Pagina99, 6 ottobre 2017
Il Paese dei morti di sonno
Tv in camera, smartphone sul comodino, quella e-mail di lavoro ancora senza risposta e il pagamento dell’acconto Irpef tra una settimana («Salderanno per tempo le fatture che ho emesso?»). Domani: ufficio, poi, in pausa pranzo, Poste e alle sedici i bambini a scuola.
Cronache di un’ordinaria serata; contesto, pensieri e preoccupazioni di un italiano qualunque mentre pazientemente cerca di archiviare la giornata passata e prendere sonno. Spesso senza riuscirci, rimandando ad libitum l’appuntamento con Morfeo.
L’insonnia colpisce tra il 5 e il 10 per cento della popolazione italiana, un numero che oscilla tra i 3 e i 6 milioni di persone. L’insonnia vera e propria, quella che incontra i criteri di diagnosi medica, però, è solo la punta dell’iceberg. Da anni le ricerche registrano un profondo cambiamento nel rapporto con il sonno – si dorme meno, si dorme peggio.
Si tratta di un trend mondiale che comincia a preoccupare.
Una ricerca pubblicata sulla rivista Sleep nel maggio 2015, per esempio, mostrava che negli Usa, dal 1985 al 2004 la percentuale di americani che dormivano meno di 6 ore per notte è aumentata del 30 per cento.
E non sono diversi i dati che provengono da altri Paesi: uno studio svedese pubblicato sul Journal of Sleep Research mostrava che dal 1968 al 2004 la percentuale di donne under 40 che soffrivano di un qualche problema di sonno è passata dal 17,7 al 31,7 per cento; e nelle cinquantenni la percentuale era del 41,8.
E ancora, in Gran Bretagna, nel 2014, il 60 per cento degli intervistati per un sondaggio dichiarava di aver dormito meno di 7 ore a notte nei sei mesi precedenti; in Germania e in Giappone questa percentuale raggiungeva i due terzi degli adulti.
E se non bastassero i sondaggi, può aiutare la tecnologia: nel 2014 l’azienda di dispositivi indossabili Jawbone rese disponibili i dati sul son’ no rilevati dai propri device: la durata del riposo dei portatori del braccialetto elettronico oscillava dalle 6 ore e 58 minuti di Melbourne, in Australia, alle 5 ore e 44 di Tokio (Roma e Milano sono risultate essere tra le città più poltrone al mondo con rispettivamente 6 ore e 49 minuti e 6 ore e 44 di sonno a notte).
La congiura anti-sonno
La riduzione della qualità e della quantità del sonno ha cause profonde. Che solo in minima parte possono essere ricondotte a ragioni mediche.
Molto più forte sembra essere l’impatto dei cambiamenti che hanno investito la società nell’ultimo ventennio.
L’onnipervasività delle tecnologie di comunicazione, per esempio. È ormai chiaro l’impatto degli smartphone sul peggioramento della qualità del sonno: una ricerca pubblicata lo scorso novembre sulla rivista PLoS One ha messo in relazione il tempo passato davanti allo schermo di smartphone e tablet con la qualità del sonno.
Ebbene – inutile dirlo – maggiore è il tempo speso con gli occhi sul monitor più breve è la durata del sonno e peggiore la sua qualità, specie se i dispositivi sono usati di sera o, ancora peggio, quando si è già a letto.
Ciò che sorprende, però, è che non è necessario usare i dispositivi per vedersi rovinato il sonno: basta averli sul comodino. A ridosso di Natale dello scorso anno la rivista Pediatrics pubblicò uno studio sul rapporto tra uso di smartphone e sonno in bambini e ragazzi tra i 6 e i 19 anni. Apparentemente niente di nuovo: è venuto fuori «che l’uso del dispositivo quando è il momento di andare a letto – 90 minuti prima di provare a iniziare a dormire – dà outcome del sonno peggiori», commentava l’autore dello studio, Ben Carter del King’s College di Londra. «Ma la seconda scoperta è stata più sorprendente. Se non si usa il dispositivo, ma vi si ha accesso nell’ambiente in cui si dorme si riscontrano comunque outcome di sonno peggiori».
La ragione è che la semplice disponibilità dello smartphone mantiene il cervello in uno stato di allarme e di eccitamento proprio quando dovrebbe progressivamente lasciarsi andare.
Intanto, qualcuno comincia già a studiare l’effetto Netflix. La disponibilità di flussi di contenuti continui (e potenzialmente illimitati), disponibili adesso online, ma già da anni su supporti locali, sta infatti producendo un nuovo fenomeno impensabile ai tempi della Tv tradizionale con i suoi rigidi palinsesti.
Si sta diffondendo l’abitudine di fare grandi abbuffate di serie televisive che, naturalmente, si traduce in un drastico peggioramento della qualità del sonno.
A ferragosto il Journal of Clinical Sleep Medicine ha pubblicato il primo studio su questo argomento condotto su oltre 500 giovani adulti, che si è rivelato utile, intanto, a fotografare il fenomeno binge-watching (espressione coniata sul modello del binge-drinking), vale a dire il «guardare più episodi consecutivi dello stesso show televisivo in un unica seduta». Una sessione media di binge-watching è risultata durare 3 ore e 8 minuti, con il 52 per cento del campione che ha dichiarato di vedere 3 o 4 episodi di una serie in una seduta.
Il problema, ha spiegato Jan Van den Bulck, PhD, professore all’University of Michigan ad Ann Arbor e coautore dello studio, è che questi contenuti «spesso hanno una struttura narrativa complessa che fa sì che gli spettatori si immergano completamente nella storia. E questo coinvolgimento intenso con il contenuto televisivo può richiedere un lungo periodo di “raffreddamento” prima di riuscire a dormire».
Risultato: un terzo del campione aveva una pessima qualità del sonno, che lasciava strascichi il giorno seguente.
Lavoro onnipresente
Se la tecnologia ha un ruolo importante, comincia a diventare sempre più chiaro che anche il modello di lavoro che si è andato affermando con l’era post-industriale abbia un pessimo impatto sull’igiene del sonno.
Se un tempo a preoccupare erano i turni che facevano impazzire l’orologio biologico, oggi il timore principale sono gli effetti del lavoro come inesauribile fonte di stress.
La crescente competitività, il bisogno di un bagaglio di competenze sempre più ricco, l’aumento delle responsabilità che gravano sul singolo lavoratore, la precarizzazione e la progressiva riduzione dell’impiego da dipendente in favore di forme autonome, la labile separazione con la vita privata.
Tutto ciò, da una parte finisce per aumentare l’effettivo orario di lavoro come mostrava qualche mese fa un’indagine condotta dal britannico Chartered Management Institute: su 1.500 manager inglesi intervistati, il 77% era impegnato almeno un’ora extra in più al giorno fuori dal contesto d’ufficio; il 10% più di tre ore aggiuntive.
Soprattutto, però, questi cambiamenti generano pressione e ansia costanti che, secondo una ricerca pubblicata sulla rivista Lancet, riguarda stabilmente una quota compresa tra il 13 e il 22 per cento dei lavoratori europei.
Il risultato è stato fotografato da ricercatori svedesi in una ricerca pubblicata sulla rivista Sleep nel luglio 2015: lo stress sul lavoro produce un peggioramento della qualità del sonno che, a sua volta, si traduce in stanchezza che rende più difficile far fronte alle richieste sul lavoro, in una spirale che si autoalimenta. E che non può essere spezata con un semplice weekend di riposo.
Effetto contrario
E così ecco il paradosso del sonno perso: frutto in gran parte di un modello sociale che punta a un’efficienza del 100 per cento, è invece un’enorme fonte di sprechi e ha i costi economici e sociali di una catastrofe.
Lo scorso anno l’organizzazione no-profit Rand si è cimentata in uno studio ciclopico: valutare quale fosse l’impatto della perdita di sonno sull’economia di 5 Paesi deirOcse (Usa, Giappone, Germania, Gran Bretagna e Canada).
La spiegazione è semplice: il sonno ha effetti devastanti sull’organismo che si traducono in perdita di giorni di lavoro, riduzione della produttività, aumento degli errori e degli incidenti sul lavoro. Insomma, la biologia si fa economia. E il malessere individuale si trasforma in costi aziendali e sociali.
Difficile misurare tutto, per esempio è difficile calcolare l’impatto economico degli incidenti stradali su cui – neanche a dirlo – il sonno ha un’influenza importantissima, tanto che si stima che sia la causa del 21,9 per cento di tutti gli incidenti stradali e il 23 per cento di quelli mortali.
I ricercatori della Rand hanno però elaborato un modello macroeconomico che ha considerato la perdita economica derivante dal sommarsi di tre fattori: l’aumento della mortalità dovuto alla carenza di sonno, la perdita di produttività e la mancata acquisizione di competenze durante gli anni di scuola.
Ciò ha consentito di concludere, per esempio, che i lavoratori che dormono meno di sei ore per notte hanno una perdita di produttività del 2,4 per cento a causa dell’assenteismo rispetto a chi dorme tra le 7 e le 9 ore per notte. Questo, in un Paese come gli Stati Uniti, si traduce in 1,23 milioni di giornate di lavoro perse ogni anno.
Oppure che dormire meno di 6 ore a notte per uno studente si trasforma in una perdita di competenze acquisite del 7,75 per cento. E ciò si tradurrà in futuro in una peggiore qualità del lavoro svolto.
Fatti tutti i calcoli, alla fine i ricercatori hanno concluso che la cattiva qualità del sonno causa una perdita economica che oscilla tra 11,35% del Pii del Canada (i cui cittadini hanno una migliore igiene del sonno) e il 2,92% del Pii del Giappone.
Tradotto in cifre, significa una perdita annua di miliardi di dollari: 21,4 miliardi per il Canada, 50 per il Regno Unito, 60 per la Germania, 138 per il Giappone, 411 per gli Stati Uniti.
«Il nostro studio mostra che gli effetti della perdita di sonno sono enormi», ha detto il principale autore della ricerca, Marco Hafner. «La carenza di sonno non influenza solo la salute e il benessere personale, ma ha un impatto significativo sull’economia di un Paese con perdita di produttività e un più elevato rischio di mortalità tra i lavoratori».
E l’Italia? Non esistono dati in merito, ma se applicassimo al nostro Paese il modello del Rand, ne verrebbe fuori che il sonno perso comporta la perdita di un capitale compreso tra i 25 e i 54 miliardi di dollari all’anno. Una cifra che basterebbe per risparmiarci un paio di manovre economiche. E per far dormire sonni tranquilli a qualunque ministro dell’Economia.