Affari&Finanza, 9 ottobre 2017
Catalogna e Scozia, quanto valgono le autonomie
Ai catalani sicuramente è andata male perché si sono trovati di fronte prima la ferrigna reazione della Guardia Civil, che civil non è tanto stata, e poi l’isolamento internazionale che lascia premonire che ove mai in futuro arrivassero all’indipendenza la loro economia crollerebbe. Ma ancora peggio è andata agli scozzesi: punto centrale della campagna dello Scottish National Party per il referendum sull’indipendenza del 2014 (poi perso di misura) era stata la forza economica derivante dal petrolio del Mare del Nord. Il 18 settembre, data del voto, il Brent valeva 91 dollari al barile. Quattro mesi dopo era sceso a 48, poco più della metà. E la discesa sarebbe proseguita fino a toccare il minimo di 33,6 nel gennaio 2016. In tre anni l’economia scozzese è precipitata: i profitti del greggio (considerando che visti i costi di estrazione nel Mare del Nord il barile deve essere almeno a quota 44 per essere redditizio contro i 10 dell’Arabia Saudita) sono crollati a 60 milioni di sterline l’anno scorso contro gli 1,8 miliardi del 2015 e i 3,4 del 2014. Un disastro che ha reso, secondo l’Eurostat, l’economia scozzese – presa a se stante come fosse uno Stato – la peggiore d’Europa in assoluto per il rapporto deficit/pil: l’8% nel 2016 contro il 7,5 della Grecia, il 4,6 della Spagna, il 2,5 dell’Italia. Non stupisce se alle elezioni politiche in Gran Bretagna dell’8 giugno scorso, lo Scottish National Party guidato da Nicola Sturgeon (che aveva preso il posto di Alex Salmond appunto dopo la sconfitta al referendum del 2014) è crollato dal 4,7 al 3% dei consensi, perdendo 21 seggi a Westminster e fermandosi a 35. «Di certo non sentiremo più parlare di referendum scozzesi per un bel po’, sicuramente non prima che siano completati la procedura della Brexit e il periodo transitorio successivo, insomma fino almeno al 2021», commenta l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, una lunga carriera in diplomazia alle spalle in cui è stato anche commissario europeo, oggi presidente dell’Istituto Affari Internazionali. È sull’economia che si gioca la quasi totalità delle rivendicazizoni territoriali e autonomiste che covano sotto o sopra la cenere in ogni angolo d’Europa, che non a caso esplodono spesso per iniziativa delle regioni che si ritengono più ricche e “spremute” dallo Stato centrale: dalla Slesia, la regione polacca più industrializzata, alle Fiandre, che dopo la crisi dell’industria pesante vallone (miniere, siderurgia, meccanica) hanno conquistato una solida leadership specie nelle regioni del Brabante, di Anversa e la zona intorno a Bruxelles. Sommando il Pil delle otto aree comunittarie a più forte spinta autonomista si arriva a 1.374 miliardi di euro, ovvero il 9,3% del Pil dell’intera Ue (15mila miliardi). Inserendo le due regioni “padane” Lombardia e Veneto, anche se il referendum del 22 ottobre non punta dichiaratamente all’indipendenza né vuole avere carattere cogente ma solo ampliare la mappa delle attribuzioni, si sfiorano i 2000 miliardi, per la precisione 1.883, il 12,8% del totale. Se, per ipotesi, tutte queste regioni dovessero un giorno raggiungere l’indipendenza e si riunissero a loro volta in una contro-Unione, la ricchezza di questa nuova entità se la batterebbe con la Ue “storica” impoverita appunto per la loro dipartita. «La forza economica di queste regioni, in rapporto al Paese di appartenenza è in effetti notevole», conferma Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi che da anni studia l’Europa. «Analizzarla riserva anche delle sorprese: i trasferimenti netti, guardando il Pil pro capite, di ogni cittadino catalano al governo centrale sono pari a 200 euro l’anno, quelli della Lombardia a 5000. Però bisogna subito chiarire un punto: la forza intrinseca di una regione dipende anche e soprattutto dal fatto di essere parte di uno Stato grande e forte. Per esempio, il Pil di qualsiasi area industrializzata viene prodotto in gran parte da cittadini che vi si sono trasferiti dalle zone più depresse. È vero che vi si potrebbero trasferire ugualmente ma di fatto andare all’”estero” è più complesso e meno immediato. E potrebbe diventare assai difficile se la dipartita autonomista fosse traumatica. Il caso spagnolo è esemplare: Madrid si opporrebbe con tutte le forze all’ammissione della Catalogna nell’Ue, e serve il voto unanime di tutti i Paesi per ammettere un nuovo membro. La regione, che fonda la sua forza sull’export, sarebbe isolata, e dovrebbe emettere tra l’altro una sua moneta con cui pagare il proprio debito in euro, con un aggravio probabile del 40-50%». Anche allargando lo sguardo all’Europa extra-Ue le motivazioni economiche sono forti, anche se lì la componente etnico-religiosa gioca un ruolo più importante. Il conflitto scoppiato quando una parte della della Cecenia (Ichkeria, 80% del territorio) nel 1991 si ribellò all’egemonia russa, è dovuto alla ricchezza mineraria del sottosuolo e all’importanza commerciale dello snodo geografico per gli oleodotti, fra il Caspio e il Mar Nero: economico fu il primo blocco voluto da Eltsin nel 1994 contro gli irredentisti, e militare fu la risposta successiva rafforzata da Putin con due successive ondate di guerra che lasciarono sul terreno 150mila morti ceceni in gran parte civili e 5mila soldati russi, con la capitale Groznj rasa al suolo e il tessuto economico – appunto – polverizzato. Con la fragile tregua nel 2009 venne attribuito a tutta la Cecenia uno status di autonomia speciale che però nel corso degli anni è stato cancellato, ripristinando la situazione quo ante alla guerra, con quali preoccupazioni della comunità internazionale si può capire. Altrettanto per il Tatarstan, altra repubblica federata anch’essa strategica per le rotte del petrolio, sottoposta a uno stop-and-go di concessioni estenuante dal Cremlino. Altrettanto tormentata la vicenda del Kosovo, che costò nel 1999 una guerra che coinvolse anche l’Italia, un numero infinito di morti ed è irrisolta: esiste è vero una repubblica kosovara, ma un Paese su tre dell’Onu non l’ha riconosciuta (l’Italia sì ma non a caso la Spagna no proprio per non aprire la stura alle pretese catalane) e la Serbia continua a rivendicare la sua potestà sul territorio. È rimasta l’ultima scia di tensione nella drammatica vicenda jugoslava dove le tensioni indipendentiste sono sfociate in drammatici bagni di sangue. «In Europa – dice Alessandro Terzulli, capo economista della Sace – le uniche “separazioni” andate a buon fine sono state quelle consensuali: guardate a Slovacchia e Repubblica Ceca che dal 1° gennaio 1993 hanno preso ognuno la propria strada, non senza qualche tensione iniziale. Poi, grazie ai generosi aiuti dell’Ue e all’ outsourcing di industrie tedesche in entrambi i Paesi, si è rivelata un buon affare per entrambi: nel 2016 Praga è cresciuta del 2,5% e Bratislava del 3,3».