LeScienze, 3 ottobre 2017
Dialoghi con se stessi
Il suono della sveglia mi aveva fatto svegliare presto. Mi trovavo in una stanza d’albergo a Londra, vicino alla sede centrale della BBC. Non avevo dormito bene. Quando mi ero guardato allo specchio del bagno, avevo visto un volto pallido e un po’ atterrito. Avevo tutte le ragioni per sentirmi ansioso: di lì a un’ora avrei dovuto parlare in diretta a un pubblico di milioni di persone a Start thè Wcck, un talk-show sul principale canale radio della BBC. Mentre fissavo lo specchio ero consapevole di parlare in silenzio, nella mia testa. Erano parole di rassicurazione rivolte a me stesso. «Rilassati», dicevo. «Non è la prima volta che vai a Start thè Week». Avevo come l’impressione di parlare a me stesso, ma stavo anche ascoltando qualcosa dentro di me, l’ombra familiare di una voce.
Questo è il racconto di un’esperienza quotidiana: pensieri, immagini e sensazioni che percorrono la vostra mente mentre state scendendo nella metropolitana, tagliando le cipolle in cucina o aspettando di entrare in una riunione importante. Alla domanda, le persone rispondono spesso che le loro vite intcriori contengono tante parole. Gli psicologi usano l’espressione «linguaggio intcriore» per questo fenomeno in cui parliamo a noi stessi, in silenzio, nella mente. Ha un parente stretto, il «linguaggio privato», in cui le persone parlano con se stesse in modo udibile. Se, per esempio, pronunciate dentro di voi parole come «ricordati di prendere un po’ di caffè» o «attieniti al programma» senza produrre alcun suono, allora state usando il linguaggio interiore; se dite a voi stessi qualcosa di simile, ma a voce alta, è linguaggio privato.
Le due forme di linguaggio sembrano avere finalità diverse, come pianificare e supcrvisionare il nostro comportamento, regolare le nostre emozioni e stimolare la creatività. Negli adulti il linguaggio interiore sembra più comune della sua forma privata e quindi cosa molto interessante per gli psicologi è la forma che probabilmente svolge il ruolo più importante nel nostro pensiero. Ed e anche quella decisamente più difficile da studiare. Negli anni novanta, quando ero agli inizi nel mio lavoro di ricerca, quasi non esisteva letteratura scientifica sull’argomento. Negli ultimi ventanni, tuttavia, la situazione è decisamente mutata, sia perche i ricercatori hanno sviluppato nuove tecniche sperimentali per studiare il linguaggio interiore, sia perche oggi abbiamo un’idea più completa di come funziona, quale forma assume e come può fornire un vantaggio, oppure ostacolare, una persona che pensa. in effetti, stiamo cominciando a capire che il linguaggio interiore chiarisce alcune grandi questioni che riguardano la mente e il cervello.
Conversare con se stessi
Henry, un bambino di tre anni, è disteso su un tappetino da gioco con un trenino giocattolo in ciascuna mano e descrive con entusiasmo la città inventata che sta creando. «Prima le macchine. Poi un treno grande», dice fra se. Visitate una cameretta o un asilo, ovunque nel mondo, e vedrete (e sentirete) qualcosa di simile. Una classe di bambini che pensano fra sé ad alta voce può diventare un posto rumoroso. Ma questo fenomeno naturale del linguaggio privato dei bambini offre indizi importanti sulla sede d’origine delle parole nella nostra mente.
Gli studiosi hanno riflettuto a lungo sul linguaggio privato dei bambini in tenera età. Negli anni venti, lo psicologo dello sviluppo svizzero Jean Piaget aveva ipotizzato che questo tipo di dialogo con se stessi riflettesse l’incapacità dei bimbi di assumere la prospettiva in terza persona e di adattare il linguaggio agli ascoltatori. Secondo questa teoria, il linguaggio privato emergeva da un’incapacità di comunicare con gli altri. Per questa ragione si pensava che svanisse quando i bambini crescevano e diventavano più abili nel considerare la prospettiva degli ascoltatori.
Negli anni trenta lo psicologo russo Lev Semyonovich Vygotsky propose una spiegazione alternativa del linguaggio privato: i bambini riadattano deliberatamente parole che hanno usato con successo in precedenza nelle interazioni sociali con altri individui. Invece di controllare il comportamento di altri, i piccoli farebbero pratica nell’uso del linguaggio per avere un controllo su se stessi. Le ricerche effettuate nei decenni successivi hanno rafforzato la teoria di Vygotsky sullo sviluppo e l’acquisizione delle funzioni del linguaggio interiore.
Quando, studente in psicologia dello sviluppo, scoprii i suoi scritti, ricordo che mi colpì la semplicità della sua teoria. Pensavo che la teoria dello sviluppo del pensiero verbale dovesse essere più complicata. Ma sebbene la teoria di Vygotsky fosse in sé semplice, le sue implicazioni erano piuttosto complesse. Vygotsky suggeriva che il dialogo silenzioso con noi stessi da adulti fosse una versione interiorizzata delle conversazioni che abbiamo con gli altri mentre ci sviluppiamo come bambini. Quasi un secolo dopo che Vygotsky aveva esposto queste sue idee, io e altri ricercatori sul linguaggio intcriore stiamo appena iniziando a chiarire qual è la loro importanza per capire come le parole operano nel nostro pensiero.
Una delle implicazioni più importanti della teoria di Vygotsky è che il linguaggio interiore dovrebbe avere la stessa struttura della conversazione a voce alta, cioè la caratteristica di un dialogo tra punti di vista differenti. Questo concetto del pensiero come dialogo mentale non è nuovo, risale almeno al filosofo Platone, ma mi sono agganciato alla sua potenzialità di riformulare alcuni misteri profondi del pensiero umano. Uno dei quali riguarda il controllo: come fa un sistema intelligente a concepire, e applicare, nuove teorie su come agire? Un robot può diventare molto intelligente nel reagire agli eventi intorno a lui, ma che cosa gli fa concepire l’idea di fare qualcosa da solo? Se bisogna dire al sistema che cosa fare, allora gli manca una delle essenze dell’intelligenza.
La cosa che mi incuriosiva del dialogo è clic, per sua stessa natura, si autoregola. Quando conversate con qualcuno non c’è una terza persona in piedi che, agitando la bacchetta da direttore, vi indica in quale direzione dovrebbe poi procedere la conversazione. Voi e il vostro partner di conversazione vi regolate a vicenda tramite i normali processi di domanda, discussione, risposta, consenso e così via. Interpretare il dialogo con se stessi in questi termini sembrerebbe offrire la prospettiva di spiegare come il pensiero può essere indeterminato non sempre diretto a un particolare obiettivo e intrinsecamente elastico.
Tuttavia, per dialogare dovete riuscire a rappresentare qualcosa del punto di vista della persona con cui conversate. Per inciso, è stata proprio la mancanza di questo tipo di adozione di prospettiva che spiegava, per Piaget, il linguaggio privato dei bambini piccoli. Spesso non sapete in anticipo clic cosa sta pensando l’altra persona, ma una volta che riuscite a capirlo, dovete saper tenere a mente e aggiornare quella rappresentazione del suo punto di vista mentre la conversazione si svolge. Oggi gli scienziati sanno molte cose sulle basi neurali di questa adozione di prospettiva, e il merito è in parte degli studi con la risonanza magnetica funzionale (fMRI) e di altre tecniche di visualizzazione medica, che possono rivelare quali regioni cerebrali svolgono un certo compito.
Forti di queste conoscenze, con i mici collaboratori abbiamo verificato una nuova teoria dello svolgimento dei dialoghi mentali, basata sull’ipotesi per cui questi dialoghi reclutano le stesse parti del cervello usate nell’adozione di prospettiva. In un esperimento con la fMRI condotto da Ben Aldcrson-Day, dell’Università di Durham, nel Regno Unito, i partecipanti producevano due forme di linguaggio intcriore mentre erano distesi in uno scanner per la risonanza cerebrale. Abbiamo chiesto ai partecipanti di generare un linguaggio interiore che avesse una struttura monologica. In altre parole, non implicava uno scambio di conversazione tra punti di vista differenti. Abbiamo anche chiesto loro di svolgere un dialogo interiore. In ciascun caso abbiamo presentato un particolare scenario come tema del linguaggio intcriore, per esempio una visita alla scuola d’infanzia. Nella situazione del monologo, i soggetti tenevano magari un discorso agli studenti, in quella del dialogo parlavano con il preside di allora.
Avevamo previsto che entrambi i tipi di linguaggio interiore avrebbero reclutato i sistemi del linguaggio tradizionali che si attivano quando si chiede ai soggetti di produrre qualsiasi forma di linguaggio: più precisamente, aree al confine tra il lobo frontale e il lobo temporale nell’emisfero sinistro del cervello e un’area situata più posteriormente nella parte del cervello conosciuta come giro (o circonvoluzione) temporale superiore. Pensavamo però che il dialogo interiore fosse speciale nell’attivare in aggiunta parti del cervello che sappiamo coinvolte quando riflettiamo su altre menti. Queste regioni cerebrali sono alla base del nostro cosiddetto sistema di cognizione sociale, che funziona per aiutarci a rappresentare pensieri, convinzioni e desideri altrui.
I risultati hanno confermato le nostre previsioni. Quando i soggetti erano impegnati nel dialogo interiore, il loro sistema del linguaggio sembrava operare di concerto con una parte del loro sistema di cognizione sociale, localizzato nell’emisfero destro, prossimo al punto d’incontro tra il lobo temporale e quello parietale, uno schema di attività cerebrale che i soggetti non manifestavano quando generavano monologhi silenziosi. Questi risultati, sebbene siano da replicare, sono le prime prove di una collaborazione che abbraccia i due emisferi cerebrali tra due sistemi considerati di solito differenti per funzione. Questo collegamento neurale di linguaggio e cognizione sociale sembra sostenere le intuizioni di Vygotsky secondo cui, quando parliamo con noi stessi, in effetti stiamo svolgendo una conversazione.
Colto sul fatto
Ci sono miriadi di ragioni per essere cauti nell’interpretare i risultati ricavati dalle neuroimmagini e, in questo caso, per ribaltare quanto già si sapeva sulla neuroscienza del linguaggio interiore. Buona parte degli studi passati si limitava a chiedere ai partecipanti di ripetere a se stessi alcune frasi nella mente, in silenzio, come monologo e non come conversazione: il tipo di linguaggio interiore che vi può capitare di produrre girovagando per un supermercato mentre provate a ricordare le ultime voci della vostra lista. E utile quando il momento lo richiede, ma è ben diverso dai dialoghi interiori creativi e flessibili che emergono quando immaginiamo noi stessi partecipare a uno scambio sociale. Il nostro gaippo di ricerca ha messo sotto i riflettori le proprietà conversazionali del linguaggio interiore. Tuttavia stavamo ancora chiedendo ai nostri volontari di fare qualcosa a dir poco innaturale: parlare con se stessi a comando invece di aspettare che il linguaggio interiore emergesse spontaneamente. Il problema è che i neuroscienziati cognitivi devono avere tutto sotto controllo per cogliere il vero senso dei risultati di un esperimento. Aspettare che il linguaggio interiore accada spontaneamente sembra stridere con l’idea di metodo sperimentale rigoroso.
A noi serve un modo per cogliere il linguaggio interiore mentre accade. Di recente il nostro gruppo ha fatto un passo in quella direzione usando un metodo elaborato per raccogliere dalle persone descrizioni del l’esperienza interiore, conosciuto come campionamento descrittivo dell’esperienza, o DES (descriptive experience sampling). Questo metodo allena i partecipanti a riferire gli istanti di esperienza interiore quando sono sollecitati da un segnale acustico. Il processo induce i soggetti a focalizzarsi su qualsiasi cosa stiano pensando, provando, ascoltando e così via, fino all’istante prima che il hip del segnale svanisca, e ad annotare quelle esperienze mentre accadono. Il giorno successivo i volontari sono interrogati molto a fondo su ciascun momento di esperienza colto dal bip. Così i ricercatori possono descrivere se era caratterizzato da linguaggio interiore, da consapevolezza sensoriale o da uno tra molti altri fenomeni comuni.
Io e i miei colleghi abbiamo condotto il primo studio in assoluto che unisce questo potente metodo e la fMRI. Abbiamo eseguito il tradizionale esperimento del linguaggio interiore, chiedendo ai volontari di pronunciare dentro di sé in silenzio parole specifiche mentre erano distesi nello scanner. Abbiamo anche usato il DES per cogliere i momenti di esperienza mentre accadevano spontaneamente. Abbiamo scelto i bip nei quali dalle interviste nel DES eravamo piuttosto sicuri che si fosse manifestato il linguaggio interiore, e abbiamo confrontato le attivazioni del cervello con ciucile che avevamo ottenuto nell’esercizio standard.
Le differenze erano rilevanti: se da un lato il metodo classico della «ripetizione meccanica» attivava l’area di Broca (una parte del cervello spesso implicata nella produzione del linguaggio interiore ed esteriore), dall’altro il linguaggio interiore spontaneo attivava in modo più marcato una zona del lobo temporale più posteriore, il giro (o circonvoluzione) di Heschl. In termini di schemi di attivazione del cervello, il linguaggio interiore spontaneo si discostava dal linguaggio generato su richiesta.
Questi risultati hanno vaste implicazioni per come procedere nell’indagine dell’esperienza interiore nelle neuroscienze cognitive. Sollevano domande impegnative su come i ricercatori affrontano lo studio del linguaggio interiore e su che cosa possiamo ipotizzare riguardo a qualsiasi tipo di esperienza mentale che potremmo pensare sia generabile a richiesta. Evidenziano il bisogno di ciucila che mi piace definire neuroscienza lenta: sfruttare il potere di tecniche neuroscientifiche per descrizioni molto accurate dell’esperienza umana.
Ci sono altre ragioni per avere cura di descrivere il linguaggio interiore in tutte le sue varietà. Nella teoria di Vygotsky, dialogo e monologo non sono le uniche variabili del dialogo interiore. Una caratteristica importante di questo scenario è la teoria secondo cui, quando il linguaggio e interiorizzato per formare un linguaggio privato e poi interiore, la sua forma cambia. Vygotsky immaginò diversi modi in cui questo potrebbe accadere, fra i quali tipi differenti di abbreviazione o di riassunto. Nei miei pensieri ansiosi in albergo a Londra avevo capito di essermi detto una frase intera: «Non è la prima volta che vai a Start thè Weck». In altri momen ti il linguaggio che rivolgo a me stesso è più conciso. Se sento un suono continuo in cucina mentre sono ai fornelli, potrei dire dentro di me qualcosa del tipo «sta suonando il timer del forno», ma è più verosimile che mi limiterò a dire «il timer». Vygotsky osservò che il linguaggio interiore e quello privalo sono spesso abbreviati rispetto alle espressioni rivolte a una terza persona. Di solito, nel dialogo con noi stessi non dobbiamo mettere tutto per esteso, anche perché l’espressione è rivolta al nostro io, quindi non dobbiamo pronunciare ogni dettaglio. Il grande romanziere russo naturalizzato statunitense Vladimir Nabokov aveva capito che i nostri pensieri possono avere una forma compressa se confrontati con quello che potremmo dire a voce. «Noi non pensiamo per parole ma per ombre di parole», scrisse negli appunti per il romanzo Fuoco pallido, come disse in un’intervista del 1964.
La cosa a dir poco strana è che fino a poco tempo fa nessuno aveva esaminato questa caratteristica del linguaggio interiore, lo e Simon McCarthy-Jones, oggi al Trinity College di Dublino, abbiamo preparato un questionario 011 line con cui abbiamo interrogato i volontari su differenti caraneristiche del linguaggio interiore. Abbiamo anche usato un’app per smartphone che registrava i dati mentre i volontari trascorrevano le loro giornate. I risultati del nostro primo studio, pubblicato nel 2011, hanno rivelato quattro caratteristiche principali del linguaggio interiore: natura dialogica, tendenza a essere conciso, la misura in cui può includere voci di altre persone, e il suo ruolo nel valutare o nel motivare il nostro comportamento. Solo una minoranza di persone ha indicato che il loro linguaggio interiore tende a essere conciso. Ma questa caratteristica è abbastanza comune da giustificare ulteriori indagini.
Questa ricerca basata sul questionario conferma soprattutto la teoria per cui il linguaggio interiore non è unico. Sembra invece manifestarsi in forme differenti che potrebbero essere adattate a funzioni differenti, e che forse hanno anche basi neurali differenti. Una sfida futura sarà capire se il cervello tratta il linguaggio interiore conciso diversamente dalla sua forma espansa. Tutto questo richiederà un modo per evocare sperimentalmente il linguaggio interiore conciso durante le scansioni cerebrali, oppure ulteriori sviluppi per coglierlo mentre avviene in modo spontaneo. Il linguaggio interiore resta un oggetto di studio sfuggente.
Una via per la creatività
Lo studio del linguaggio interiore ha fatto grandi progressi da quando, negli anni novanta, ho iniziato a rifletterci da studente. Un aspetto della vita mentale considerato inviolabile dalla scienza ha prodotto nuovi metodi sperimentali e tecniche neuroscientifiche. Come spesso accade, questo aspetto intimo della coscienza può fare luce su questioni importanti della mente umana.
Per cominciare, il linguaggio interiore può offrire indizi sull’origine della creatività umana. Una volta in possesso della struttura delle conversazioni interiori, possiamo usarla nei modi più vari: dalla discussione con noi stessi fino alla conversazione con un’entità assente. Poiché abbiamo interiorizzato dialoghi con altre persone, conserviamo un «posto vacante» per le prospettive di altre entità: che siano o meno presenti, ancora vive oppure mai esistite. I miei dialoghi con Dio, con un parente defunto 0 con un amico immaginario possono avere una ricchezza creativa analoga a quella che ho con me stesso. Porre domande a se stessi e poi rispondervi potrebbe essere un elemento cruciale di uno strumento per trasportare i nostri pensieri in nuovi territori.
Un’altra esperienza comune che si collega al dialogo con se stessi è tra le più familiari e private. Nel momento in cui aprite un libro, il vostro linguaggio interiore è catturato nei modi più curiosi. I neuroscienziati hanno dimostrato che leggere le parole di un personaggio letterario attiva le parti del cervello che usiamo anche per elaborare le voci altrui. Di recente, con un sondaggio on line, il nostro gruppo ha posto alcune domande a un ampio campione di lettori attenti sulle «voci» che sentivano leggendo romanzi. Quasi un intervistato su sette diceva che le voci dei personaggi letterari parlavano vividamente nella loro mente, conte se nella stanza ci fosse un’altra persona a pronunciare le parole.
Alcuni partecipanti ci hanno fornito più dettagli sulla loro esperienza di voci fittizie. Usando gli strumenti impiegati negli studi letterari per analizzare le storie, abbiamo esaminato le loro descrizioni prive di finale, per altri indizi sul potere della letteratura di colonizzare i nostri pensieri. Per alcuni intervistati, le voci dei personaggi letterari hanno risuonato addirittura dopo che i libri erano stati posati. Alcuni avevano addirittura adottato nella vita quotidiana la personalità di personaggi di finzione: è capitato che guardassero il mondo con gli occhi della signora Dalloway (il personaggio dell’omonimo romanzo di Virginia Woolf) durante una normale visita a Starbucks. Marco Bernini, dell’Università di Durham, ha definito questo fenomeno «attraversamento esperienziale». Questi risultati ci offrono importanti indizi di come la nostra mente potrebbe rappresentare le voci e i personaggi degli esseri sociali con cui condividiamo il nostro mondo.
La nuova scienza del linguaggio interiore ci dice che non è un processo solitario. Molta forza del dialogo con se stessi deriva da come questo linguaggio orchestra uno scambio tra punti di vista differenti. Con i miei colleghi abbiamo osservato una collaborazione tra il sistema del linguaggio nell’emisfero sinistro e le reti della cognizione sociale in quello destro. Allo stesso modo la rete del linguaggio interiore deve sapersi «connettere» con altri sistemi neurali quando la situazione lo richiede: quando abbiamo pensieri verbali sul passato e sul futuro, quando usiamo parole per parlare a noi stessi durante compiti impegnativi o quando la nostra mente si limita a vagare senza un particolare obiettivo. Se i ricercatori prenderanno la scienza per il verso giusto, il pensiero verbale potrà chiarire tutti questi aspetti della nostra attività cognitiva.
Forse il linguaggio interiore ha ricevuto poca attenzione scientifica perché è comune. Ma la prossima volta che vi troverete a incoraggiare voi stessi dinanzi a una sfida, a parlare tra voi per risolvere un problema, a rimproverarvi dopo un errore o semplicemente a pianificare la vostra serata in un confidenziale mormorio a voce alta, potreste avere voglia di riflettere sulla meraviglia privata, intima, dell’uso diretto a voi stessi delle parole. Nella vita quotidiana, come in laboratorio, le voci del linguaggio interiore hanno molte cose da dirci.