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 2017  ottobre 14 Sabato calendario

Denunciare l’accordo con l’Iran è l’ennesimo errore di Trump

SENZA aspettare la scadenza del 15 ottobre, Donald Trump ha preannunciato la “de-certificazione” dell’accordo sul nucleare raggiunto nel 2014, il Joint Comprehensive Plan of Action – Jcpoa. Come più volte dichiarato dall’Aiea, e mai seriamente smentito da Washington (Trump ha infatti parlato di violazione dello “spirito” dell’accordo) l’Iran lo ha integralmente rispettato. È la stessa posizione degli altri paesi che hanno raggiunto l’intesa dopo anni di difficile trattativa con l’Iran: i Cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e la Germania. Con questo annuncio risulta confermato che, come gli iraniani hanno sempre sostenuto, Washington usava la questione nucleare come strumento per conseguire altre finalità, in sintesi mantenere l’Iran isolato politicamente e debole economicamente. È anche vero, d’altra parte, che in fondo lo stesso valeva per gli iraniani, nel senso che la minaccia di potersi dotare dell’atomica era l’unico modo per essere accettati a un tavolo delle trattative, e con questo riconosciuti come avversario ma anche come potenziale partner economico. Rimane comunque vero che l’accordo ha un importante valore in sé sia in quanto allontana la prospettiva di una militarizzazione del programma nucleare civile iraniano – con la conseguenza di scatenare una corsa alla nuclearizzazione dell’intera regione – oltre a scongiurare la prospettiva di un nuovo conflitto nel Medio Oriente. Trump aveva ripetutamente definito l’accordo come disastroso per gli Stati Uniti, anzi, vergognoso. Ma per il Presidente americano la coerenza, come noto, è tutt’altro che un limite o un freno ai suoi sempre più incontrollati impulsi, sempre più tali, e nemmeno possiamo attribuirgli grandi disegni geopolitici. Per Trump si tratta soprattutto di immagine, un’immagine che ci tiene a far emergere per contrasto rispetto al suo predecessore. Il suo desiderio di sabotare l’accordo sul nucleare iraniano, in questo senso, sta sullo stesso piano dell’attacco alla riforma sanitaria – il secondo sostanziale successo di Obama. L’attacco all’Obamacare è sostanzialmente fallito. Si può prevedere lo stesso per quanto riguarda il Jcpoa? Lo stesso Trump sembra rendersi conto del fatto che, visto l’atteggiamento non solo dei 5+1, ma della comunità internazionale nel suo complesso, l’America non può pensare di svolgere con successo un’azione da killer solitario. A questo riguardo merita di essere guardata l’intervista che l’Alta rappresentante per la politica estera della Unione Europea, Federica Mogherini, ha concesso in data 11 ottobre alla televisione indipendente americana Pbs. Un’intervista di una totale ed articolata chiarezza e di una fermezza critica che, se percorriamo le vicende dei rapporti euro-americani, è emersa soltanto in poche occasioni. Trump ha sostanzialmente rinviato la palla al Congresso contando suoi radicati e bi-partisan sentimenti anti-iraniani per un rilancio delle sanzioni che potrebbe portare a una denuncia dell’accordo da parte iraniana. Soprattutto, ha cambiato discorso, presentando una strategia globale nei confronti di un regime che ha definito come fanatico e impegnato nel sostegno al terrorismo. Accuse che rinviano al Medio Oriente nel suo complesso, e soprattutto ai conflitti in Siria e Yemen e all’appoggio iraniano ad Assad e ai ribelli Houthi. Temi non solo reali, ma drammaticamente seri nella misura in cui sono fattori che contribuiscono al confronto politico-militare in corso nella regione. Temi su cui l’Iran andrebbe coinvolto in un discorso fatto certo di deterrenza e capacità di contrasto, ma anche con la ricerca di compromessi e possibilità di sbocchi diversi dal conflitto. Il progetto dell’attuale Presidente iraniano, Rouhani, era proprio questo. Sia lui che il suo ministro degli esteri, Zarif, non hanno mai nascosto che consideravano l’accordo sul nucleare non un punto di arrivo, ma un punto di partenza per un processo negoziale che avrebbe dovuto portare a una graduale normalizzazione dei rapporti fra Iran e Stati Uniti. Fra l’altro si tratta di un disegno che ha sempre caratterizzato la componente riformista del regime iraniano. Nel 2003 il governo Khatami propose agli Stati Uniti, con l’invio di un documento informale ma autorizzato ai più alti livelli della Repubblica islamica, un percorso di trattativa che andava ben oltre la questione nucleare, ma avrebbe dovuto estendersi a temi come il terrorismo e il Medio Oriente, con l’esplicita disponibilità iraniana di discutere su obiettivi americani come «la cessazione dell’appoggio iraniano a organizzazioni combattenti palestinesi come Hamas e Jihad»; «la trasformazione di Hezbollah in una semplice organizzazione politica libanese»; «l’accettazione della dichiarazione di Beirut della Lega Araba (iniziativa saudita, approccio dei due stati)». Gli americani – con George Bush alla Casa Bianca – non si degnarono nemmeno di accusare ricevuta della proposta, e due anni dopo alla presidenza dell’Iran giunse Ahmadinejad. Ma se non si tratta con l’Iran, se non si trova un equilibrio fra il contrasto alle sue ambizioni contrarie agli interessi dei suoi vicini e di Stati Uniti ed Europa e il riconoscimento dei suoi legittimi interessi di sicurezza, come si pensa a Washington che sia possibile conseguire l’obiettivo di maggiore stabilità e minore conflitto nell’intera regione? O si sconfigge il nemico o si tratta con lui. Ma davvero gli americani, dopo una serie di fallimenti – dal disastro afghano (sedici anni di guerra senza che si intraveda uno sbocco) all’incapacità di sconfiggere militarmente il cosiddetto Stato Islamico – pensano che qualcuno possa considerare seria l’opzione di una guerra americana contro l’Iran? No, tutte le opzioni non sono sul tavolo.