il Giornale, 10 ottobre 2017
«Siamo diventati poeti e cantori. Così abbiamo salvato il bizantino»
Calimera (Lecce) Il paese che si chiama «Buongiorno» dista mezz’ora di macchina da Lecce ed è la porta di una piccola Grecia nascosta, circoscritta in una manciata di Comuni uno in fila all’altro. Buongiorno, Calimera: il benvenuto è già contenuto nel nome del primo paese di questa sorprendete isola linguistica, la Grecìa salentina, con l’accento sulla i, dove gli anziani parlano un idioma che non è greco moderno e nemmeno esattamente l’antico: è il griko, perché loro, si raccontano, sono i veri «ultimi bizantini d’Italia».
Gli arrivi dalla Grecia furono costanti nei secoli, ma le prime testimonianze certe di colonizzazione risalgono al settimo secolo dopo Cristo. Ed è in quell’epoca che si è radicata la lingua che sopravvive da milletrecento anni.
Per sentire questa parlata musicale in cui si trovano tracce della lingua di Erodoto, dove il cuore è cardia e tu sei esù, bisogna fermarsi nella piazza principale di Calimera. Davanti al circolo di lettura del paese, in posizione di sentinella sulle sedie di strada che non si trovano più se non nei piccoli paesi del sud Italia, gli ultimi griki stanno decidendo se sia già l’ora di giocare a carte o se sia meglio bere un caffè. Sopra di loro un cielo in movimento. Ammassi di nuvole giovani corrono in un vento che lava l’aria, e che loro chiamano anemo.
La piazza è relativamente moderna, ma guardando verso il centro storico si scorge una sequenza di piccole case bianche. Più in là, file di ulivi e muretti a secco conducono alle altre enclavi della Grecìa. Mario e Antonio raccontano il loro bilinguismo particolare: «Quando giochiamo a carte, noi sempre in griko parliamo. E anche quando ci dobbiamo sfottere». Uso triviale a parte, questa è la lingua di un grande miracolo, un idioma custodito solo con l’oralità: parlato dai nonni ai bambini, e da quei bambini ai loro nipoti, armonioso come nessuno, non assimilabile al greco che ora si parla ad Atene, non traducibile nell’alfabeto di Omero. Per questo unico al mondo.
Il griko è stata la prima lingua della vita per la maggior parte dei frequentatori del Circolo di lettura di Calimera: «A sei anni racconta Mario, emigrato per trentacinque anni in Svizzera, come tanti paesani in prima elementare non sapevamo una parola di italiano. I nostri nonni parlavano solo griko. E lo stesso i nostri genitori. Era una lingua solo parlata. Non si scriveva mai. L’analfabetismo era al 70-80 per cento». Erano gli anni a cavallo della Guerra. A scuola «ci sentivamo diversi perché non parlavamo l’italiano. Nelle case del sindaco e del farmacista era invece proibito parlare il griko. Le maestre ci dovevano insegnare le lettere con le aste». Le due lingue creavano un abisso tra le classi sociali e i più piccoli non riuscivano nemmeno a comunicare tra loro. Nelle scuole si arrivò addirittura a bacchettare sulle dita i bambini a cui scappava una parola in griko. Mentre adesso sulla tutela della lingua ellenica di Puglia si imbastiscono leggi e si cercano strade per salvarla dall’estinzione.
Proprio per non farla morire, alcuni appassionati sono diventati poeti e cantautori. Il primo a intuire che quel segreto linguaggio dovesse essere catalogato per farlo sopravvivere alla modernità fu il signor Vito Domenco Palumbo: nei primi anni del Novecento girò di casa in casa per trascrivere i principali vocaboli della parlata degli anziani. La lingua dei bizantini si insegna ora a scuola, ma «in forma di canzoncine», sospirano i vecchi griki. L’isola linguistica è infatti inserita tra le minoranze da tutelare dalla legge 482 del ’99. È comunque qualcosa, o molto più di niente, ma la vera memoria è affidata ai poeti. Come Cici Cafaro di 94 anni. «L’altra sera alla festa della taranta ha anche cantato!», informa Tonuccio riferendosi ai festeggiamenti di san Brizio, il patrono di Calimera.
Passano pochi minuti e si materializza Cici, il poeta contadino. A Calimera le voci, grike o italiane che siano, corrono veloci, e qualcuno è andato a chiamarlo. Le sue poesie sono appese negli ospedali di tutta la provincia, si riempie di orgoglio: a Maglie, a Tricase. A Lecce, i dottori che lo hanno visitato sono rimasti incantati, e anche nella sala di attesa del medico della mutua non mancano i versi di Gigi Cafaro. «Le maestre ci dicevano che il griko degrada le persone ricorda – Ma io ho iniziato a scrivere in tutte e due le lingue. Se vieni a casa sai quanti manoscritti tengo? Ottanta».
Cafaro il poeta è riuscito addirittura a gemellarsi da solo con un paese greco, Kalamata. «La nostra Festa dei lampioni l’ho portata in Grecia. Mi hanno trattenuto là venti giorni». Sequestrato in terra madre come un figlio restituito dal mare. E gli scambi continuano sempre: arrivano addirittura pullman da Otranto per le visite culturali dei parenti di Grecia ai griki salentini.
Nella Casa museo della civiltà contadina e della cultura grika di Calimera si comprende qualcosa in più di questo legame di codici espressivi con l’Ellade. Nei dintorni del paese è stata trovata una Pietra forata, un monolite calcareo con un foro al centro di 30 centimetri, ora conservato nella piccola chiesa dedicata a San Vito. La pietra forata era già presente nei culti neolitici come simbolo dell’utero della terra, dea madre della fertilità, ma è ben radicata nella tradizione dell’Antica Grecia, dove si trovano esemplari anche a Creta e a Cipro. Nella chiesa di San Vito tutti i lunedì dell’Angelo gli abitanti di Calimera e dintorni celebrano i riti pagani dedicati alla fertilità passando attraverso la pietra sacra al ritmo di canti e balli griki. Vito Bergamo, che accompagna nella visita al museo, mostra l’album con le foto di Pierpaolo Pasolini, che venne qui a Calimera per studiare la lingua della Grecia salentina «quindici giorni prima di morire».
Custode delle tradizioni e dei suoni bizantini è l’associazione Parco Palmieri di Martignano, che ogni anno organizza una rassegna di cinema e laboratori. In uno spot documentario un turista tenta di raggiungere la Grecìa dalla costa con l’aiuto di un navigatore satellitare che parla griko. Quando arriva, chiede informazioni a una bambina che gli dice «I don’t under stand you». «Non vogliamo illudere nessuno spiega il presidente, Pantaleo Rielli chi parla griko é una minoranza. I turisti non devono pensare che arrivando qui, sentiranno tutti parlare una lingua speciale». La lingua lo è, speciale, ma il griko non è un prodotto da spacciare come marchio local: piuttosto è una rarità, un’eccezione linguistica, da proteggere.
L’anomalia di Calimera e dei paesi vicini è che un idioma antico si è mantenuto vivo nei secoli nonostante il territorio sia pianeggiante e ben raggiungibile dalle città, certamente non isolato. Il documentario Evò ce Esù, prodotto da Parco Palmieri, ha attirato una grande attenzione nei festival nazionali e racconta perfettamente questo fenomeno. «Qui il griko si è conservato perché gli arrivi dalla Grecia sono stati continui racconta in Evò ce Esù il direttore del museo di Calimera, Silvano Palamà – Non arrivavano da conquistatori, ma spesso in fuga, fino all’ ondata di monaci dalla Cappadocia».
Rocco de Santis è cantautore griko, di Sternatia, il paese dove la lingua greca si può sentir parlare più frequentemente rispetto ai borghi imparentati. La tradizione musicale è solida e alimentata continuamente. Chitarra, tamburelli, filarmonica, gli strumenti più utilizzati.
Rocco sogna spesso in griko, soprattutto quando nella sua mente si compongono situazioni familiari. «Mio padre era poeta, in casa si parlava sempre griko». Di suo fratello Gianni, che con lui componeva e suonava, si diceva che sapesse trasformare una lingua invecchiata in «parole usate per il presente». «Il griko è la lingua dell’anima, del cardia», rispondono tutti gli ultimi parlanti attivi. Ed è questa, più della grammatica, la forza da trasmettere ai bambini di Grecìa.
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Dove batte la lingua degli antenati stranieri
Non sono isole, ma è come se lo fossero. Non le circonda il mare ma le separa da tutto il resto un idioma che si parla solo lì e non altrove. Una lingua diversa dall’italiano e da qualsiasi dialetto, che non dipende dalle nuovi migrazioni, ma custodisce gli echi di antiche colonizzazioni, fughe, conquiste, partite da migliaia di chilometri di distanza. Due paesi della Puglia dove si parla francoprovenzale, uno della Calabria dove la lingua è l’occitano, sei borghi ancora della Puglia che conservano un greco vicino al lessico dei bizantini, il griko. Una minuscola comunità di Toitschu in Val d’Aosta. Infine un unico Comune in Abruzzo dove la lingua antica ma ancora in voga è l’albanese, diffusa invece in 33 Comuni calabresi. In questi paesi la cultura di luoghi lontani si è arroccata in piccole comunità, borghi di poche centinaia o migliaia di abitanti, che proteggono quella stranezza, quell’originalità di un idioma raro e fragilissimo.
Nelle scuole insegnanti appassionati cercano di far resistere la memoria grazie alla legge 482 del ’99 sulle minoranze linguistiche, ma andando via, gli anziani si portano dietro quell’oralità imparata dai nonni e dai nonni dei nonni, e così i numeri dei parlanti gli antichi idiomi diventano sempre più irrisori. L’Unesco inserisce due idiomi rari in Italia tra le «lingue drasticamente a rischio d’Europa»: il guardiolo-occitano di Guardia Piemontese (14esimo posto nella classifica del rischio), meno di 350 parlanti, e il Toitschu di Issime, in Val d’Aosta (nono posto, 200 parlanti). Ma anche il griko salentino viene considerata lingua in pericolo. Il club Unesco di Zollino nel Salento ha da poco chiuso, ma un’associazione e alcuni cantautori resistono nel conservare la lingua greca.
Guardia Piemontese, in provincia di Cosenza, ha un nome scollegato dal territorio a cui appartiene: 1800 abitanti, il paese si trova sul versante tirrenico della provincia di Cosenza a 500 metri di altitudine. La lingua occitana, gallica, è saldamente intrecciata a una storia di eccidi e di coraggio: nel sedicesimo secolo i valdesi che avevano fondato il paese in fuga dal Piemonte furono sterminati in un intervento della Santa Inquisizione.
La lingua occitana fu vietata, ma l’idioma proibito continuò ad essere parlato segretamente dai sopravissuti sorvegliati a vista dai frati domenicani che ne dovevano verificare la conversione al cattolicesimo. E così è stato preservato dalla sparizione e oggi i nomi delle vie sono nelle due lingue e il Comune è gemellato con la Val Pelice del Piemonte, da cui è stato portato un masso di granito che è diventato un monumento. L’occitano di Guardia si chiama guardiolo, e fino a qualche decennio fa ne esistevano addirittura tre diverse declinazioni legate ai diversi quartieri.
A Celle di San Vito e Faeto e Puglia cerca di resistere il francoprovenzale, una sorta di franco-pugliese in cui si riconosce la cadenza del Tacco d’Italia ma la cui grammatica è molto simile a quella oltrealpina. I due Comuni si trovano tra le provincie di Foggia, Benevento e Avellino. Area spartiacque a 800 chilometri di distanza dalla zona linguistica provenzale chiamata della Daunia Arpitana. Fino agli anni ’80 esistevano alcuni parlanti monolingui, che si esprimevano solo in francoprovenzale.
L’origine della lingua madre può essere ricondotta all’invio nel Medioevo di soldati angioini che poi si sarebbero stabiliti nella zona. D’estate, da ormai alcuni anni, vengono organizzati corsi di lingua francoprovenzale in collaborazione con l’Ufis (università francofona dell’Italia del sud).
Della Grecìa salentina, isola chiamata ellenofona, fanno parte formalmente dodici Comuni, ma solo in sei si parla ancora griko (Calimera, Sternatia, Martignano, Martano, Castrignano de’Greci, Corigliano d’Otranto). La lingua dei nonni è inserita nel programma scolastico, ma la parlano abitualmente ormai solo i nati prima degli anni Cinquanta.