Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2017  ottobre 10 Martedì calendario

APPUNTI SULLA CATALOGNA PER GAZZETTA

REPUBBLICA.IT 10/9 - "E’ un momento di dimensione storica eccezionale". Nella sede del parlamento di Barcelona, il presidente della Generalitat Carles Puigdemont pronuncia il suo discorso sull’indipendenza, parole chiavi per il futuro della Catalogna.Parla di "forte necessità di non alimentare la tensione", "di momento critico e serio, ma dobbiamo essere tutti qui ad assumerci le nostre responsabilità". E sottolinea: "Le violenze estreme della polizia di Madrid, senza precedenti in Europa, non hanno impedito il voto. E le immagini dei feriti rimarranno per sempre. Ci sono persone preoccupate, colte dallo sgomento di ciò che è accaduto e che potrebbe accadere".Però, sottolinea anche il leader secessionista, "Siamo e resteremo un solo popolo". "Nelle ultime ore e giorni, molte persone hanno parlato con me e dato suggerimenti, tutte idee lecite e rispettabili" ha aggiunto il presidente "ma quel che presenterò oggi non è una decisione personale, ma il risultato del primo ottobre". E riparte dal referendum: "I sondaggi dicono sì all’indipendenza, e questa è l’unica lingua che capiamo". Quindi, scandisce "dichiaro l’indipendenza" ma Puigdemont non preme sull’accelleratore: "Chiedo che il parlamento la sospenda per qualche settimana per cercare di aprire il dialogo".
***

ALBERTO MINGARDI, ILSOLE24ORE.COM 10/10 – 
Mancano poche ore alla riunione del parlamento catalano e soprattutto al discorso delle 18 di Carles Puigdemont, il presidente della Generalitat (il governo locale) che ha guidato la regione al referendum e alla frattura con Madrid. Oggi scadono i termini previsti dalla legge istitutiva della consultazione del 1 ottobre per dichiarare l’indipendenza, secondo i risultati ottenuti da un voto giudicato illegale dall’equivalente spagnolo della Corte Costituzionale. Ora è tutto appeso alle parole di Puigdemont, anche se il presidente è incalzato da pressioni interne, nazionali ed europee. Il leader catalano deve, nell’ordine, fronteggiare le attese del suo elettorato; tenere in considerazione le minacce di azioni legali dal governo Rajoy e il commissariamento della regione; considerare che l’Unione europea si è già espressa a favore dell’unità spagnola, pur condannando le violenze perpetrate dalla polizia spagnola durante il voto del 1 ottobre. Senza ignorare, per ovvie ragioni, l’esodo già avviato da aziende catalane o con sede in Catalogna in caso di rottura con il paese.

1) Scenario uno: Puigdemont mantiene fede alle promesse e dichiara l’indipendenza. Come reagisce Madrid? Il governo Rajoy, come si è scritto sopra, ha ribadito che «non permetterà in alcuna circostanza l’indipenza catalana» ed è pronto a intervenire nel caso di una presa di posizione netta da parte di Puigdemont. La dichiarazione di indipendenza cadrebbe nel vuoto a livello formale, perché non sarebbe riconosciuta né dalla Spagna né dalla comunità internazionale. Ma si tratterebbe comunque di una violazione della legge, perché corrisponde all’attuazione “arbitraria” del voto emerso da un referendum bocciato dal Tribunal Constitucional. In questo contesto, Madrid sarebbe giustificata anche nell’uso delle forze dell’ordine. «Certo, non sarebbe una scelta facile e il rischio è di vedere scene simili a quelle del voto del primo ottobre. È una questione spinosa, ma il dirtto c’è» spiega Jens Woelk, professore di diritto pubblico comparato all’Università di Trento.

2) Davvero Puigdemont rischia il carcere? Per che reato?Il governo Rajoy ha lanciato diversi ammonimenti al leader catalano, anche se è entrato poco nel merito delle fattispecie penali che gli sarebbero contestate in caso di dichiarazione di indipendenza. Parole più chiare (e brusche) sono arrivate nei giorni scorsi da Pablo Casado, il vicesegretario alla comunicazione del Partito Popolare. «Speriamo che la storia non si ripeta - ha detto - Perché chi dichiara l’indipendenza rischia di finire come chi ci ha provato 83 anni fa». Vale a dire in prigione:  Casado si riferiva a Lluys Companys, il presidente della Generalitat negli anni della Guerra civile, incarcerato nel 1934 e fucilato dai militari franchisti nel 1940. Nel concreto, i reati che si configurerebbero per Puigdemont sono sedizione (con una pena dai 10 ai 15 anni ai sensi del Codice penale spagnolo) e ribellione contro lo Stato (pena dai 15 ai 25 secondo l’articolo 473 dello stesso Codice). Secondo indiscrezioni rilanciate dalla Bloomberg, un’agenzia statunitense, la Guardia Civil sarebbe addirittura pronta all’arresto dopo la dichiarazione.

3) E quando si parla dell’articolo 155 cosa si intende?
Si parla dell’articolo 155 della Costituzione spagnola, quello che consente allo Stato di intervenire nel caso in cui «la Comunità autonoma non ottemperi agli obblighi imposti dalla Costituzione» e «si comporti in modo tale da attentare agli interessi generali della Spagna» (comma 1). Con queste premesse, sempre secondo lo stesso articolo, Madrid avrebbe il diritto di «prendere le misure necessarie per obbligarla all’adempimento forzato dei suddetti obblighi». Più nel dettaglio, come si legge al comma 2, lo Stato potrebbe «dare istruzioni alle autorità locali». In altre parole, si andrebbe verso il commissariamento della Regione. L’articolo non è mai stato messo in pratica nella storia spagnola e rappresenterebbe quello che la stampa internazionale chiama, metaforicamente, «opzione nucleare»: una misura di sicura efficacia, ma con effetti distruttivi per il futuro dei rapporti tra regione e lo Stato centrale. «La questione è molto delicata. Impartire ordini a una regione significa violare il principio di autonomia che ha sempre retto la costituzione spagnola - dice Woelk - E questo alimenterebbe la lontanza della Catalogna dal resto del Paese».

4) E a livello economico cosa succederebbe?
Più che altro, cosa è già successo. Dopo il referendum dell’1 ottobre è iniziata quella che la stampa locale ha chiamato «l’esodo» di banche e aziende catalane o con sedi operative nella regione. Importanti istituti finanziari come CaixaBank (quasi 30 miliardi di capitalizzazione) o imprese di peso nei rispettivi settori (Abertis) hanno annunciato il traferimento in altre regioni della Spagna per «proteggersi» dall’incognita di un’economia isolata da resto del Paese, Unione europea e trattati internazionali. Un calcolo a cura del quotidiano El Mundo stima una perdita pari al 50% del Pil della regione.Nel frattempo, starebbero iniziando anche le prime «fughe» dei conti bancari. Secondo quanto riportano i media spagnoli, si stanno registrando «lunghe code agli sportelli» in alcune banche della vicina Aragona e i primi flussi di «ingenti quantità di denaro» fuori dalla regione. I mercati attendono con nervovismo: oggi l’Ibex 35, l’indice che raggruppa le aziende a maggior capitalizzazione della Spagna, cede quasi l’1% e non mostra i segnali di ottismo manifestati quando si parlava di un’apertura da parte di Puigdemont. Anche CaixaBank, l’istituto pronto a trasferirsi a Valencia, perde oltre il 2% nella seduta in corso.

5) Ma Puidgemont può ancora prendere tempo?
È quello che sperano le fronde moderate dei partiti indipendentisti, espressione di un tessuto imprenditoriale che uscirebbe penalizzato da una rottura brusca con Madrid. Secondo fonti trapelate sui media spagnoli, Puidgemont potrebbe tentare un dialogo più aperto alla trattativa, magari spingendo sull’ipotesi di una nuova consultazione o di un processo graduale verso l’indipendenza di fatto dalla Spagna. In questo caso, però, la linea sconteterebbe le attese delle frange più radicali del movimento.

***

SARA GANDOLFI, CORRIERE DELLA SERA 10/10 –
 Il «piano segreto» degli indipendentisti catalani diventa pubblico. A rivelarne il contenuto con grande tempismo, a poche ore dall’atteso discorso del «President» Carles Puigdemont , è stata la Guardia Civil che il 20 settembre scorso, durante una perquisizione in casa del braccio destro di Orios Junqueras, vicepresidente della Generalitat, aveva trovato il documento di otto pagine in cui si disegnano le tappe della secessione. Il lungo titolo è già un manifesto: «EnfoCATs. Rimettere a fuoco il processo di indipendenza per un risultato di successo. Proposta strategica».
Secessione a tappeLo strappo non sarebbe immediato. Il «calendario secessionista» passa attraverso due fasi di governo: fino al settembre 2018 un esecutivo di transizione, quindi un governo di indipendenza che arriverebbe fino al settembre 2022, e «che potrebbe dichiarare l’indipendenza il giorno dopo la sua costituzione o il giorno prima della sua dissoluzione».
Escalation di violenzaIl progetto, i cui dettagli sono stati pubblicati dal quotidiano El Pais, cita anche la fatidica Dichiarazione unilaterale di indipendenza (o Dui) attesa da Puigdemont. «Genererà un conflitto che se ben gestito potrà portare a uno Stato indipendente». Non è esclusa una «reazione violenta dello Stato» e un piano di «resistenza». L’aspetto forse più inquietante del piano scoperto a casa di Josep María Jové Llado, il segretario generale della vicepresidenza catalano arrestato lo stesso 20 settembre con l’accusa di sedizione, è il presunto coinvolgimento dei Mossos d’Esquadra (la polizia catalana) e l’aspettativa di una probabile escalation di violenza e di un «conflitto aperto» con Madrid. Il documento scritto da Junts pel Sí preannuncia infatti, fin dalle elezioni del 2015, la reazione del governo centrale, della Giustizia e della Polizia spagnola alla sfida indipendentista, e perfino l’«asfissia economica» che avrebbe stretto d’assedio la Catalogna. Gli strateghi di Barcellona delineano una serie di azioni che conducono «a un conflitto democratico di vasto appoggio cittadino, orientato a generare instabilità politica ed economica, che forzi lo Stato ad accettare le trattative per la separazione o un referendum forzato». Un progetto, è scritto, che conterebbe con l’appoggio fondamentale delle forze dell’ordine catalane: «I capi politici e di polizia dei Mossos sono totalmente coinvolti in questo processo separatista». Una frase che mette ulteriormente in difficoltà il comandante dei Mossos, Josep Lluis Trapero, già inquisito a Madrid per non aver difeso la Guardia Civil in un incidente avvenuto in Catalogna a fine settembre.
Credibilità internazionaleIl piano stabilisce poi la creazione di un comitato strategico e di uno esecutivo. Il primo sarebbe formato dal presidente e dal vicepresidente del Govern catalano e dai leader dei gruppi parlamentari indipendentisti. Il governo di transizione avrà il compito di porre le basi del nuovo Stato e di indirre le elezioni «quando sappia che ci sarà un nuovo Parlamento indipendentista» Il processo a tappe prevede infatti tre pilastri per raggiungere il fine ultimo dell’indipendenza: «creare maggioranze, ispirare fiducia e lavorare con garanzie», con uno sguardo attento alla credibilità internazionale. «Precipitare una dichiarazione di indipendenza senza aver lavorato a fondo su questi valori, la renderebbe poco attrattiva agli occhi della comunità internazionale». Dal che si potrebbe concludere che forse è ancora troppo presto per la tanto attesa e temuta Dichiarazione unilaterale d’indipendenza.

***

ANDREA NICASTRO, CORRIERE DELLA SERA 10/10 – 
È il presidente che ha rimproverato un re. «No, così no Maestà, lei doveva rispettare tutti i catalani». Il politico che vuole spezzare uno Stato per farne un altro. «L’indipendenza è questione di giorni» ripete la notte del referendum. È il sindaco diventato leader, il giornalista che si è ritrovato capo popolo. Sono stati due anni vorticosi questi in Catalogna, e Carles Puigdemont si è sempre seduto sulla poltrona più importante di quella che si aspettava. Forse più anche di quella che avrebbe desiderato. Per Puigdemont questa non è solo una giornata ad alta tensione politica, è la giornata che potrebbe portarlo in prigione, che potrebbe far scattare una rivolta, che potrebbe scatenare quello che nessuno vuole che accada.
Alle 18 il president della Comunità autonoma spagnola di Catalogna si presenterà al plenum del Parlamento regionale, nel palazzo che fu caserma, simbolo del «controllo borbonico su Barcellona», e che si convertirà nell’epicentro della sfida per l’indipendenza da Madrid. Cosa dirà lo sa solo lui e la sua coscienza. «Indipendentista genetico», ma senza ambizioni personali, quasi un Cincinnato. «Sarò il traghettatore verso la Repubblica, ma non il presidente della Catalogna libera. Finito il mio compito lascio la politica, voglio veder crescere le mie figlie, la politica ruba la vita». Potrebbe essere ricordato come un Garibaldi o come un pagliaccio della storia.
Neanche dieci anni fa, Puigdemont era un propagandista del catalanismo, non un teorico, semmai un divulgatore. Era sindaco di Girona (città che più catalanista non ce n’è) quando il leader del suo partito, Artur Mas, ha avuto la strada sbarrata dagli alleati di governo. E allora hanno scelto lui: secessionista purosangue, e di quella formazione a cui, per i giochi di potere politico, spettava la presidenza.
Così è arrivato ad oggi. Seguendo una strada decisa da altri. Lui è l’esecutore zelante. Appena eletto, nel gennaio 2016, scrisse sul suo blog: «Il risultato delle elezioni non lascia dubbi. Ha messo in moto il processo che deve culminare con la proclamazione dell’indipendenza». Tre mesi dopo, disse al Corriere: «Sono stato eletto sulla base di un programma che vuole portare al divorzio della Catalogna dalla Spagna e intendo rispettarlo». Alla vigilia del referendum indipendentista del primo ottobre ripeté: «Saremo coerenti».
Oggi Puigdemont avrà dalla sua parte la piazza, l’intero popolo degli attivisti della secessione che lo spinge al grande passo, a inventare un Paese che non c’è: la Repubblica indipendente di Catalogna. Una piazza che domani sarà ancora gremita, che spera di guardarlo da due schermi giganti pronunciare la formula unilaterale di divorzio da Madrid. Una piazza pronta a restare lì, compatta, nel giardino della Cittadella davanti al Parlamento, per sentir correre il brivido della storia che si muove e, soprattutto, per proteggerlo dall’arresto immediato. Speranza, eccitazione, suggestione.
Dall’altra parte, Puigdemont ha praticamente il resto del mondo. Ha la politica spagnola, dal governo alla sinistra di Podemos passando per centristi e socialisti. Ma anche l’Europa e gli Usa. Tutti gli chiedono di non farlo. Di non pronunciare quella parola: «indipendenza». Qualcuno non vuole che ci si arrivi proprio mai, che la Catalogna è e resterà spagnola. Altri gli chiedono che, almeno, non lo faccia così, oggi, fuori dalla legge, contro le sentenze e le regole di uno Stato democratico europeo, che aspetti, che guadagni tempo e vada a Madrid a trattare una riforma costituzionale su misura per la Catalogna.«Applicherò la Legge del referendum» ha detto sibillino alla sua Tv regionale domenica sera. E’ quello che ripete da settimane. Al Corriere, alla vigilia del referendum aveva ammesso: «Non esiste un bottone indipendentista. È un processo lungo. Dal giorno della proclamazione dell’indipendenza, però, L’Europa non potrà continuare a guardare dall’altra parte». Puigdemont il giornalista che è diventato capo popolo, il capo popolo che si prepara a diventare martire.

***
I 4 SCENARI ELISABETTA ROSASPINA, CORRIERE DELLA SERA 9/10 – 
1. Secessione immediataIl contatore sta girando: domani alle 18 il presidente del governo catalano, Carles Puigdemont, parlerà al parlamento della Comunità autonoma e il mondo ascolterà con il fiato sospeso. La prima ipotesi è che varchi (per la seconda volta in dieci giorni) la linea rossa posta dal governo centrale e proclami la Dui, dichiarazione unilaterale d’indipendenza. La secessione dalla Spagna. Puigdemont applicherebbe strettamente la legge con la quale è stato convocato il referendum del 1° ottobre, illegale per Madrid. Ma la proclamazione, secondo fonti interne al movimento indipendentista, avrebbe il vantaggio di mantenere alta l’attenzione internazionale e frenare la repressione minacciata, in termini bellicosi, dal premier spagnolo Mariano Rajoy. La linea dura e pura è caldeggiata dai vertici del movimento guidato da Jordi Sanchez (Anc) e da Jordi Cuixart (l’associazione Omnium Cultural), per cui la repubblica catalana nasce automaticamente dal risultato del referendum.

2. Prendere ancora tempoCarles Puigdemont potrebbe domani limitarsi a comunicare ufficialmente al parlamento l’esito del referendum e la vittoria dei nazionalisti. Decorrono da quel momento le 48 ore previste dalla legge (catalana) per proclamare l’indipendenza, ma i vertici della Generalitat potrebbero anche cercare di prendere più tempo, magari un paio di settimane, per dare spazio a una mediazione internazionale. Anche se è difficilissimo un compromesso su una condizione senza sfumature possibili quale è l’indipendenza. Nel frattempo continuerebbe a salire la tensione in Catalogna e peggiorerebbero le prospettive economiche della regione con la fuga di altre imprese. Favorita, se non orchestrata almeno in parte, dal governo centrale. La possibilità di una Dui (dichiarazione unilaterale d’indipendenza) “assennata” o, momentaneamente, simbolica, non è esclusa dai partiti nazionalisti moderati. Anche se “i catalani hanno capito che l’indipendenza low cost non esiste” ha osservato Enric Juliana, vice direttore del quotidiano “La Vanguardia”, parlando alla Sesta tv.

3. Rajoy, l’articolo 155 e i MossosLa reazione di Madrid sarà commisurata al discorso dell’aspirante presidente della Repubblica di Catalogna al suo parlamento: per applicare l’articolo 155 della Costituzione, che prevede più o meno il commissariamento della comunità autonoma “ribelle”, Mariano Rajoy, presidente di un governo di minoranza, non ha bisogno dell’appoggio dei rivali socialisti. “Basta infatti una decisione del Senato – ricorda Miguel-Anxo Murado, scrittore e analista politico -, dove il Partido popular ha la maggioranza. Rajoy è sotto pressione, e le manifestazioni degli unionisti lo dimostrano, ma preferirebbe non avere l’intera responsabilità di questo passo, che porterebbe di nuovo una moltitudine di catalani in piazza a protestare o, peggio, nuove violenze”. Ma se il presidente spagnolo abbandona la sua strategia preferita, quella di intervenire il meno possibile, e con la legge d’emergenza avoca a sé il controllo della polizia locale, potrebbe dover fronteggiare un parziale ammutinamento dei Mossos d’Esquadra.

4. L’intervento dell’esercitoPer quanto dure possano essere le contromisure del governo centrale, l’intervento dell’esercito e l’arresto di Puigdemont sono (per ora) eventualità remote. Non soltanto perché umiliare la società catalana sarebbe politicamente un enorme errore e indignerebbe la comunità internazionale, ma anche perché le forze armate, trasformate da Zapatero per renderle più idonee alle missioni di pace all’estero, non sono adatte a operazioni di questo tipo. L’uso della forza potrebbe essere delegato solo alla Guardia Civil e alla Policia Nacional. L’arresto di Puidgemont o di altri membri del governo catalano è molto complicato perché richiederebbe prima, in virtù dello statuto speciale, un ordine del Tribunale supremo o la loro destituzione da parte di quello costituzionale. In entrambi i casi sarebbe chiaro ciò che sta per accadere e la cattura sarebbe ostacolata da migliaia di catalani pronti a fare da scudi umani, attorno al palazzo della Generalitat in pieno centro di Barcellona.

***
FRANCESCO OLIVO, LA STAMPA 10/10 – Non passa un minuto senza che arrivi un appello: «Presidente si fermi». La Spagna e l’Europa guardano con ansia al parlamento catalano. Qui, oggi pomeriggio, il capo della Generalitat, Carles Puigdemont, dovrà dire cosa vuol fare di quei due milioni di voti del referendum: usarli per dichiarare l’indipendenza della Catalogna o metterli sul tavolo per una trattativa con la Spagna. In tanti gli chiedono di frenare, ultimi il segretario socialista Pedro Sanchez («in caso di secessione staremo con il governo») e la sindaca di Barcellona, Ada Colau («non dinamitare i ponti»).  Le conseguenze di quella che, forse per paura di pronunciarne il nome, qui chiamano tutti «Dui» (dichiarazione unilaterale di indipendenza) sono incalcolabili: il premier spagnolo Rajoy non dice esattamente cosa farà, ma stavolta l’immobilismo che lo ha reso celebre e vincente, non sarà la cifra. Due sono gli articoli della Costituzione in ballo: il 155, sospensione parziale dell’autonomia regionale, oppure il più impegnativo 116, uno «stato d’emergenza» che potrebbe prevedere anche l’utilizzo dei militari. Nel Partito popolare i toni sono durissimi, il dirigente Pablo Casado è arrivato a evocare le tragedie del passato: «Puigdemont non faccia come Companys», ovvero il presidente della Generalitat che proclamò l’indipendenza nel 1934, fu arrestato dalla Repubblica spagnola e poi fucilato sul Montjuic da Franco nel ’40.   
Ma Puigdemont riceve minacce e pressioni anche nel suo campo. La voce, sempre più forte, di una dichiarazione in parlamento senza conseguenze pratiche, agita l’ala dura dell’indipendentismo. Si parla di una «Dui» che sposti a sei mesi l’entrata in vigore della legge di transitorietà, viene posto come esempio il modello sloveno (Lubiana votò nel 1990 e poi attese di essere riconosciuta dai Paesi europei). Ma la via dell’indipendenza progressiva, con la previsione di avviare un processo costituente, non accontenta né i secessionisti, né il governo spagnolo («Non ci possono dire che infrangeranno la legge fra sei mesi»). La Cup, movimento dell’ultra sinistra, teme che l’oste metta acqua al vino: «L’indipendenza è o non è». «Ci sarà la Dui», conferma Esquerra Repubblicana, il partito del vicepresidente catalano, Oriol Junqueres. Ma l’assedio non è soltanto a parole, oggi il parlamento verrà circondato da una manifestazione convocata dagli indipendentisti e un’altra degli unionisti, circostanza che crea inquietudine, anche fisica, nei parlamentari dell’opposizione (i socialisti stanno cercando un bus scortato).  L’incertezza regnerà fino all’intervento del presidente in Parlamento previsto per le 18. In teoria, si tratta solo di un dibattito, senza voto. Ma l’opposizione teme il colpo di mano, anche per la complicità con il governo della presidente dell’assemblea Carme Forcadell. L’ansia che si vive in città aumenta. Ad aggravarla è la lista sempre più lunga delle aziende che spostano la propria sede fuori dalla Catalogna, al riparo da pericolose avventure: ieri è stato il turno di Abertis, il gruppo che controlla le autostrade, oggetto di attenzioni da parte dell’italiana Atlantia (oggi il via libera della Consob spagnola). In attesa della fine della trattativa, Abertis fugge a Madrid. Cattive notizie anche dall’estero: «Non riconosceremo una Catalogna indipendente», ha dichiarato il ministro francese degli Affari europei Nathalie Loiseau. Sul palazzo della Generalitat continua a volare, molto basso, un elicottero della polizia, «domani finalmente atterra» dice qualcuno.