la Repubblica, 11 ottobre 2017
Via tutte le società quotate tranne una. Così l’economia tifa per la Spagna unita
ROMA La Caixabank, terza banca spagnola, ha annunciato che traslocherà da Barcellona a Palma di Maiorca in caso di secessione. La Sabadell, altro gigante del credito, già ha trovato rifugio ad Alicante, nella regione di Valencia. Non a caso i due titoli sono schizzati in Borsa negli ultimi giorni dopo le perdite del post-referendum. I vertici delle due banche si sono affrettati a chiarire che hanno spostato solo la sede legale e che per i clienti non cambia nulla, però hanno opposto un imbarazzato silenzio quando gli è stato chiesto cosa accadrà se davvero la Catalogna si separerà dalla madrepatria, perdendo la “patente” europea, l’euro, la tutela Bce, la libertà di commerci, senza contare che la débacle nell’economia della regione che pare scontata toglierebbe risorse, profitti, occupazione.
Per questi motivi anche le aziende della manifattura e dei servizi si preparano alla grande fuga, cogliendo l’ottima esca che ha lanciato loro il governo di Madrid, semplificando dalla sera alla mattina la burocrazia per chi decide di spostare gli headquarters e magari anche gli stabilimenti produttivi. Malgrado gli ultimi sviluppi che escluderebbero uno strappo violento, l’elenco continua ad allungarsi di ora in ora. L’Agbar (Aigues de Barcelona), che gestisce la rete idrica, ha trasferito la sede a Madrid. La casa auto Seat (gruppo Volkswagen) dopo la tumultuosa tornata referendaria del 1° ottobre ha fermato uno dei suoi tre stabilimenti produttivi (ora sembra che riparta dopo gli sviluppi di ieri). L’operatore autostradale Abertis, promesso sposo dell’italiana Atlantia, ha fatto altrettanto, così come la biotech Oryzon, la tessile Dogi e altri ancora. Con la sola eccezione della farmaceutica Grifols, tutte le sette aziende catalane quotate sul principale listino della Borsa di Madrid hanno annunciato che lasceranno Barcellona.
La fuga si fermerà ora che Puigdemont ha aperto uno spazio per la trattativa? «Gli indipendentisti hanno perso questa battaglia, ma Rajoy non ha vinto la guerra», commenta Niccolò Locatelli, coordinatore del sito di Limes. «I rapporti di forza sono per Madrid, ma se la Spagna forza la mano alimenta il sentimento secessionista». L’economia gioca un ruolo cruciale in questa sciarada. È vero che la Catalogna è una delle regioni più ricche d’Europa: è al terzo posto per Pil pro capite (204 miliardi con 7,5 milioni di abitanti), in una classifica redatta dall’economista Silvio Riva che vede in testa la Lombardia (357 miliardi per 10 milioni) e secondi i Paesi Baschi (67 miliardi per 2,2 milioni). Ma tutta questa ricchezza «si sfalderebbe in caso di secessione violenza come neve al sole», commenta Alessandro Terzulli, capo economista della Sace. «L’export catalano è stato nel 2016 di 65 miliardi di euro, come documenta Datacomex, ma di questi il 66%, ovvero 42,7 miliardi, è andato in Europa, la maggior parte in Spagna e 6 miliardi in Italia. In caso di rottura traumatica quest’export diventerebbe problematico».
Non bisogna dimenticare, conferma Matteo Villa, ricercatore dell’Ispi di Milano, «che gli scambi all’interno dell’Ue sono totalmente liberi, ma quelli con i Paesi esterni sono gravati da un dedalo di dazi, tariffe e altre barriere doganali, che pesano fino al 20-30% del totale e sono particolarmente forti, secondo le regole del Wto, proprio per auto e chimica, due punti di forza di Barcellona. Per la riammissione nell’Ue serve l’unanimità dei 28 membri: solo se il negoziato che forse si è aperto ieri sera andrà bene si può sperare in un parere favorevole della Spagna». Ma forse un impoverimento a breve i catalani l’hanno messo in conto: uno studio del think- tank Munich Personal Re su ben 125 secessioni nel mondo fra il 1950 e il 2013, compresi l’Africa e l’ex Urss, ha provato una perdita di Pil nei primi dieci anni fra l’8 e il 20% rispetto al Paese originario. Poi, nel lungo termine, molti si sono ripresi.