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 2017  ottobre 09 Lunedì calendario

In morte di Aldo Biscardi

Aldo Grasso per il Corriere della Sera
È morto Aldo Biscardi, onore ad Aldo Biscardi. Anche se negli anni ho scritto su di lui giudizi poco lusinghieri, anche se una sua bugia, o cialtronata, mi ha fatto passare momenti poco simpatici. In fondo è anche stato premiato dalla vita: ha fatto in tempo a vedere la svolta tecnologica nel calcio e i primi passi della VAR, lui che della moviola in campo aveva fatto negli ultimi anni un vero e proprio tormentone.
Biscardi è Il processo del lunedì, 1980. A poco più di un anno dalla sua nascita, Rai3 (allora Terza rete), ancora in cerca di una precisa caratterizzazione e di una propria audience, scoprì una dimensione dello sport ancora inesplorata: il «calcio parlato». Il Processo consacrò in uno spazio istituzionale le polemiche e le discussioni da bar, trasferendole in una fittizia aula di tribunale in cui le diverse parti accusavano, arringavano, difendevano e finivano immancabilmente per litigare, fomentate e manovrate dall’enfasi verbale dell’inappellabile giudice Biscardi, scuola Sandro Curzi. Era nato il trash quando questa parola non era ancora di moda. Protagonisti del «dibbattito» erano personaggi sportivi, del giornalismo, dello spettacolo, della cultura. C’era persino Gianni Brera. C’era la scheda di Carlo Nesti.
L’importante è durare. Non come, ma quanto. Il Processo del lunedì di Biscardi è durato più trent’anni (Rai3, poi Tele+, poi TMC, poi 7 Gold, più varie tv locali) ed è stato persino celebrato con articoli che, fingendo di prenderne le distanze, hanno finito per sancirne l’ominosa grandezza.
In questo senso, Biscardi è stato un eroe del nostro tempo. Anni fa, quando eravamo più giovani e ingenui, eravamo portati a credere che il Processo fosse un modo plebeo e sgangherato di raccontare il calcio. Forse era così, forse. Ma perché ci sia un sopra e un sotto, bisogna davvero che ci sia separatezza, che qualcuno si mostri migliore di un altro. E invece, per molti anni, il Processo è apparso ai più come una trasmissione guida, il solo modo per raccontare il calcio.
Nel 2004 è intervenuto anche il tribunale di Roma per sancire la natura vera della trasmissione. Archiviando una querela presentata dall’Associazione Arbitri nei confronti del Processo, il pubblico ministero sostenne che nel programma «la credibilità obbiettiva delle notizie riportate e fatte oggetto di dibattito è riconosciuta assai bassa... Ne deriva che la credibilità dell’informazione offerta e la conseguente attitudine di questa ad essere, in ipotesi, idonea a ledere l’altrui reputazione sono oltremodo inconsistenti». Traduzione: siccome si sparano delle fanfaluche è inutile prendersela tanto. Da allora molti programmi sportivi si sono sentiti autorizzati a seguire questo modello.
Biscardi è stato molto bravo a inscenare psicodrammi nazionali, un formidabile attore. È stato comunista ma anche grande amico di Berlusconi; è stato moggiano ma anche sodale degli accusatori di Moggi; è stato uno che stenta a capire le cose ma anche uno che ha capito tutto. La sua forza? È stato l’ultimo erede dell’istrione itinerante, il comico dell’arte che recita «a soggetto» lasciando a sé a e a suoi comprimari ampi spazi d’improvvisazione, pur nella fissità di fondo. L’importante è durare, come suggeriva Ennio Flaiano: seguendo le mode, tenendosi al corrente, sempre spaventati di sbagliare, pronti alle fatiche dell’adulazione, impassibili davanti a ogni rifiuto, feroci nella vittoria, supplichevoli nella sconfitta. Un vero italiano.
E la bugia che mi riguarda? Nel 2003, Biscardi inaugurò una rubrica di critica televisiva: Il comandante Stopardi (alla romana: sto par di...). Per darle forza, mise in giro la voce che «un grande critico» redigeva per lui opinioni sui programmi sportivi e perché l’allusione fosse chiara arrivò persino a mostrare un mio libro per un’intera trasmissione o a citare un pezzo scritto per il Corriere spacciandolo come una cosa scritta apposta per il Processo. Smentii pubblicamente la notizia e la cosa parve finire lì, in una bolla di sapone. Così non fu. Ai tempi di Calciopoli, in un’intercettazione, Moggi si rivolse in toni perentori a Biscardi perché mi togliesse la rubrica e quello rispose subito di sì. Altra smentita, altra minaccia di querele, ma finire come «intercettato» sui giornali per una notizia inventata (la classica fake news) non è cosa piacevole.
È sempre stato difficile muovere delle critiche a Biscardi, con le buone o con le cattive: il suo genio da finto tonto sapeva sempre volgere a suo favore ogni rimprovero. Ci abbiamo provato con le citazioni colte, con l’ironia, con il fioretto: niente da fare, ha sempre vinto lui. Riconosco che Biscardi è stato l’inventore del calcio parlato. Non importa se a spese della grammatica.

Tony Damascelli per il Giornale
Adesso prevedo il corteo. Le condoglianze. Il cordoglio. La veglia e il ricordo sofferto. Lo hanno insultato per decenni, lo hanno ricoperto di malignità e di ingiurie, lo hanno evitato come fosse un appestato. Oggi fingono pianto e commozione. Aldo Biscardi si prende l’ultimo applauso dagli amici di un tempo e dai codardi contemporanei. Se ne va lui ed è arrivata la moviola in campo, come l’ultima sigaretta del condannato. Un regalo atteso da una vita, prima di salutare il meraviglioso pubblico. Siamo stati tutti Aldo Biscardi, anche quelli che lo hanno dileggiato, dico dei critici televisivi superiori a tutto e a tutti, inferiori a se stessi. Siamo stati Aldo Biscardi per un quarto d’ora al giorno, discutendo di un calcio di rigore, di un fallo laterale, di una parata all’ultimo secondo. Bar, uffici, caserme, redazioni, trasformate in aule di tribunale per un processo, un «prociesso», quello del Lunedì, quello di Biscardi. Cronista d’astuzia, Biscardi non ha mai vantato o esibito cultura o erudizione, ha badato sempre al sodo, da cronista aveva l’orecchio migliore di chiunque altro. Previa mancia, si faceva assegnare, dal portiere dell’albergo, la stanza vicina a quella dell’allenatore della squadra più importante, alla vigilia della partita calda, fosse pure la Coppa del mondo. Così fece con Feola, gestore del Brasile mondiale del ’58 in Svezia. Don Vicente era un brasileiro di origini cilentine, i genitori erano salernitani di Castellabate e per Aldo di Larino, area di Campobasso, fu come avere un socio di redazione, un inviato gratuito a disposizione: gli bastava appoggiare l’orecchio al muro e poteva ascoltare qualunque elucubrazione del gigantesco e «gordo» Feola, in mezzo campano e mezzo portoghese. Nacquero così gli «sgub» di Aldo, giornalista di Paese Sera, rosso di capello e di idee politiche. Ma, per astuzia, seppe avvicinare l’orecchio anche al muro di Berlusconi, dei democristiani, dei missini, dei comunisti, della qualunque potesse alzare il livello di attenzione e di ascolti e di share. «Parlate in tre o quattro alla volta, altrimenti non si capisce nulla», era questo uno dei modi suoi di mischiare le carte del mazzo e di vincere la partita. Dalla carta stampata alla Rai, vicedirettore e numero 1 dello sport di chiacchiera, sbracato per alcuni ma oggetto del desiderio per molti. Sfilarono davanti a lui i migliori di sempre, da Carmelo Bene a Vittorio Sgarbi, da Gianni Brera a Vanzina e Squitieri, Andreotti e Arpino, giornalisti di ogni dove, direttori e semplici reporter di marciapiede, il processo è stato il brodo primordiale di Porta a Porta ma più verace, non fintamente salottiero come Vespa cerca e riesce, però caciarone e provocatorio, con qualche bella femmina a fianco di Aldo, il quale, scaramantico ai massimi, seguiva un rito prima di ogni puntata che qui non posso svelare per rispetto. Sapeva di football come questo veniva studiato e raccontato al tempo, l’enfasi stava nella sostanza e non nell’affabulazione, serviva la polpa, cioè le notizie che «fioccavano come nespole» mentre la squadra «si infilava negli incunaboli della difesa» e, ci fu un tempo, in cui si arrivò alla fase ieratica, addirittura con un appello: «A nome di tutta l’umanità che venga magari catturato anche durante il Processo quell’assassino di Bid Labben!!». Ho storpiato apposta, perché Aldo giocava con se stesso, con le parole sgrammaticate che diventano, si direbbe oggi, virali. Accettò anche, in cambio di denaro ovviamente, una autoparodia per lo spot della De Agostini: il rettore magnifico gli consegnava la laurea complimentandosi per la conoscenza della lingua inglese migliore di quella italiana e Aldo ringraziava con un «Denghiù». Nel ’93 provocò l’ira di Berlusconi che volle intervenire in diretta, al processo su Rai 3, a proposito della legge Mammì e di quello che, in trasmissione, veniva commentato. Berlusconi con tono di voce alterato definì il Processo «diseducativo e mistificatore» e Biscardi «nipotino di Stalin», l’invasione del numero 1 del Milan provocò la consueta reazione della sinistra ma fu Enrico Mentana, al tempo in Fininvest, a supportare la tesi del presidente. Si arrivò, in seguito, al compromesso storico, tra i due nacque un’amicizia forte, Aldo acchiappò l’umore del presidente milanista che rispondeva a chiamata, intervenendo puntualmente al telefono durante le puntate più concitate e regalò la bomba di Kakà «rossonero a vita». Era questo il vero «sgub» di Biscardi, un croupier che ti invitava al gioco ma faceva vincere sempre il banco. Vennero dieci, cento mille processi calcistici, copie fasulle o tentativi riusciti, dalla più piccola delle emittenti locali alle grandi tivvù satellitari, processi travestiti e spacciati come dibattiti profondi e seri, a differenza del casino biscardiano ma, in verità, spettacoli bluff di teste ingessate. Calciopoli fu fatale a Biscardi. I signori, duri e puri, che gestivano La7 lo misero alla porta in minuti due, Aldo mise in valigia il suo giocattolo portandolo in altre reti, cosiddette minori. Se ne è andato in silenzio. Oggi è lunedì, il giorno di Aldo.

Luciano Moggi per Libero
Era il tempo in cui l’Italia vinceva i Mondiali, in cui le nostre squadre vincevano Champions e arrivavano dall’estero fior di campioni, felici di giocare nel campionato allora definito «il migliore al mondo». Era anche il tempo in cui ci si poteva permettere di fare ironia su questo sport senza nulla togliere al comune interesse e al regolare svolgimento del campionato. 
Aldo Biscardi, scomparso ieri a Roma a 86 anni, lo aveva capito prima di tutti, e per questo si era inventato il teatrino che aveva preso da lui il nome di Processo di Biscardi, che è durato nel tempo proprio perché la gente lo ha sempre considerato un programma scevro da ragioni politiche. Era uno show che si guardava per puro divertimento. Aldo voleva «la moviola in campo» e, curioso, ci ha lasciato subito dopo l’avvento del Var. In ogni caso non si era mai posto il problema di dover influenzare l’opinione pubblica, né poteva d’altra parte influenzarla proprio per il suo carattere di burlone. Pur capendo di calcio come pochi, riusciva a trasmetterlo ai telespettatori anche grazie ai celebri sfondoni tipo sgub, da lui inventati non certo perché non conoscesse la lingua italiana. 
Il Processo di Biscardi era nato al tempo dei cosiddetti mecenati che conducevano le squadre con le risorse economiche di cui disponevano. E lui in quel tempo era diventato il paladino di quei grandi personaggi che guidavano il calcio, che sapeva divertire con la sua ironia che non sconfinava mai nella strafottenza di chi, avendo un mezzo a disposizione, poteva anche trasformarsi in accusatore: non era nel suo stile. Quando poi il calcio è cambiato, quando le società sono diventate Spa, quando sono entrati in ballo i diritti tv e i tanti interessi che stanno condizionando tutt’ora questo sport, quasi avvelenandolo, lui e la sua trasmissione sono andati avanti ugualmente, perché continuavano a seguirlo gli innamorati del calcio che fu. Era un calcio genuino che Aldo ha saputo portare avanti in un tempo in cui il romanticismo prevaleva sull’astio sia in chi seguiva questo sport che in chi lo raccontava. 
Chi vi scrive è stato un grande amico di Aldo e piange la sua dipartita con il sentimento di chi ha perso un familiare. Ero spesso ospite della sua trasmissione, perché sapevo che a lui faceva piacere tanto quanto lo facesse a me: eravamo due persone che volevano divertirsi e divertire. Ricordo quando durante una trasmissione mi chiese di non andare in video ma di sostare in sala regia. Sul momento non riuscii a capirne la ragione e neppure la chiesi, perché ero curioso di conoscere gli sviluppi. Disse Aldo: «Siamo riusciti a rintracciare Moggi all’aeroporto di New York, ci dirà adesso gli sviluppi del calciomercato della Juve», e gli parlai stando a dieci metri da lui. Durante Calciopoli lo accusarono di aver preso in regalo l’orologio che gli regalai. Chi lo ha fatto non conosce il significato della parola «amicizia»: a Natale eravamo soliti scambiarci dei doni e i suoi quasi sempre valevano più dei miei. D’altra parte non c’erano secondi fini come invece hanno cercato di dimostrare gli accusatori: la sua trasmissione era considerata tutto tranne che influente e la mia squadra era talmente forte da non avere bisogno di aiuti. 
Le telefonate a Baldas erano fatte più per colorire la trasmissione che per avere favori. In proposito Biscardi per dare loro più importanza aveva anche inventato «la patente a punti» per punire gli arbitri in caso di pessimo arbitraggio. Figurarsi quanta considerazione potessero avere queste sue trovate: gli arbitri erano seguiti da un commissario e solo la sua relazione aveva valore. Eppure per aggravare questi comportamenti chi indagava ha cercato di dare più importanza al Processo, gestito già da tv private, piuttosto che a quelle ben più influenti dei grandi colossi, al punto che l’inquirente, durante il processo (quello vero), ha anche detto senza vergogna di non sapere che Berlusconi fosse proprietario di Mediaset. Caro Aldo, ci siamo divertiti e in coscienza sappiamo di non aver mai reso l’interesse di nessuno, avevamo solo colpa di essere i più bravi, tu nel tuo lavoro e io nel mio. Arrivederci Aldo, speriamo in un mondo migliore di questo.