LeScienze, 3 ottobre 2017
Il diabete
Quando ho iniziato il tirocinio in chirurgia, una ventina danni fa, non vedevo l’ora di occuparmi di tumori, calcoli alla cistifellea, ernie e qualsiasi altra malattia fosse a portata del mio bisturi. La chirurgia sembrava una soluzione immediata a molti disturbi gravi.
Il diabete di tipo 2 non era uno di questi. Gli interventi chirurgici si concentrano su un’unica parte dell’organismo, mentre notoriamente il diabete danneggia vari organi e provoca un’incapacità generalizzata di usare in modo efficiente l’insulina, un ormone che regola la glicemia. Era evidente che il problema non poteva essere risolto semplicemente incidendo o asportando una pane del corpo.
In un pomeriggio dell’estate 1999, però, le mie conoscenze sul diabete, e la mia carriera, hanno preso una svolta inaspettata.
Mi ero appena trasferito dall’Italia a New York per partecipare a un progetto di ricerca in chirurgia mininvasiva all’attuale Icahn School of Medicine del Mount Sinai Hospital. Mentre ero in biblioteca a studiare alcuni aspetti tecnici relativi a un’operazione chiamata «diversione biliopancreatica» ho scoperto qualcosa di insolito. Questo tipo di intervento è eseguito su pazienti gravemente obesi per ridurne il peso, e consiste nell’accorciare il percorso del cibo nell’intestino, aggirando segmenti intestinali che assorbono le sostanze nutritive. Mentre leggevo che molti pazienti sottoposti a questa operazione erano affetti da diabete di tipo 2, legato all’obesità, mi ha stupito scoprire che già un mese dopo l’intervento il loro livello di glucosio nel sangue era tornato nella norma, nonostante non avessero ancora perso molto peso, mangiassero senza alcuna restrizione in termini di calorie e di zuccheri e non assumessero farmaci antidiabetici. Inoltre, ad anni di distanza dall’operazione la maggior parte di loro non soffriva più di diabete.
Ero davvero perplesso. Come era possibile che un intervento chirurgico risolvesse i problemi di glicemia legati a una malattia che tutti i libri di testo definivano cronica, progressiva e infine irreversibile? In teoria il diabete poteva essere tenuto sotto controllo. ma non poteva scomparire.
Mentre mi scervellavo per trovare una spiegazione, mi sono ricordato che l’intestino tenue produce ormoni che stimolano il pancreas a produrre un supplemento di insulina. Forse l’alterazione chirurgica dell’anatomia influiva su questi ormoni ripristinando il normale metabolismo del glucosio? 0 forse l’intestino era sede di altri meccanismi patologici che l’intervento riusciva a correggere? In questo caso la chirurgia sarebbe potuta diventare una valida terapia per il diabete, e capire come si generava questo effetto ci avrebbe permesso di risalire alla tanto misteriosa causa della malattia.
All’epoca eravamo alla fine degli anni novanta stavamo appena iniziando ad accorgerci che il diabete dilagava nel mondo come un’epidemia, che dura ancora oggi. Le stime più recenti dell’Intemational Diabetes Federation e dell’Organizzazione mondiale della Sanità indicano che almeno 415 milioni di persone nel mondo sono affette da questa malattia, e secondo le previsioni si dovrebbero raggiungere i 650 milioni entro il 2040. (Il 90 percento dei malati soffre di diabete di tipo 2, e solo il restante 10 per cento è affetto dal tipo 1, che si manifesta quando il pancreas non produce insulina a sufficienza.) Individuando la causa e trovando una cura si potrebbero salvare milioni di vite.
Dopo una notte insonne, emozionato dai nuovi possibili sviluppi, ho sottoposto al mio tutor, il chirurgo Michel Gagner, l’idea che avevo elaborato, e che secondo lui aveva delle potenzialità. Insieme ci siamo rivolti ai dirigenti della nostra scuola di medicina per chiedere di poter eseguire un test clinico sugli esseri umani e valutare se con la chirurgia fosse possibile ottenere benefici maggiori che con le terapie convenzionali, anche nei malati non obesi. La nostra richiesta è stata ripetutamente respinta sia in quella sia in altre occasioni nei mesi successivi.
Il rifiuto è stato una delusione, ma forse era prevedibile: da secoli le terapie antidiabetiche sono centrate su diete, farmaci e iniezioni. Operare i malati per asportare segmenti intestinali deve essere sembrata un’eresia, oltre che un rischio assurdo, perché si riteneva che la causa fosse da ricercarsi in una qualche disfunzione delle cellule pancreatiche che producono l’insulina, nonché nei processi con cui l’organismo usa questo ormone.
Ventanni dopo, quell’eresia è comunemente accettata.
Ci sono ormai decine di studi sugli animali e almeno 12 trial clinici randomizzati e controllati, effettuati su centinaia di persone, in cui sono stati eseguiti interventi chirurgici bariatrici per provare a curare il diabete di tipo 2. Tutte queste ricerche dimostrano che la riduzione chirurgica della superficie del tratto gastrointestinale è più efficace di qualsiasi altra tempia antidiabetica esistente. E questo risultato non é solo una conseguenza della perdita di peso. In molti pazienti i valori glicemici sono rientrati nella norma nell’arco di qualche settimana, molto prima che venisse riscontrata un’effettiva riduzione dei grassi e del peso. In generale, circa il 50 percento dei pazienti operati non soffre più di diabete, e in alcuni casi l’effetto perdura ad anni di distanza dall’intervento. Nel restante 50 per cento si osservano notevoli miglioramenti nel controllo della glicemia e una drastica riduzione della dipendenza dall’insulina e da altri farmaci.
Questi risultati sono cosi importanti che l’anno scorso 45 organizzazioni mediche hanno approvato l’impiego della chirurgia gastrointestinale come possibile terapia standard contro il diabete, anche nei malati mediamente obesi. Inoltre le nuove conoscenze sui meccanismi con cui questi interventi all’intestino influiscono sul metabolismo del glucosio hanno ispirato lo sviluppo di terapie non chirurgiche che hanno come obiettivo l’intestino tenue.
Sempre più prove a favore
Nelle settimane successive alla mia stupefacente scoperta in biblioteca, poiché le nostre proposte di sperimentare la chirurgia su malati di diabete venivano respinte, ho approfondito le ricerche nella letteratura medica per trovare riscontri a sostegno della mia idea. Cosi ho scoperto che da quasi un secolo i medici registravano casi di malati di diabete migliorati dopo un’operazione chirurgica gastrointestinale. Un articolo pubblicato su «The Lancet» nel 1925 descriveva la scomparsa quasi istantanea del glucosio in eccesso nelle urine – sintomo di diabete – di un paziente sottoposto a un intervento gastrointestinale a causa di un’ulcera peptica. Da quando, a metà degli anni cinquanta, i medici hanno iniziato a ricorrere alla chirurgia gastrointestinale per risolvere casi di obesità grave, simili risultati sono diventati più frequenti. Negli anni ottanta e novanta gli effetti antidiabetici di questi trattamenti sono stati descritti in numerose pubblicazioni, tra cui un celebre studio effettuato dal chirurgo Walter Pories dell’East Carolina University e dai suoi colleghi su oltre 120 pazienti, intitolato inequivocabilmente: Chi l’avrebbe mai dello? Un’operazione chirurgica si dimostra la terapia più efficace per il diabete mellito in età adulta ( Who Would Have Thought it? An Operation Proves to Be the Most Effettive Therapy for Adult-Onset Diabetes Mellitus.).
Nonostante queste convincenti prove a favore, però, la chirurgia non era presa in seria considerazione come terapia antidiabetica. Uno dei principali ostacoli era la convinzione di molti medici che i suoi effetti positivi sul diabete derivassero dalla perdita di peso post-operazione, e non dall’operazione stessa.
Risolvere la questione, in un modo o nell’altro, era diventato una necessità impellente da quando io e Gagner non eravamo riusciti a far partire i nostri studi clinici. Ilo quindi iniziato a studiare i ratti, per capire se modificando chirurgicamente il tratto gastrointestinale fosse possibile influenzare direttamente il metabolismo del glucosio, indipendentemente dalla variazione di peso. Nel frattempo mi ero trasferito allo European Institute of Telesurgery di Strasburgo, in Francia, dove io e i miei colleghi abbiamo eseguito su ratti normopeso con diabete di tipo 2 un bypass del duodeno e dell’intestino digiuno (bypass duodeno-digiunale), un’operazione sperimentale che accorcia il tratto intestinale mantenendo invariate le dimensioni dello stomaco al fine di evitare impedimenti meccanici all’assunzione del cibo. In seguito all’intervento, il metabolismo del glucosio nei ratti migliorava, indipendentemente dalle variazioni della dieta e del peso.
Altri ricercatori hanno convalidato questi risultati eseguendo lo stesso bypass e altri interventi su diversi modelli animali, e successivamente all’inizio di questo secolo – su pazienti umani. Nel decennio scorso sono stati effettuati almeno dieci trial clinici randomizzati, e tutti hanno dato esiti analoghi. Uno di questi studi, effettuato da Geltrude Mingrone, dell’Università Cattolica del Sacro Cuore a Roma, insieme a me e ad altri colleglli, ha dimostrato che cinque anni dopo l’intervento del chirurgo più dell’80 percento dei 38 pazienti operati si era completamente rimesso dalla malattia o era comunque in grado di mantenere i valori glicemici sotto controllo con piccole dosi di farmaci o solo con la dieta e l’esercizio fisico. Da un altro studio, effettuato da Philip Schauer e colleghi della Cleveland Clinic su 96 pazienti operati, e emerso che mentre prima dell’intervento circa il 45 percento dei partecipanti assumeva insulina, a cinque anni di distanza addirittura l’89 per cento non ne faceva più uso. Secondo il vasto studio Swedish Obese Subjects, la chirurgia potrebbe anche essere più efficace delle terapie standard nella riduzione delle complicanze legate alla malattia, tra cui infarto e ictus, e della mortalità.
La sicurezza di queste procedure è analoga a quella di altre operazioni di routine, come gli interventi alla cistifellea o l’isterectomia, che in genere sono considerate a basso rischio. Diverse analisi economiche indicano che i costi di un intervento (che negli Stati Uniti si aggirano tra i 20.000 e i 25.000 dollari) potrebbero essere compensati nell’arco di due o tre anni dalla riduzione della spesa per i farmaci e l’assistenza medica.
Occhi puntati sull’intestino
Perché la chirurgia funziona cosi bene? Nessuno lo sa ancora con certezza, ma sembra che il tratto gastrointestinale abbia un ruolo fondamentale sia nel normale metabolismo del glucosio sia nelle disfunzioni associate al diabete. Ci sono almeno cinque fattori tramite i quali l’intestino esercita questa sua influenza: ormoni, acidi biliari, molecole che trasportano il glucosio fuori dall’intestino, microbi intestinali e circuiti neurali.
Il rivestimento del tratto gastrointestinale include cellule specializzate che reagiscono alle sostanze nutritive contenute negli alimenti e ad altri stimoli rilasciando ormoni, che a loro volta stimolano la secrezione di insulina nel pancreas o influiscono sul senso di appetito e di sazietà. L’alterazione chirurgica dell’anatomia del tratto gastrointestinale riduce il tempo necessario al cibo per oltrepassare queste cellule, e di conseguenza il contatto e la stimolazione in alcuni segmenti. Inoltre rende disponibile più cibo per i segmenti successivi. L’esito complessivo è un aumento del livello di alcuni ormoni e un calo della secrezione di altri.
Gli interessanti studi su esseri umani condotti da David Cummings, dell’Università di Washington, hanno dimostrato che le operazioni di bypass gastrico inibiscono la circolazione di grelina, un ormone che induce la sensazione di appetito e che sembra regolare anche l’assorbimento del glucosio da parte di alcune cellule. Care! W. le Roux, attualmente impegnato allo University College di Dublino, e altri ricercatori hanno dimostrato che un intervento di accorciamento dell’intestino chiamato «bypass gastrico Roux-en-Y» e altre procedure simili aumentano il livello di altri ormoni, detti incretine, che incrementano la produzione di insulina.
La chirurgia gastrointestinale per la perdita di peso agisce anche sugli acidi biliari, un altro tipo di molecole che regolano il consumo di energia dell’organismo. Noti soprattutto per il ruolo svolto nella digestione degli alimenti, gli acidi biliari entrano anche nell’apparato circolatorio e inviano segnali ai recettori cellulari in vari organi e tessuti. Questi segnali inducono le cellule ad aumentare il consumo di lipidi e glucosio. I.a chirurgia gastrica può incrementare il livello di acidi biliari circolanti, aiutando le cellule a prelevare glucosio dal sangue. Gli studi dimostrano inoltre che gli acidi biliari possono impedire ad alcune cellule del sistema immunitario, i macrofagi, di accumularsi nei tessuti lipidici. Un numero più piccolo di macrofagi riduce infiammazione e resistenza all’insulina tipiche dell’obesità e del diabete di tipo 2.
La chinirgia può influire anche su un altro processo che contribuisce al diabete: il trasporto del glucosio. Durante la digestione, nell’intestino avviene la degradazione delle particelle di cibo da cui viene estratto il glucosio, che attraversa quindi il rivestimento intestinale ed entra nel sangue con l’aiuto delle molecole di trasporto. Queste ultime necessitano di alte concentrazioni di sodio per funzionare regolarmente. Diverse tipologie di interventi gastrici modificano il percorso di alcuni tratti dell’intestino attraversati dagli alimenti, aggirando le fonti primarie di sodio, cioè bile e succhi gastrici del pancreas. In assenza di sodio, l’attività delle molecole di trasporto del glucosio è rallentata in modo significativo, e questo a sua volta migliora il controllo del glucosio nel sangue riduccndo il picco glicemico dopo un pasto.
Anche i microbi intestinali potrebbero essere responsabili degli effetti benefici della chirurgia. Il tratto gastrointestinale ospita migliaia di miliardi di microrganismi, alcuni dei quali aiutano l’organismo a ricavare energia dagli alimenti e producono sostanze che riducono infiammazione e resistenza all’insulina. Alterando l’acidità dell’intestino, e la quantità e la composizione chimica delle sostanze nutritive al suo interno, la chirurgia gastrointestinale può modificare la popolazione microbica locale. Lee Kaplan, della Harvard Medicai School, e colleglli hanno dimostrato che un simile cambiamento può influire sul metabolismo. Inizialmente hanno eseguito un’operazione di bypass gastrico su un gruppo di topi, quindi hanno prelevato popolazioni di batteri dal loro intestino e le hanno trapiantate in topi non operati, i cui batteri nativi erano stati già asportati. Il secondo gruppo di topi è stato sottoposto a una dieta ricca di grassi. Il loro peso è aumentato poco e il loro metabolismo è migliorato parecchio in confronto ai roditori a cui erano stati trapiantati i batteri di topi non operati.
Un altro effetto noto della chirurgia coinvolge i circuiti nervosi che influiscono sul metabolismo. Uno di questi, per esempio, che collega l’intestino al cervello tramite il nervo vago, permette all’intestino tenue di percepire minuscole quantità di sostanze nutritive ingerite e di informarne il cervello, che a sua volta sospende la produzione di glucosio nel fegato, abbassando di conseguenza la glicemia generale. Gli esperimenti su roditori effettuati da Tony Latti, dell’Università di Toronto, e colleghi hanno dimostrato che gli interventi di bypass gastrointestinale aumentano l’attività di questi meccanismi.
Infine, è possibile che la chirurgia rimuova alcuni sistemi di blocco dell’insulina nell’intestino responsabili del diabete. Questa teoria si fonda sull’idea per cui le incrctine, gli ormoni che stimolano l’insulina, debbano avere un «contrappeso», altrimenti inonderebbero l’organismo di insulina dopo ogni pasto. Se un’ondata di insulina ripulisse tutto il glucosio dalla circolazione sanguigna, ognuno di noi, dopo mangiato, soffrirebbe di ipoglicemia, vale a dire di basso contenuto di glucosio nel sangue. Poiché invece non entriamo tutti in coma ipoglicemico dopo ogni pasto, e evidente che esiste qualcosa capace di bloccare l’attività delle incretine. L’azione eccessiva di questo contromeccanismo potrebbe sopprimere del tutto la reazione dell’organismo all’insulina: in altre parole, potrebbe provocare il diabete di tipo 2. Non sono ancora state identificate con certezza sostanze di questo tipo, che io chiamo «anti-incretine», ci sono però alcune ipotesi.
Ormoni intestinali come somatostatina-28 e galanina riducono la secrezione dell’insulina nei roditori. Ma ci sono anche altri esempi. Nel 2013 Mingrone e collaboratori hanno prelevato una serie di proteine non identificate da un segmento del tratto gastrointestinale di topi diabetici. Una volta iniettate in topi non diabetici, le proteine hanno innescato una forte resistenza all’insulina. Le proteine hanno agito allo stesso modo dopo essere state iniettate in normali cellule muscolari umane coltivate in laboratorio. La mia ipotesi è che il bypass gastrico possa ridurre la quantità o la disponibilità di queste anti-incretine che bloccano l’insulina, ripristinando un normale equilibrio metabolico nell’organismo.
Qualunque sia l’esatto procedimento, questa e altre osservazio ni sembrano indicare che il diabete abbia un’origine gastrointestinale. Le disfunzioni di alcuni meccanismi intestinali innescate dagli alimenti spiegherebbero anche come l’aumento globale di alimenti grassi e ricchi di carboidrati registrato negli ultimi anni, combinato con l’aumento della disponibilità generale di cibo in molti paesi, possa aver provocato un’epidemia della malattia.
Dispositivi antidiabetici
Pur essendo un rimedio molto efficace, la chirurgia non potrà mai diventare una soluzione di massa per un problema cosi diffuso: richiede ospedali e personale altamente qualificato, e comunque comporta un certo grado di rischio, inevitabile quando si usa un bisturi. Servono rimedi meno invasivi. Almeno uno di questi potrebbe già essere disponibile: un piccolo manicotto da inserire nell’intestino passando per la gola e lo stomaco.
L’idea è foderare il duodeno, la sezione gastrointestinale situata appena sotto lo stomaco, in cui gli acidi biliari e pancreatici si mescolano al cibo parzialmente digerito, alterando le caratteristiche chimiche di tutto ciò che prosegue il suo percorso nell’intestino. Operando in questo punto cruciale è possibile intervenire anche sui segmenti a valle e sulla maggior parte dei meccanismi di controllo del glucosio descritti in precedenza.
In una serie di esperimenti, io e i miei collcghi abbiamo «schermato» il duodeno di ratti diabetici inserendo una cannula flessibile di silicone che lasciava scorrere via i nutrienti da questa sezione. Le particelle di cibo non entravano mai in contatto con le cellule di rivestimento del duodeno né si mescolavano alla bile. La glicemia migliorava notevolmente. Poi però abbiamo praticato alcuni fori nella cannula, lasciando uscire i nutrienti. Questa modifica ha compromesso gli effetti antidiabetici.
Esistono già tubi di plastica flessibili per schermare il duodeno negli esseri umani, sviluppati per simulare gli effetti di un bypass gastrico senza dover ricorrere alla chirurgia. Il loro impiego è già stato approvato in Europa e Sud America. I pazienti sottoposti alla procedura di inserimento hanno manifestato un netto miglioramento dei sintomi del diabete. Un metodo più recente, in fase di sperimentazione sugli esseri umani, consiste neU’inscrirc nel duodeno, attraverso la gola, un dispositivo alla cui estremità è collocato un palloncino. Quest’ultimo è poi riempito di acqua calda per bruciare alcune cellule che normalmente reagiscono al passaggio delle sostanze nutritive. I primi test hanno dato esiti promettenti sui malati di diabete di tipo 2 e sono in corso ulteriori analisi per confermare la durata di questo effetto sul lungo periodo.
Non è la prima volta nella storia della medicina che la chirurgia apre la strada a terapie di altro genere. Non è nemmeno la prima volta nella storia del diabete. Nel 1889 Oskar Minkowski indusse il diabete in alcuni cani asportandone il pancreas, e il suo lavoro ha portato Frederick Bantjng e Charles Best a scoprire l’insulina nel 1921. Quasi un secolo dopo, il successo della chirurgica ha permesso di individuare nel tratto gastrointestinale un possibile bersaglio per nuove terapie antidiabetiche, un approccio che mi auguro possa aiutare i pazienti al pari, se non di più, delle iniezioni di insulina.