Affari&Finanza, 9 ottobre 2017
Intervista ad Alessandro Leipold, il nuovo vigilante Fmi: «L’obiettivo è tagliare il debito dell’Italia»
«Beh, se i segnali hanno qualche significato, allora essere nominato rappresentante per l’Italia al Fmi proprio nel momento in cui sul nostro Paese fioccano i rialzi delle stime di crescita anziché i ribassi come è stato per tantissimi anni, è davvero beneaugurante...»
Sorride, Alessandro Leipold. «Intendiamoci – puntualizza subito – il fatto di non essere più il fanalino di coda dell’Europa non deve autorizzarci ad indulgere in troppo autocompiacimento, ci sono sempre problemi pressanti primo fra tutti il debito...Diciamo, come non manca di avvertire sempre Pier Carlo Padoan, che il sentiero su cui viaggiamo resta stretto. Ho visto con interesse che il ministero dell’Economia ha lanciato una newsletter in inglese e l’ha chiamata appunto, The Narrow Path. Il fattore determinante, anche per alleviare l’onere del debito, sarà innalzare la crescita».
Leipold è stato appena nominato dallo stesso Padoan executive director per l’Italia del Fondo monetario Internazionale, come dire ambasciatore del nostro Paese presso una delle istituzioni finanziarie più prestigiose del mondo. Si insedierà ufficialmente il primo novembre («ma già il 30 e 31 ottobre parteciperò a un “ritiro” del board esecutivo di cui farò parte»), e prenderà il posto di Carlo Cottarelli, che rientrerà in Italia per condurre il nuovo Osservatorio sulla finanza pubblica da lui fondato.
«Conosco Carlo da tantissimi anni, siamo entrambi veterani del Fondo, ora stiamo facendo insieme il passaggio delle consegne e sempre insieme parteciperemo alle assemblee annuali (in calendario per questa settimana, dal 13 al 15 ottobre, ndr )».
Insomma, una bella sfida, «che cercherò di onorare come tanti miei precessori: Andrea Montanino, Arrigo Sadun, lo stesso Padoan e ancora prima il compianto Riccardo Faini», spiega Leipold con la sua voce bene impostata da fiorentino Doc («veramente sono nato a Viareggio quando i miei genitori erano in vacanza») per niente corrotta da decenni all’estero. Con lo spirito volitivo di sempre, è pronto ad affrontare la nuova avventura che gli arriva, a 70 anni, quale ideale completamento di una vita trascorsa praticamente tutta nelle istituzioni internazionali e in particolare proprio all’Fmi.
«Entrai nel 1982 negli uffici di staff di Washington, come tanti giovani di ogni parte del mondo, e cominciai ad essere destinato via via nei vari dipartimenti», racconta. Si è occupato di monitoraggio dei diversi Paesi, mercati monetari internazionali, prevenzione, gestione e soluzione delle crisi, problemi di governance, e così via. «Non era la mia prima esperienza di lavoro – puntualizza Leipold – perché dopo la laurea alla Bocconi e un periodo di ricerca alla University of London ero entrato nel 1976 quale economista nel dipartimento ricerca del Credito Italiano. Ero negli uffici di Piazza Cordusio, dove lavoravo fianco a fianco con Pietro Modiano nell’epoca di Lucio Rondelli. Dopodiché, nel 1978 feci un concorso ed entrai alla Commissione europea». Dal quel momento, Leipold ha lavorato fuori Italia, ma ha sempre respirato molta Italia. A partire dal primo assignment di Bruxelles, nel mitico direttorato generale degli affari economici e finanziari guidato da Tommaso Padoa-Schioppa.
«Sono stati anni entusiasmanti e difficili: c’erano da definire e monitorare le parità e le bande di oscillazione del Sistema monetario europeo, l’antenato dell’euro. Durante i tanti riallineamenti, ho assistituto a discussioni astruse ma politicamente tese sulla presentazione del risultato: è la lira che si svaluta o il marco che si rivaluta?»
Era ancora lontana la bufera targata George Soros che nel settembre 1992 scardinò lo Sme, anzi «tutto a quel punto sembrava camminare su un sentiero tranquillo, tanto tranquillo che pensai nell’82 di andarmi a cercare nuove sfide».
Una certa idisioncrasia per le situazioni troppo paciose, Leipold deve averla sviluppata da bambino: «Avevo tre anni quando mio padre, che lavorava nel tessile di Prato, disse: ce ne andiamo in Sudafrica. E partimmo».
Perché dall’altro capo del mondo?
«Perchè era il 1950, era finita la guerra, c’era uno spirito imprenditoriale formidabile, e a un gruppo di industriali pratesi dallo sguardo lungo venne in mente che si poteva aprire un mercato sconfinato vendendo coperte alle popolazioni del Transvaal e oltre».
Come contrappasso non c’è male, oggi Prato è a sua volta terra di conquista per avventurieri che vengono da lontano.
«Ci restammo fino a quando ebbi 15 anni, quando i miei vollero allontanarsi dal regime dell’apartheid sempre più repressivo, e così tornammo. Mi resta l’accento un po’ olandese influenzato dall’Afrikaans, la lingua dei coloni boeri. Ancora oggi a Londra se ne accorgono subito, in America no, il melting pot non conosce queste sottigliezze».
Giusto il tempo di finire il liceo (americano, ovviamente) a Roma, poi l’università e l’inizio della carriera di cui si diceva.
«Nell’82 sono entrato al Fondo, e a partire dal 1998 ho fatto parte del team senior dell’European Department».
È quello che tutto l’anno compie le famose missioni «articolo IV” nei vari Paesi per valutarne lo stato di salute ed emettere ascoltatissimi pareri e suggerimenti (l’ultima per la cronaca in Italia è stata nel luglio scorso e si è conclusa con le positive considerazioni che si dicevano all’inizio).
«Negli anni 2000 sono stato a lungo capo missione Fmi per la Francia – racconta Leipold dove ho dialogato con molti ministri dell’Economia fra cui Nicolas Sarkozy e Christine Lagarde (oggi direttore generale del Fondo, ndr ), e poi molte volte in Italia, dove ho interagito con i ministri Tremonti, Siniscalco e Padoa-Schippa, con Grilli alla direzione generale del Tesoro, e poi ovviamente con i tecnici della Banca d’Italia».
È stato in quegli anni che il volto di Leipold è diventato familiare negli uffici finanziari, nelle grandi banche, anche ai cronisti economici che seguivano con trepidazione il responso ex articolo IV.
«Sono state quelle le ultime missioni cui partecipavano tecnici del Fondo della stessa nazionalità di quella visitata. Ora il Fondo ha cambiato politica: gli italiani in Italia non vanno più, come i francesi in Francia e via dicendo. È un’innovazione introdotta dal management dell’Fmi sulla quale per la verità sono un po’ perplesso: evidentemente lo fanno per evitare il rischio di clemenza verso il proprio Paese, ma io le posso assicurare che proprio i connazionali sono invece i più critici. E poi sono utili perchè parlano la lingua, perché conoscono abitudini e cultura».
Stiamo parlando di missioni tecniche, a livello di staff: ma l’executive director che posizione ha?
«Nel Fondo ci sono due “linee” ben distinte: quella tecnica, lo staff appunto, di cui facevo parte allora io, e quella di organo decisional, più politico, dei direttori esecutivo memrìbri del board, la posizione che andrò a rivestire fra breve. Per tradizione il direttore esecutivo del rispettivo Paese partecipa alla missione ma si astiene dall’intervenire durante le riunioni fra staff e autorità».
Nel 2008 Leipold è stato per sei mesi direttore in carica del Dipartimento Europa.
«Erano gli anni difficilissimi dell’esplosione della crisi – racconta – e in quei mesi ho guidato le iniziative dell’Fmi in alcuni dei Paesi più colpiti: Ungheria, Ucraina, Lettonia, Islanda».
Alla fine del 2008, a 61 anni, Leipold pensò che era giunto il momento di farsi da parte e lasciò il Fondo. Non era il tipo da andarsene in pensione e così accettò l’incarico di capo economista del Lisbon Council, un think-tank che ha sede a Bruxelles.
«Volevo concedermi un po’ di studi approfonditi, e ho analizzato in particolare le risposte dell’Europa alla crisi debitoria».
E cosa ha concluso?
«Che sono stati fatti molti errori, un po’ per inesperienza e un po’ per presunzione europea».
Per un altro giro del destino ora Leipold dovrà affrontare, oltre al caso Italia, gli interventi in una serie di altri Paesi che fanno parte della stessa costituency al Fondo, fra cui la Grecia.
«Sono stati anni tremendi per Atene. Ora per fortuna si sta riprendendo, affronterò il problema insieme al mio viceMichail Psalidopoulos, che è greco e ne ha la responsaiblità principale».
E l’Italia?
«Che dire? Aspettiamo gli eventi. Il mood è cautamente favorevole, come le dicevo, anche in prospettiva. Speriamo solo che prevalga un senso di responsabilità di tutti e che non intervengano tensioni politiche in vista delle elezioni. Ecco, il pericolo più attuale rischia di essere quello».