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 2017  ottobre 10 Martedì calendario

Puigdemont, il giornalista zelante scelto a tavolino come capopopolo

BARCELLONA È il presidente che ha rimproverato un re. «No, così no Maestà, lei doveva rispettare tutti i catalani». Il politico che vuole spezzare uno Stato per farne un altro. «L’indipendenza è questione di giorni» ripete la notte del referendum. È il sindaco diventato leader, il giornalista che si è ritrovato capo popolo. Sono stati due anni vorticosi questi in Catalogna, e Carles Puigdemont si è sempre seduto sulla poltrona più importante di quella che si aspettava. Forse più anche di quella che avrebbe desiderato. Per Puigdemont questa non è solo una giornata ad alta tensione politica, è la giornata che potrebbe portarlo in prigione, che potrebbe far scattare una rivolta, che potrebbe scatenare quello che nessuno vuole che accada.
Alle 18 il president della Comunità autonoma spagnola di Catalogna si presenterà al plenum del Parlamento regionale, nel palazzo che fu caserma, simbolo del «controllo borbonico su Barcellona», e che si convertirà nell’epicentro della sfida per l’indipendenza da Madrid. Cosa dirà lo sa solo lui e la sua coscienza. «Indipendentista genetico», ma senza ambizioni personali, quasi un Cincinnato. «Sarò il traghettatore verso la Repubblica, ma non il presidente della Catalogna libera. Finito il mio compito lascio la politica, voglio veder crescere le mie figlie, la politica ruba la vita». Potrebbe essere ricordato come un Garibaldi o come un pagliaccio della storia.
Neanche dieci anni fa, Puigdemont era un propagandista del catalanismo, non un teorico, semmai un divulgatore. Era sindaco di Girona (città che più catalanista non ce n’è) quando il leader del suo partito, Artur Mas, ha avuto la strada sbarrata dagli alleati di governo. E allora hanno scelto lui: secessionista purosangue, e di quella formazione a cui, per i giochi di potere politico, spettava la presidenza.
Così è arrivato ad oggi. Seguendo una strada decisa da altri. Lui è l’esecutore zelante. Appena eletto, nel gennaio 2016, scrisse sul suo blog: «Il risultato delle elezioni non lascia dubbi. Ha messo in moto il processo che deve culminare con la proclamazione dell’indipendenza». Tre mesi dopo, disse al Corriere : «Sono stato eletto sulla base di un programma che vuole portare al divorzio della Catalogna dalla Spagna e intendo rispettarlo». Alla vigilia del referendum indipendentista del primo ottobre ripeté: «Saremo coerenti».
Oggi Puigdemont avrà dalla sua parte la piazza, l’intero popolo degli attivisti della secessione che lo spinge al grande passo, a inventare un Paese che non c’è: la Repubblica indipendente di Catalogna. Una piazza che domani sarà ancora gremita, che spera di guardarlo da due schermi giganti pronunciare la formula unilaterale di divorzio da Madrid. Una piazza pronta a restare lì, compatta, nel giardino della Cittadella davanti al Parlamento, per sentir correre il brivido della storia che si muove e, soprattutto, per proteggerlo dall’arresto immediato. Speranza, eccitazione, suggestione.
Dall’altra parte, Puigdemont ha praticamente il resto del mondo. Ha la politica spagnola, dal governo alla sinistra di Podemos passando per centristi e socialisti. Ma anche l’Europa e gli Usa. Tutti gli chiedono di non farlo. Di non pronunciare quella parola: «indipendenza». Qualcuno non vuole che ci si arrivi proprio mai, che la Catalogna è e resterà spagnola. Altri gli chiedono che, almeno, non lo faccia così, oggi, fuori dalla legge, contro le sentenze e le regole di uno Stato democratico europeo, che aspetti, che guadagni tempo e vada a Madrid a trattare una riforma costituzionale su misura per la Catalogna.
«Applicherò la Legge del referendum» ha detto sibillino alla sua Tv regionale domenica sera. È quello che ripete da settimane. Al Corriere, alla vigilia del referendum aveva ammesso: «Non esiste un bottone indipendentista. È un processo lungo. Dal giorno della proclamazione dell’indipendenza, però, L’Europa non potrà continuare a guardare dall’altra parte». Puigdemont il giornalista che è diventato capo popolo, il capo popolo che si prepara a diventare martire.