”. Per me invece è stata una di quelle storie che ti fanno sentire come se solo tu e l’autore foste in grado di vedere il mondo per quello che davvero è. “Io e te, Holden, siamo cinici perché siamo geniali”. C’è stato un periodo piuttosto consistente della vita in cui ero il tipo da “capisco tutto io”. Lo faccio ancora, no? Le ho appena dato un’interpretazione del futuro molto cinica!».
Libri e autori più o meno nuovi di cui consiglia la lettura?
«Exit West di Mohsin Hamid. Dovremmo leggerlo tutti. È in assoluto il miglior libro da leggere, adesso. È perfetto, brillante, incredibile, dovrebbe vincere tutti i premi letterari. Mi piace molto Taiye Selasi. È bravissima ed è tra gli autori di Cenere e ulivi. Ha scritto un romanzo in metrica, me ne sono accorta solo quando ero quasi a metà: un libro attraversato dal ritmo. Poi direi NoViolet Bulawayo, un’altra scrittrice afroamericana che ritengo fenomenale. E sono un po’ ossessionata da Il segreto di famiglia di una certa Anonima. Parla di una donna violentata dal padre dall’età di tre anni. Un po’ fosco, ma ne sono ossessionata perché è scritto in modo meraviglioso. Di sicuro è una giovane autrice non al suo primo romanzo. Sì, lo so che non è corretto, ma devo assolutamente scoprire chi è!».