la Repubblica, 12 ottobre 2017
«Nostalgia di Meroni con Best e i Beatles ci aprì gli occhi»
TORINO Un lungo viale alberato, due amici che lo attraversano, un’auto che sbuca dalla nebbia, un passo indietro d’istinto e spavento, un’altra auto che li centra in pieno. Uno vive, l’altro muore. Mezzo secolo rapidissimo è passato così, come quella spider, e domenica saranno cinquant’anni che Gigi Meroni non c’è più. Ma la sua presenza, il suo segno nel tempo, il suo ricordo fragile sono intatti.
«Però non l’ho mai visto portare una gallina al guinzaglio, quella è leggenda». Natalino Fossati, di Meroni era il fratello. «Ci siamo conosciuti ragazzi nelle giovanili azzurre, poi insieme al Genoa e al Toro. Ho sempre diviso la stanza con Gigi. Alle 9 di sera si addormentava, era serissimo pur nel suo genio e non solo col pallone perché lui era proprio un artista. Una volta gli tagliai i lunghi capelli mentre dormiva: non lo chiamavano in nazionale perché era un capellone, ma dopo quel taglio lo convocarono per la prima volta, che mondo strano e sciocco, eh? Un’altra volta, lui ancora un pivello, Sivori lo avvicinò dopo la partita e gli disse: tu sarai il mio erede. C’ero, e l’ho sentito. Quando si andava al ristorante a Portofino con i compagni, Gigi prima che arrivasse la frutta si alzava di scatto e andava a pagare, sempre. Si strappava i jeans, portava la cintura bassa sul sedere, si dipingeva i bottoni delle camicie, era un’icona pop ma anche un giocatore meraviglioso, un’ala destra come non ne sono più nate. Unico, e senza difese. Anche Balotelli forse è così, però senza la testa di Gigi, senza quel rigore. Morì in una sera di nebbia, mai più vista tanta in città. Tutti lo amavano. A Genova, ogni mattina trovavamo una bottiglia di latte e un piatto di frutta davanti al portone».
Anche Gigi Simoni l’allenatore giocò con Meroni nel Toro, poi andò alla Juve al posto dell’altro Gigi. «Il povero Pianelli aveva già venduto lui per 750 milioni, ma la reazione dei tifosi fu talmente forte che il presidente ci ripensò, così alla Juventus andai io. Meroni era tenerissimo e strano, con reazioni a volte incomprensibili. Si giocava a carte nella sua mansarda per il conforto di stare insieme. Gli piaceva provocare la gente, si vestiva da pastore, metteva le abat-jour per illuminare l’auto, una Balilla nera con i cerchi in bronzo. La sua intelligenza sembrava solo il gusto di prendere in giro, invece era l’espressione complessa di un animo unico. E del calciatore, talmente grande, non parlo nemmeno. Anche Rocco, severissimo con chiunque, lo adorava: gli faceva saltare i gradoni del Filadelfia battendogli un ramoscello sulle gambe, però lo adorava. La classe è anche stranezza ed è sempre irregolarità: Gigi la conteneva dentro un corpo da passerotto, con un cuore difficile da capire. Lo ricordo sensibilissimo e quasi sempre serio, forse una premonizione. Se somiglia a qualcuno? Gli porti via qualcosa se lo accosti a chi non esiste».
Invece Emiliano Mondonico, dopo, indossò la sua maglia granata numero 7. «E non era un peso, assolutamente, perché non mi poteva neanche passare per la testa di paragonarmi a lui: Gigi era troppo grande per chiunque. Per la mia generazione è stato di enorme aiuto, ci ha fatto capire che i ragazzi non sono al servizio di tutti e non devono sempre dire signorsì. Lui è stato i miei Beatles, il mio George Best, un idolo ancora prima di mettersi a giocare. Il suo solo apparire mi ha messo addosso una tale sicurezza. Gigi Meroni è andato molto al di là del calcio, per questo ne parliamo ancora: ci ha aperto gli occhi, era un animale libero e ti spiegava che ognuno può esserlo, ognuno deve esserlo. Aveva, come posso dire?, un alone e lo trasmetteva agli altri. Meroni era la diversità possibile in un mondo che stava cambiando, su un campo di calcio e fuori. Lo amavamo perché assomigliava ai nostri desideri».