Sette, 12 ottobre 2017
Vittorio Beonio Brocchieri. L’inviato volante assunto con un bluff
«Il mio motto è “vivere polifonicamente”. Il mio ideale è l’uomo prismatico. Una vita sola è troppo poco. Bisogna viverne almeno quattro o cinque, contemporaneamente. Essere al tempo stesso professore, uccello, pedagogo, brava persona e rompicollo. Mi piace l’esistenza come insalata. Metterci dentro un po’ di tutto e poi mescolare. Qualche cosa salta fuori. Se domani mi dicessero: “C’è una catapulta che può spararti sulla Luna”, giuro che mi farei catapultare».
Vittorio Beonio Brocchieri è stato fedele al suo motto. E in 77 anni «vissuti polifonicamente» ha riempito più di un’esistenza. «Un’anima leonardesca, nel senso dell’universale» lo definiva Cesare Angelini, sacerdote e letterato, suo compagno di studi e goliardate. Nato a Lodi da una famiglia benestante, è stato studente modello (una laurea in giurisprudenza e una in filosofia) ed emulo di Robinson Crusoe (da giovane si aggirava per i boschi e il greto dell’Adda, seminudo, pescando carpe e trote che poi cucinava al fuoco della sterpaglia); è stato aspirante ciclista (si allenava per partecipare al Giro d’Italia) e professore universitario (a 24 anni gli affidarono la cattedra di Scienze Politiche all’ateneo di Pavia). instancabile studioso, è stato lettore vorace (leggeva camminando, tenendo sempre un libro di scorta in tasca) e scrittore; appassionato di pittura, teatro, parapsicologia. Un viaggiatore frenetico, che aveva messo a punto «la tecnica del viaggio senza bagaglio»: ovvero partire con i soli abiti che aveva addosso. Quando «la geografia terrestre» non gli è più bastata e ha avuto bisogno di «più spazio libero», prese il brevetto di pilota, con il quale compì imprese impossibili («Un pilota eccezionale» lo definì Lindbergh). Ma soprattutto Vittorio Beonio Brocchieri, classe 1902, è stato un grande giornalista, il primo «inviato speciale volante» che ha raccontato le sue imprese negli angoli più sperduti del globo con una prosa che mischiava citazioni colte al reportage attento e preciso. «Scrivere è un comando interiore più irresistibile che il comando stesso della vita», diceva. «È un modo per consegnarsi all’invisibile». E lui scriveva dai luoghi più impensati «dalle bettole dei marinai alle anticamere delle Regie Legazioni dove ero guardato come un’apparizione fluida, un’ipotesi della natura, un tipo umano transeunte».
La «fregola per il giornalismo» diventa un desiderio «friggente» alla fine dell’università, a 22 anni. Approda prima al Secolo poi alla Stampa. In via Solferino arriva nel 1930, con uno stratagemma che rispecchia il suo vivere spericolato. Dopo aver letto su un giornale tedesco che la Norvegia stava preparando una spedizione in Groenlandia alla ricerca dei resti di Amundsen, Beonio Brocchieri prima scrive agli organizzatori proponendosi come esperto operatore cinematografico (lui che non aveva mai posseduto una cinepresa), poi manda un telegramma ad Aldo Borelli, direttore del Corriere della Sera, spacciandosi per l’«unico italiano possibilitato a partecipare» a quell’esplorazione e proponendogli l’esclusiva. E Borelli lo manda a chiamare. È disposto ad accettare la proposta se entro 48 ore Brocchieri gli mostrerà la lettera in cui i norvegesi confermano le sue parole. Il bluff funziona. La risposta da Oslo arriva in tempo e lui parte.
Il 28 agosto 1939 firma così il suo primo scoop: il ritrovamento, con i diari di bordo, dei resti di Andrée l’esploratore che nel 1897 aveva tentato di sorvolare in pallone libero il Polo Nord. Pubblicato in prima pagina, il reportage viene ripreso dalla stampa internazionale, aprendogli la strada del giornalismo. «Il mio documentario fu sviluppato a Berlino e faceva schifo», confesserà, «ma non era il cinema che mi premeva allora, era il Corriere». Che infatti lo arruola, con l’unico compito di viaggiare e raccontare sulle sue pagine quello che avrebbe visto e scoperto. L’anno successivo compie così il «Giro del mondo alla ventura» «cioè acchiappando a casaccio navi, ferrovie, velivoli come mi saltava in testa. Viaggiavo tenendo in tasca tre cose: fazzoletto, passaporto e borsellino».
Fino [1]a quando, nello stesso anno, il professore-giornalista (che continua a tenere le lezioni all’università di Pavia, affiancando i suoi articoli a conferenze seguitissime in giro per il Paese) prende il brevetto di pilota e comincia a girare in solitaria dall’Italia alla Scandinavia, dalla Russia all’Africa dove, con un piccolo aereo messogli a disposizione dal Corriere, segue la guerra d’Etiopia. è iscritto al partito fascista ma è un antimilitarista convinto. e, con l’entrata in guerra dell’italia, le sue crisi di coscienza lo portano ad aderire alla resistenza come «patriota vettori».
Beonio Brocchieri morirà molti anni dopo, nel 1979, lasciando tre figli e una moglie – anche lei provetta pilota d’aereo – oltre a libri e commedie teatrali. Continuerà a vivere intensamente aggiungendo sempre nuovi ingredienti alla sua insalata esistenziale: esempio per le generazioni future a non sedersi mai su ciò che si è o si è fatto, ma ad andare avanti, sperimentando e rischiando.
«La verità è diffusa nell’atmosfera della vita, come ossigeno», diceva. «Diffido di tutti coloro che hanno l’ossessione della setticemia, che hanno paura d’infettarsi, che temono i contagi e le impurità. Perché se togli i batteri e i microbi dal ciclo della vita, la vita si arresta».
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