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 2017  ottobre 10 Martedì calendario

La taglia dell’acciaio e il Pil dell’Italia

L’Ilva è una tessera importante della struttura produttiva italiana, per i rapporti di fornitura che detiene con la grande industria dell’automotive e dell’elettrodomestico le sorti dello stabilimento di Taranto alla fine riguardano una buona parte del sistema delle imprese e il nostro Pil. Rimettere del tutto in carreggiata l’Ilva, dunque, rientra non solo nell’interesse delle aziende che sono subentrate nella gestione e i lavoratori coinvolti dai processi di riorganizzazione. L’obiettivo finora perseguito (e centrato) dagli ultimi governi è stato quello di evitare che Taranto capitolasse, che alla fine – come sembrava inevitabile – venisse chiusa per il combinato disposto di crisi societaria, problemi ambientali e interventi del Tribunale. Anche la gara che ha visto il successo della cordata guidata dal colosso ArcelorMittal, pur con tutti i ritardi che ha comportato, è servita ad affermare la continuità dell’esperienza Ilva e la sua considerazione all’interno del sistema industriale italiano. Ricordo tutti questi passaggi solo per sottolineare come muovendosi sotto il segno di uno stringente pragmatismo e tenendo i nervi saldi sia stato possibile arrivare a questo punto. Non era affatto scontato e in tanti giocavano contro.
Lo stesso metodo «freddo» però va applicato adesso alla nuova fase che si è aperta e che si presenta con due scottanti punti interrogativi: la taglia produttiva dell’impianto pugliese e il numero dei dipendenti. Oggi Taranto a causa delle prescrizioni ambientali indicate dalla magistratura non può andare oltre i 6 milioni di tonnellate di acciaio prodotto. Sono attivi infatti solo i tre piccoli altoforni mentre il più grande, l’Afo 5, necessita di un processo di cosiddetto revamping che ha bisogno di almeno un anno e mezzo per giungere a conclusione. Ora è corretto sostenere che per quella produzione (i 6 milioni) possono essere sufficienti 6 mila operai diretti ma restano fuori dal computo tutte le attività collaterali, quelle che vanno dalla manutenzione alla formazione e persino alla vigilanza. Tutti servizi che in un mega-impianto come Taranto richiedono estrema attenzione e perizia per evitare di lasciare sul campo una lunga scia di incidenti sul lavoro. È difficile dunque che queste lavorazioni indirette possano essere affidate a ditte esterne o magari a cooperative, è necessaria infatti una conoscenza della fabbrica che non può essere improvvisata. Se si applica quel metodo pragmatico di cui sopra si può certamente ragionare sulla possibilità di organizzare in maniera diversa il rapporto tra lavorazioni dirette e servizi, ma è difficile prescindere – anche volendo – dalle professionalità esistenti. Insomma lavorando per rispondere a queste domande c’è, strada facendo, anche la possibilità di ragionare sulla tenuta dei livelli occupazionali. Non si può pensare che il prezzo da pagare al salvataggio dell’Ilva sia di nuovo la creazione di enormi sacche di cassa integrazione con durata decennale.
Il secondo punto che va analizzato a mente fredda riguarda il futuro dello stabilimento. Pensare che Taranto possa recuperare la sua efficienza e nel tempo accrescere la produzione previo il recupero dell’altoforno 5 non è affatto azzardato, né una formula di facile patriottismo siderurgico. È una prospettiva di politica industriale più che sensata, permetterebbe di recuperare occupazione e di conseguenza se il piano industriale di ArcelorMittal la facesse propria contribuirebbe a creare la necessaria soluzione «fredda».