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 2017  ottobre 03 Martedì calendario

Collasso di culture

 

Il Mediterraneo era in pieno sommovimento. L’economia era in preda a una crisi profonda, gli stati sprofondavano nel caos, i governi venivano abbattuti e città un tempo fiorenti erano ormai ridotte in macerie e cenere. Migliaia di persone erano in fuga, alla ricerca di una nuova casa. Tutto questo può suonare familiare, eppure non sto descrivendo la situazione attuale del Vicino Oriente odierno. Sto parlando di una crisi fondamentale risalente a 3200 anni fa, che può essere considerata un punto di svolta nella storia universale. Nuove ricerche proiettano oggi più luce sullo sfondo di queste trasformazioni epocali.
Durante la tarda Età del bronzo fiorì in Grecia e nelle isole dell’Egeo la grande civiltà micenea, che trovò il suo massimo sviluppo durante il cosiddetto periodo palaziale, dal 1400 al 1200 a.C. Possenti cittadelle e sepolcri monumentali manifestavano la ricchezza e l’influenza dei sovrani protogreci. Un sistema di strade percorreva il paese e attestava le conoscenze tecniche dei costruttori greci, che realizzavano strade e ponti abbastanza larghi da permettere il passaggio di carri da guerra e resi più sicuri da muri di sostegno e passaggi per lo sfogo dell’acqua. Ebbero origine a quell’epoea i tre «Ponti di Arcadico», che collegavano vari centri del Peloponneso col porto di Palea Epidauro. Gli «ingegneri» più antichi manifestarono le loro capacità costruendo anche canali e dighe con cui prosciugarono estese paludi. Per esempio, strapparono al bacino del copale, una resina simile all’ambra ma non ancora completamente fossilizzata, delle aree di terreno coltivabile, che poi tornarono sommerse dall’acqua, fino al XIX secolo, quando furono prosciugate da ingegneri francesi, che ristabilirono così il collegamento con costruzioni del periodo miceneo.
Nei palazzi i visitatori potevano ammirare dipinti murali dai colori vistosi e rilievi impressionanti come la Porta dei leoni a Micene, ma anche intagli in avorio e sculture in piccolo formato in argilla e metallo. Sulla base di due scritture sviluppate in precedenza nella cultura minoica di Creta la lineare A e un sistema di geroglifici ebbe origine la scrittura sillabica lineare B in materia amministrativa, per esempio per elencare le quantità di merci presenti in un magazzino o per tenere la contabilità del personale, con le relative mansioni e remunerazioni.
Dall’apogeo alla catastrofe
A quest’epoca la cultura micenea si irraggiò nell’intero Mediterraneo. Non soggiacquero alla sua influenza solo Creta e le Cicladi, ma anche a Rodi, a Coo e in Asia Minore furono costituite basi d’appoggio. Le élite micenee mantennero stretti rapporti tanto con i popoli del Mediterraneo occidentale e dell’Europa centrale quanto con le grandi civiltà del Vicino Oriente. Fonti scritte e reperti archeologici attestano per esempio rapporti fra i principi greci e il grande re degli ittiti, i reggenti sulla Costa del Levante come pure il faraone d’Egitto.
Tutti questi regni avevano legami sorprendentemente stretti fra loro e praticavano un attivo commercio di scambio. Gli archeologi marini hanno recuperato prove particolarmente spettacolari delle merci prodotte e dell’estensione degli scambi dai relitti di navi affondate. Così una nave naufragata più di 3300 anni fa presso il capo di Uluburun, davanti alla costa meridionale dell’attuale Turchia, trasportava un carico considerevole, chiaramente diretto verso nord. Era costituito da 10 tonnellate di lingotti di rame provenenti da Cipro, una tonnellata di lingotti di stagno provenienti probabilmente dall’Estremo Oriente, 350 chilogrammi di vetro blu proveniente dall’area siro-palestincse, la resina del terebinto, apprezzata nella produzione di profumi e in terapia, vasi, armi e utensili. Furono recuperati anche prodotti di lusso come legno di ebano e avorio, ambra gialla del Baltico e uno scarabeo egiziano.
Questa età dell’oro si tramutò improvvisamente in una catastrofe. In Grecia palazzi e insediamenti furono distrutti da incendi e alcune regioni, come l’antico territorio della Messcnia, furono addirittura spopolate: nel XII secolo a.C. vivevano ancora esseri umani solo in un decimo dei loro insediamenti. La qualità dei prodotti, come quella degli edifici, calò. La scrittura lineare B, commisurata esattamente alle esigenze dei palazzi, fu dimenticata, e si trovò una scrittura in grado di subentrarle solo più di 400 anni dopo. Gli studiosi di questo periodo della protostoria greca parlano spesso di «epoca buia» della Grecia, ma gli scavi degli ultimi anni hanno corretto questa immagine.
La catastrofe non colpì solo la terraferma greca. Contemporaneamente si sgretolò l’impero degli Ittiti in Anatolia, numerosi piccoli regni del Levante come la città cananea di Ugarit conobbero una fine violenta, e l’Egitto riuscì solo a fatica a respingere l’invasione di popoli stranieri. Secondo ricerche più recenti anche Troia, sulla costa dell’Asia Minore, fu colpita da violenze e distruzioni. Ma d’altra parte non possiamo stabilire con precisione se questi fatti storici siano alla base del mito di Troia.
Gli esperti hanno proposto molte spiegazioni, specialmente per la fine dei palazzi micenei. All’inizio del secolo scorso l’hanno collegata con movimenti di popolazioni su cui le fonti antiche riferiscono nel tempo seguito alla guerra di Troia. Si è pensato in particolare all’immigrazione della tribù greca dei Dori nel Peloponneso. Secondo un mito greco vi governò il semidio brade, ma la moglie di Zeus, Era, fece in modo che il trono andasse a un re miceneo e i Figli di li racle dovettero fuggire. I dori avrebbero imposto il loro diritto per mezzo di molte eampagne di guerra. In effetti la distribuzione dei dialetti greci, quale si può desumere da testi dell’epoca arcaica (circa 750-500 a.C.), suggerisce un’immigrazione di gruppi dorici, ma mutamenti nelle usanze funerarie e nei modelli di insediamento fanno pensare che si sia verifi cata solo nell’XI secolo a.C. In ogni caso non si può immaginare un attacco in massa di uomini armati in grado avere la meglio su borghi fortificati, ma piuttosto un afflusso più o meno costante di gruppi minori nclll’arco di diversi decenni.
Scenari alternativi di declino
Come cause del declino si è pensato anche a sommosse popolari. Come rivelano i testi della scrittura lineare B, i palazzi micenei erano governati con energia, e i «dipendenti» dei principi dovevano fornire lavoro e tasse. Potrebbe essersi scatenata un’insoddisfazione accumulata e violenta. Tuttavia, a giudizio della maggior parte degli esperti i palazzi micenei erano unità politiche indipendenti, e appare poco plausibile che vi si verificassero rivolte quasi contemporaneamente. Tuttavia, anche se le tensioni sociali non furono gli stimoli immediati delle distruzioni, furono forse fra le cause che indebolirono l’antico sistema.
Diversi miti lasciano intendere che ci furono tensioni anche fra i singoli Stati micenei. Fra questi ci sono in particolare I sette contro Tebe (celebrati da Eschilo nella tragedia omonima) e la «guerra degli epigoni»: Eteocle e Polinice, figli del re (ebano Edipo, dovettero accordarsi di governare a turno, dandosi il cambio ogni anno. Eteocle però non si dimise alla fine dell’anno, ma scacciò il fratello. Questi si rifugiò ad Argo, dove sposò la figlia del re Adrasto. Con l’aiuto del suocero e di altri principi, Eteocle tentò di impadronirsi del potere nella sua città natale. In questa lotta perirono quasi tutti: Eteocle e Polinice si uccisero reciprocamente. Dieci anni dopo ebbero più successo i figli dei Sette, i cosiddetti epigoni. Ma anche queste guerre interne all’ambiente miceneo non riescono a spiegare in modo soddisfacente il tramonto di tutti i piccoli Stati.
Le amministrazioni palaziali funzionarono probabilmente fi no alla fine, e in ogni caso i loro funzionari registrarono ingressi e uscite di merci ancora nell’anno della distruzione dei palazzi. Mancano però le abituali annotazioni sulla tosatura delle pecore: probabilmente l’anno amministrativo non era ancora arrivato alla stagione della tosatura. 11 micenologo britannico John Chadwick (1920-1998) ipotizzò che Pilo (Navarino) fosse stata distrutta in primavera. Di sicuro c’è solo che la cultura palaziale greca conobbe una brusca fine.
D’altronde cerano stati segni premonitori, come scoprirono gli archeologi: alcuni decenni prima, intorno alla metà del XIII secolo a.C., furono incendiati alcuni edifici esterni alla cittadella di Micene ma comunque appartenenti al palazzo. Furono inoltre evidenziati danni alla roccaforte di Tirinto e al palazzo di Tebe.
Qualunque cosa fosse accaduta, i regnanti reagirono rapidamene. L’Acropoli di Atene ricevette un robusto muro fortificato, il sovrano di Micene fece ampliare le sue costruzioni e vi integrò aree della rocca in precedenza non protette. Iti questo periodo sorse anche l’ingresso monumentale noto come «Porta dei leoni», che era più facile da difendere. Anche l’area di Tirinto, nota come rocca inferiore, fu presto nascosta all’esterno da mura difensive ciclopiche, che ampliarono considerevolmente l’intera arca protetta, creando per giunta una quantità di spazio per magazzini, officine ed edifici amministrativi. Dappertutto si scavarono canali e condotti nelle rocce per aprire sorgenti e assicurare quindi l’approvvigionamento d’acqua.
Tutte queste attività servivano alla protezione e alla difesa della sede dei regnanti, e miravano a impedire che venisse assediata ed espugnata. Questo accresciuto bisogno di sicurezza si rispecchia forse in un muro «ciclopico» nell’istmo di Corinto, l’unico accesso per via di terra dalla terraferma greca al Peloponneso: i blocchi di pietra usali nella sua costruzione erano così immani che varie generazioni dopo venivano ancora considerati opera di giganti monocoli. Vari decenni fa l’archeologo statunitense Oscar Broneer scoprì alcuni segmenti della sua costruzione. I resti di ceramiche fanno pensare che tutto questo abbia avuto origine in epoca micenea. Nelle pani ancora conservate il muro aveva uno spessore variabile da 4 a 5,7 metri, e in un punto ha un’altezza di 2,5 metri. La conclusione più plausibile è che questa costruzione servisse alla difesa.
Insicurezza e timore dominavano probabilmente anche a Creta. Alla fine del XIII secolo a.C. le coste erano in gran pane disabitate e gli abitanti si erano spesso ritirati in insediamenti fortificati sulle montagne. Scoscesi dirupi e montagne remote offrivano protezione da nemici che ci si aspettava venissero per mare. Accenni a queste minacce si trovano anche in testi in lineare B provenienti da Pilo, che riferiscono il dispiegamento di truppe incaricate di sorvegliare le coste. Non siamo in grado di dire se questo comportamento fosse normale routine o se venisse ordinato come una misura necessaria in una situazione di pericolo. Nel loro complesso però tutti questi indizi archeologici ed epigrafici suggeriscono che nei palazzi dell’Egeo si considerasse un’invasione dal mare come una concreta possibilità.
Circa nello stesso periodo si dissolse anche l’impero ittita. Nell’elenco delle possibili cause troviamo le lotte di potere per il trono e la lotta di varie parti dell’impero per ottenere l’indipendenza, nonché difficoltà economiche e attacchi, per esempio da parte dei nomadi Kaskei. Le scoperte archeologiche ci dicono per esempio che il tempio e gli edifici amministrativi della capitale Khattusa furono abbandonati volontariamente. Il re Suppiluliuma II (che regnò dal 1215 al 1190 a.C.) lasciò la sua residenza per motivi ignoti, trasferendosi in una località oggi sconosciuta. Gli edifici crollarono, e i luoghi sacri vennero usati come officine e abitazioni. Solo all’inizio del XII secolo a.C. Khattusa fu distrutta violentemente e rimase disabitata fino all’XI secolo a.C.
Secondo la corrispondenza diplomatica fra Suppiluliuma II e il faraone Merenptah, l’impero ittita fu colpito da una terribile carestia. Gli egizi promisero agli ittiti di fornire loro cereali. Da uno scambio epistolare con lo Stato vassallo di Ugarit si apprende inoltre che l’esercito ittita fu coinvolto in combattimenti davanti all’isola di Cipro; Ugarit cadde poco dopo il 1190 a.C.
I popoli del mare
Gli aggressori furono chiamati dall’egittologo Gaston Maspcro (1846-1916) «popoli del mare» in riferimento a un testo di Ramsete III (che regnò dal 1186 al 1159 a.C.) sui «Popoli delle isole in mezzo al mare». Il faraone elencò su un rilievo del suo tempio funerario a Medinet Habu i nomi dei popoli che aveva sconfitto: Pcleset, Tjeker, Sekeles, Denien e Weses. Nello stesso testo dichiarò che questi medesimi popoli erano stati responsabili della caduta dell’impero degli Ittiti, come pure dei piccoli regni di Karkemish, di Arzawa e di Cipro. Già il faraone Merenptah (che regnò dal 1213 al 1203) fornì informazioni su attacchi degli Sekeles, oltre che su aggressioni degli Shardana, degli Eqwes, dei Teres e dei Lukka.
Già nell’Ottocento questi etnonimi furono considerati equivalenti ai nomi di popoli antichi noti da altre fonti. Mentre non c’è alcun dubbio sull’identificazione dei Peleset con i biblici Filistei, tutte le altre attribuzioni, come pure gli attacchi loro attribuiti, sono oggetto di contestazioni più o meno decise. Gli Shardana e gli Sekeles furono situati dagli storici in Sardegna o in Sicilia, i Lukka nella regione dell’Asia Minore della Licia; queste tre identificazioni sono considerate pressoché certe. I Tjeker furono identificati con i Teucri, originariamente stanziati nella Troade, e i Teres furono identificati con i Tirreni o Etruschi; anche i Weses potrebbero essere stati una popolazione dell’Italia: gli Osci della Campania. E quando i Dencn o Danuna furono identificati dai filologi con i Danai, e si riconobbero negli Eqwes o Aqaiwasa gli Achei, troviamo due nomi già usati da Omero per popolazioni greche della terraferma appartenenti all’area micenea.
Se queste congetture fossero corrette, l’origine dei popoli del mare dovrebbe essere trovata in Italia; in Grecia dovrebbero poi essersi unite a loro alcune popolazioni locali. Di fatto i ritrovamenti archeologici attestano intensi contatti fra l’area italica e quella ellenica. Ceramiche protomicenee cominciarono a venire alla luce nelle isole Lipari in insediamenti dei secoli XVI e XV a.C. Nel periodo palaziale questa esportazione verso ovest si intensificò. In Italia si cominciò a produrre anche nello stile miceneo, e a partire dalla metà del XIII secolo a.C. prodotti ceramici, utensili e anni cominciarono a fare il viaggio inverso, dall’Italia alla Grecia, dove si cominciarono a produrre in Grecia manufatti in stile italico e mitteleuropeo. Gli esperti suppongono però che manufatti e tecniche non siano stati importati attraverso un commercio con l’estero ma siano stati introdotti in Grecia da viaggiatori rientrati nei loro paesi. D’altra parte tutto questo accadde già prima della caduta dei palazzi micenei, e quindi non può essere una prova che eserciti invasori provenienti dal mondo italico abbiano conquistato il mondo protogreco dandolo alle fiamme.
Crisi economica o disastri naturali?
Negli ultimi tempi voci molto critiche si sono pronunciate contro la tesi che «i popoli del mare abbiano distrutto da soli nel corso dei secoli regni stabili». In una pubblicazione del 2014 Eric Cline, archeologo alla George Washington University di New York ed esperto dell’Età del bronzo nel Mediterraneo orientale, ha ripreso la tesi di una situazione economica evidentemente critica, che mise in pericolo le vie commerciali e in particolare l’approvvigionamento dei metalli. Nelle ultime settimane e mesi prima del declino i testi in lineare B registrarono solo pochi chilogrammi di bronzo, ossia quantità relativamente piccole, distribuite alle fucine associate ai palazzi. Una tavoletta di terracotta da Pilo registra che, in conseguenza di questa scarsità di materie prime, per produrre armi furono usati persino recipienti di bronzo per doni votivi sottratti ai templi.
A giudizio dell’archeologo greco Spyros Iakovidis (1923-2013), che ha diretto gli scavi a Micene per oltre cinquantanni, e di Joseph Maran. docente di preistoria e protostoria dell’Università di Hciselbcrg e direttore degli scavi a Tirinto, la catastrofe del 1200 a.C sarebbe stata causata da violenti terremoti. L’intera area del Mediterraneo orientale è fortemente minacciata, perché lì si scontrano tre placche tettoniche: quella eurasiatica, quella africana e quella araba. Alcuni siti greci fra cui Micene, Tirinto e Midea mostrano chiaramente i danni provocati da scosse sismiche. Nella località di Lachish, oggi in Siria, sono stati trovati addirittura scheletri di varie persone, uccise dalla caduta di grosse pietre. L’intera regione potrebbe essere stata colpita da un terremoto di magnitudo elevata.
Tuttavia la storia delle culture dell’Egeo dimostra che già in precedenza erano accaduti eventi simili, per esempio nella transizione dal periodo minoico protopalaziale a quello neopalaziale, ma i palazzi furono sempre ricostruiti. Per quale motivo dunque questa volta crollò l’intero sistema politico in Grecia, in Asia Minore e nel Vicino Oriente?
Le ricerche paleodimaiologiche indicano che potrebbero aver contribuito anche i cambiamenti climatici. Come hanno dimostrato David Kaniewski, dell’Università di Tolosa, e il suo gruppo di ricerca sulla base di nuclei di boro prelevati dai sedimenti marini di Cipro e della Siria, nel Mediterraneo orientale, in seguito a un raffreddamento globale del clima, tempo prima vi erano state precipitazioni significativamente minori per un periodo più lungo.
Le condizioni per i raccolti agricoli che avevano bisogno di piogge abbondanti peggiorarono a vista d’occhio, e ne seguirono cattivi raccolti. Così i resti di scarti vegetali accumulati intorno al palazzo di Tirinto fanno ipotizzare una crisi agricola nel XIII secolo a.C. I chicchi dei cereali si rimpicciolirono e le erbacce prosperarono nei campi, il che suggerisce all’archeobotanico Helmut Kroll sequenze di cattivi raccolti. Successivamente i terreni agricoli non ebbero il tempo di recuperare: un circolo vizioso.
La siccità ridusse anche i proventi dell’allevamento del bestiame. L’archcobotanica Cornelia Becker, della Libera Università di Berlino, ha anche dimostrato, sulla base di ossa di animali rinvenute nel sito di Kastanas, in Macedonia, che bovini, ovini e caprini della tarda Età del bronzo erano più piccoli che in precedenza, un fatto che con ogni probabilità si può ricondurre alle peggiori condizioni dell’allevamento e del foraggio.
Quindi sono state le variazioni climatiche e i problemi che causarono nell’economia agricola a determinare il declino delle culture dell’Età del bronzo? E gli aggressivi popoli del mare erano in verità emigranti che per evitare la fame cercavano rifugio in paesi stranieri? Non è possibile dare una risposta netta a questa domanda, ma pare comunque improbabile che una singola causa abbia potuto determinare la fine di un’epoca. Le nuove ricerche lasciano piuttosto riconoscere un insieme di fattori, la cui interazione determinò il collasso del complesso sistema dei regni strettamente connessi fra loro della regione del Mediterraneo orientale.