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 2017  ottobre 10 Martedì calendario

La guerra diplomatica Usa-Turchia fa crollare la lira turca

La lira turca ha perso fino al 6% nell’overnight trading per poi ridimensionare le perdite a fine giornata di ieri, al 2,6% contro il dollaro (toccando quota 3,705), sull’onda della “guerra dei visti” scoppiata tra la Turchia e gli Stati Uniti d’America. Una pesante scivolata valutaria che ha messo in agitazione gli investitori stranieri che detengono bond turchi per una quota che era tornata a toccare il 23% del totale dei titoli pubblici emessi da Ankara, pari a 32,5 miliardi di dollari, il punto più alto dall’agosto del 2015, secondo Deutsche Bank.
Ma il ritorno della volatilità della lira turca ha rimesso in discussione la remunerazione dell’investimento in bond locali da parte degli investitori internazionali, soggetti che erano già sulla difensiva a causa dello stato di emergenza in vigore nel Paese e della polarizzazione politica, tutti elementi che hanno reso più vulnerabile la Turchia alla fuga dei capitali stranieri.
Una scarsa affidabilità verso la lira che condividono gli stessi turchi che hanno aumentato i loro depositi bancari in valuta estera di 20 miliardi di dollari toccando un record di 168 miliardi di dollari a fine di settembre.
Ma torniamo alla guerra diplomatica scoppiata tra i due Paesi. Gli Usa hanno annunciato di avere sospeso le richieste di visti dalla Turchia di breve periodo, cioè per turismo, affari e studio, non per l’immigrazione. Poco dopo, Ankara ha reso noto che applicherà la stessa misura alle richieste di visti per la Turchia dagli Usa. Le decisioni sono giunte dopo un colloquio telefonico sabato tra i ministri degli Esteri di Usa e Turchia, Rex Tillerson e Mevlut Cavusoglu.
La decisione americana di interrompere il rilascio dei visti era stata presa domenica in risposta all’arresto, la settimana scorsa, di un impiegato turco dell’ambasciata americana, Metin Topuz, accusato dalla polizia di Ankara di legami con il predicatore islamico Fetullah Gulen. Il religioso, un tempo amico e sodale di Erdogan e poi entrato con lui in contrasto, vive in autoesilio in Pennsylvania dal 1999, e in ambienti turchi filo-governativi viene considerato l’ispiratore del tentato golpe del 15 luglio 2016. Dopo l’arresto, le autorità di Ankara hanno emesso un nuovo mandato nei confronti di un dipendente del consolato Usa a Istanbul. Tra Ankara e Washington pesa da tempo come un macigno la richiesta di estradizione di Gulen che Erdogan ha fatto ai tempi dell’ex presidente Barack Obama, senza ottenere alcun successo. Anche con l’ammnistrazione Trump la vicenda è rimasta una spina nel fianco nei rapporti tra due Paesi peraltro alleati Nato.
Sui timori di possibili effetti economici dello scontro in corso, gli indici della Borsa di istanbul hanno segnato perdite nell’ordine del 3 per cento. Dura la reazione dell’ambasciatore Usa ad Ankara, John Bass, che ha definito l’arresto dell’impiegato turco nella sua sede diplomatica come di un «provvedimento privo di fondamento».
A riprova della gravità della situazione Recep Tayyip Erdogan ha annullato una conferenza stampa prevista in mattinata all’aeroporto Ataturk di Istanbul, da cui è partito per un mini-tour per l’Ucraina e la Serbia.