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 2017  ottobre 09 Lunedì calendario

APPUNTI SULL’ILVA PER LA GAZZETTA DELLO SPORT -

MARZIO BARTOLONI, ILSOLE24ORE.COM –
Il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, ha comunicato ad Am Investco (di cui è capofila Arcelor Mittal) che non è accettabile aprire il tavolo su Ilva senza garantire le condizioni salariali e contrattuali, pertanto il vertice con la nuova proprietà di Ilva partito oggi è stato annullato. Per Calenda non si possono fare «passi indietro» e le proposte sui salari sono «irricevibili»

 Lo stop al tavolo
«Bisogna ripartire dall’accordo di luglio, dove si garantivano i livelli retributivi. Se non si riparte da quell’accordo la trattativa non va avanti», ha spiegato Calenda. L’incontro al Mise è durato poco proprio per decisione del ministro: «Abbiamo iniziato l’incontro con l’azienda comunicando che l’apertura del tavolo in questi termini è irricevibile, in particolare per gli impegni sugli stipendi e l’inquadramento, su cui c’era l’impegno dell’azienda». Il ministro dello Sviluppo economico ha quindi chiarito di aver annullato il tavolo perché «come Governo non possiamo accettare alcun passo indietro su retribuzioni e scatti di anzianità acquisiti che facevano parte degli impegni». «Senza queste conferme, il tavolo non si può aprire», ha aggiunto Calenda. Che ha voluto chiarire che due sono gli aspetti della vertenza: «Uno quello degli esuberi che si conoscevano da prima ed erano nelle due offerte, vanno ridotti ma tutti vengono tutelati perché nessuno viene lasciato per strada». Ma, sottolinea Calenda, «quello che oggi manca rispetto all’offerta non sono i numeri, che fanno parte della trattativa sindacale, manca l’impegno sui salari e gli scatti di anzianità».
 I nodi non sciolti
Il vertice a Roma avviene proprio mentre gli stabilimenti dell’azienda sono fermi per 24 ore per uno sciopero proclamato dal consiglio di fabbrica per protestare contro il piano dell’acquirente Am Investco, che conferma i 4mila esuberi programmati a fronte di 10mila lavoratori assunti. A far saltare in piedi i sindacati non sono stati solo i numeri (al centro del confronto del tavolo al Mise), ma soprattutto le condizioni che dovranno essere accettate dai lavoratori che passeranno alle dipendenze di Am InvestCo, controllato dal gruppo Franco-Indiano ArcelorMittal. Innanzitutto perderanno le garanzia dell’articolo 18 perché saranno riassunti con il contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs Act, inoltre non ci sarà alcuna continuità rispetto al rapporto di lavoro precedente neanche in relazione al trattamento economico e all’anzianità.

L’azienda: stop inatteso
Poco dopo la rapida fine del vertice al ministero dello Sviluppo economico sono trapelate anche le prime reazioni dell’azienda convocata al tavolo. L’ArcelorMittal - fanno sapere alcune fonti vicine alla cordata Am InvestCo - «è rimasta sconcertata» dalla decisione presa dal ministro Calenda di non aprire il tavolo, sottolineando che la decisione è stata «del tutto inattesa». La delegazione guidata dal Ceo della divisione europea Geert Van Poelvoorde e dal presidente e amministratore delegato di Am Invest Co Matthieu Jehl si è presentata al Mise, «in tutta buona fede, sperando di avviare una trattativa che possa però essere sostenibile da tutti i punti di vista, compreso quello economico». Più tardi l’azienda ha diffuso una nota: «Siamo contrariati dal fatto che non abbiamo potuto iniziare la negoziazione con i sindacati. Comprendiamo l’importanza dei livelli occupazionali per il Paese e infatti abbiamo mostrato flessibilità aumentando il numero degli occupati a 10.000 rispetto alla nostra offerta originaria. Non abbiamo tuttavia fatto alcuna ulteriore promessa a parte il numero di occupati. Il resto sarà oggetto della negoziazione sindacale».

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IL POST 9/10 –
Oggi migliaia di operai dell’Ilva, la grande azienda siderurgica finita in crisi negli ultimi anni, hanno manifestato a Roma e in tutte le città dove hanno sede stabilimenti della società. Gli operai protestano contro il piano di sviluppo presentato dalla Am InvestCo Italy, formata dalle società Arcelor Mittal e Marcegaglia, che ha rilevato l’Ilva. Il piano prevede il licenziamento di 4 mila dipendenti su 14 mila e l’assenza di “continuità aziendale” per tutti gli altri: significa che i 10 mila operai rimanenti saranno assunti con un nuovo contratto a tutele crescenti secondo le regole del Jobs Act, e perderanno l’anzianità acquisita. Il ministro dello sviluppo economico, Carlo Calenda, ha detto che la proposta di Am InvestCo Italy è “irricevibile”, dando ragione agli operai, e ha interrotto dopo pochi minuti l’incontro con i rappresentanti della società che si stava tenendo al ministero.
Le principali manifestazioni contro la proposta di accordo sono in corso a Taranto e Genova, dove hanno sede i due stabilimenti più importanti dell’Ilva. Insieme agli operai hanno manifestato i principali sindacati, i rappresentanti delle due regioni e dei comuni di Taranto e Genova oltre agli arcivescovi di entrambe le città. La società acquirente, che ha formalizzato l’acquisizione all’inizio dell’estate, è un consorzio formato da Arcelor Mittal, la più grande azienda siderurgica europea che ha sede in Lussemburgo, e Marcegaglia, un’acciaieria italiana con una quota di minoranza nel consorzio, pari a circa il 15 per cento.

Dal 2012 l’Ilva di Taranto, l’acciaieria più grande d’Europa, è finita al centro di una complessa vicenda giudiziaria e politica. L’impianto è stato sequestrato per via dell’eccessivo inquinamento prodotto, i materiali prodotti sono stati bloccati e la famiglia Riva, proprietaria del gruppo, è stata messa sotto processo. Il gruppo, quindi, è praticamente fallito ed è stato messo sotto amministrazione controllata da parte dello Stato. Gli amministratori, a loro volta, si sono messi in cerca di un compratore a cui cedere la società: ad aggiudicarsela è stato il consorzio formato da Arcelor Mittal e Marcegaglia.

I sindacati avevano annunciato lo sciopero di oggi dopo che, venerdì scorso, gli acquirenti avevano presentato il loro piano di rilancio per l’Ilva. La società prevede quattromila esuberi, di cui 3.300 a Taranto. Prevede di riassumere i lavoratori con il nuovo contratto a tutele crescenti previsto dal Jobs Act (che garantisce tutele ridotte in caso di licenziamento illegittimo rispetto rispetto ai vecchi contratti) e infine prevede l’assenza di qualsiasi forma di continuità contrattuale: significa che tutti gli operai saranno inquadrati come nuovi assunti, senza godere di eventuali scatti di anzianità maturati in precedenza.

Secondo Repubblica sono state queste condizioni a essere giudicate particolarmente gravi dai sindacati. Stando ai primi calcoli, alcuni lavoratori potrebbero arrivare a perdere tra i 6 e i 7 mila euro di stipendio ogni anno. Calenda ha detto che nell’accordo di luglio con cui il consorzio si è aggiudicato l’Ilva si parlava di “mantenimento dei livelli salariali”. Secondo Calenda, quindi, il consorzio avrebbe tradito la promessa; ma è possibile – se non addirittura probabile – che il consorzio abbia presentato un piano “estremo” considerando inevitabile questo tipo di dialettica con governo e sindacati e sapendo che è una posizione di partenza in una trattativa non semplice. Il ministro Calenda ha aggiunto che l’unico modo di far ripartire la trattativa è ricominciare dagli accordi di luglio.

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LASTAMPA.IT 9/10
Dalle 7 di stamane sono scattate all’Ilva di Taranto 24 ore di sciopero indette da Fim, Fiom, Uilm e Usb contro i tagli di forza lavoro annunciati da Am Investco Italy insieme alle nuove condizioni di inquadramento contrattuale dei lavoratori. Fonti sindacali annunciano che l’adesione tra gli operai di primo turno è quasi totale. C’è anche la partecipazione dei lavoratori delle imprese. I presidii sono davanti alle portinerie del siderurgico. Ufficialmente non sono previste manifestazioni nella città di Taranto. 

I LUOGHI DELLA PROTESTA 
Oltre a Taranto, è sciopero anche a Novi Ligure, altro sito Ilva, ma c’è tensione in un po’ tutto gli stabilimenti, tra cui quello di Genova Cornigliano. Rivedere i numeri degli esuberi, oggi quantificati in 4mila sui 14.200 addetti totali del gruppo Ilva - 3.330 in eccedenza a Taranto -, e le modalità di assunzione del personale da parte della società Am Investco Italy partecipata da Arcelor Mittal e Marcegaglia: sono le due condizioni che stamattina al Mise porranno i sindacati dei metalmeccanici ai rappresentanti della futura gestione dell’azienda dell’acciaio. Al confronto ci sarà per il Governo anche il vice ministro Teresa Bellanova.

CALENDA SOSPENDE IL TAVOLO AL MINISTERO 
Con lo sciopero in corso, i sindacati lanciano un segnale ad Arcelor Mittal e Marcegaglia affinché il negoziato cambi subito rotta. Fiom Cgil e Uilm hanno già detto che, con le proposte avanzate da Am Investco, non ci sono nemmeno le condizioni per cominciare a discutere. Il tavolo al ministero dello Sviluppo Economico con il ministro Calenda invece è iniziato ma è stato subito stoppato dallo stesso Calenda. «Bisogna ripartire dall’accordo di luglio, dove si garantivano i livelli retributivi. Se non si riparte da quell’accordo la trattativa non va avanti». «La proposta dell’azienda su salario ed inquadramento dei lavoratori è irricevibile» scrive poi su Twitter il ministro. «Tavolo aggiornato». Il governo ha chiesto ai nuovi investitori di partire da almeno 10mila addetti da riassumere in Am Investco fermo restando che tutti coloro che non passeranno ad Am Investco saranno mantenuti nelle società da cui dipendono e sotto l’amministrazione straordinaria. Una parte sarà ricollocata nei piani di bonifica affidati ai commissari Ilva, che hanno da spendere un miliardo di euro rinveniente dalla transazione con i Riva. 

L’AZIENDA: “OFFERTI 10 MILA OCCUPATI” 
«Siamo arrivati al Ministero dello Sviluppo Economico pronti a iniziare in buona fede i negoziati con i sindacati di Ilva, impazienti di poter spiegare la nostra prospettiva sull’offerta riguardante gli aspetti relativi alle tematiche contrattuali» spiega in un nota il gruppo Arcelor Mittal e Marcegaglia. «Il nostro obiettivo era quello di fare un primo passo verso il raggiungimento di un accordo accettabile per tutti gli interessati. Il raggiungimento di un accordo con i sindacati di Ilva in un tempo ragionevole è importante affinché, una volta chiusa la transazione, possiamo iniziare a mettere in atto i nostri piani di investimenti. Gli investimenti che ci siamo impegnati a fare sono cruciali per migliorare la competitività di Ilva. Di conseguenza, è vitale che l’implementazione del nostro piano non venga ritardata, il che è nel miglior interesse dei suoi dipendenti, delle comunità interessate e della stessa economia italiana». E ancora: «Siamo contrariati dal fatto che non abbiamo potuto iniziare la negoziazione con i sindacati. Comprendiamo l’importanza dei livelli occupazionali per il Paese e infatti abbiamo mostrato flessibilità aumentando il numero degli occupati a 10.000 rispetto alla nostra offerta originaria».

I TIMORI DEI SINDACATI 
Quello che più preoccupa sindacati e lavoratori è che il passaggio dall’amministrazione straordinaria ad Am Investco avverrà azzerando le attuali posizioni. Il che, dicono, significa rinunciare ad una serie di voci integrative della retribuzione, quantificate mediamente nell’ordine del 20 per cento, 6-7mila euro annui a testa. A tal proposito, fonti vicine ad Arcelor Mittal richiamano il bando di gara per l’Ilva che parla di discontinuità tra vecchia e nuova gestione, ma Ludovico Vico, deputato del Pd, invita a togliere dalla discontinuità (chiesta pure dalla Ue, evidenzia) la parte salariale e il vice ministro Bellanova rammenta che Am Investco Italy si è comunque impegnata a garantire una retribuzione media annua di 50mila euro ai lavoratori. «Mi auguro che l’incontro al Mise segni già una schiarita e una svolta decisiva rispetto a quanto assistito negli ultimi giorni» commenta il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci.

IL SINDACO DI TARANTO: NON AZZERARE I DIRITTI 
Per il sindaco, «non è con l’azzeramento dei diritti acquisiti nel tempo dai lavoratori o con generiche rassicurazioni, nemmeno escludendo le istituzioni locali, che si raggiungerà il successo di un’operazione così complessa». E altre questioni premono sulla trattativa, pur non facendo parte dell’ordine del giorno di oggi, a partire dall’indotto legato al siderurgico. Si tratta di 7.346 lavoratori che fanno capo a 346 aziende, per i quali, osservano i sindacati, nulla si sa al momento circa il futuro. E c’è anche la condizione delle imprese terze, le quali avanzano dall’Ilva, rammenta Vincenzo Cesareo, presidente di Confindustria Taranto, 150 milioni di crediti «che rischiano di rimanere per sempre nel calderone infinito del passivo». A fare da sfondo, infine, l’insoddisfazione di sindacati ed enti locali (Comune di Taranto e Regione Puglia) sul piano ambientale che Am Investco dovrà attuare: interventi di risanamento, si osserva, diluiti sino ad agosto 2023.

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PAOLO BARONI, LA STAMPA 7/10 –
Ilva, gli esuberi sono 4 mila. Gli altri riassunti col Jobs Act  -
La «nuova Ilva» mette nero su bianco di voler assumere solamente 10mila dipendenti su 14mila e coi sindacati è subito scontro frontale. Anche perché col passaggio di consegne verrebbero messe a rischio le tutele dell’articolo 18, scatti di anzianità e integrativi aziendali. Immediatamente le Rsu hanno proclamato una raffica di scioperi (24 ore a Taranto, 8 a Genova e Novi Ligure) in coincidenza con l’incontro fissato per lunedì a Roma al ministero dello Sviluppo. «Proposte inaccettabili», pura «macelleria sociale» sostengono.
Tutto nasce dalla lettera inviata ieri ai sindacati, ai ministeri del Lavoro e al Mise da «Am Investco» (la cordata Arcelor Mittal-gruppo Marcegaglia) e dai tre commissari straordinari dell’Ilva. In vista dell’avvio del confronto coi sindacati è stato infatti chiarito che verranno riassunti 9.885 dipendenti su 14.200: in particolare a Taranto saranno 7.600 anziché 11mila, 900 (su 1500) a Genova, 700 a Novi, 345 a Marghera, 160 a Milano e 125 a Racconigi. Circa 4mila esuberi resteranno invece in carico all’Amministrazione straordinaria e verranno impiegati nelle operazioni di bonifica e risanamento ambientale.
I numeri sono più o meno quelli già comunicati da Am Investco al momento di presentare la propria offerta. Ma a spiazzare i sindacati sono soprattutto la proposta di applicare ex novo i soli contratti nazionali, senza più le tutele dell’articolo 18, l’azzeramento delle anzianità di servizio e degli integrativi aziendali, che produrrebbero un forte taglio dei salari. Sull’altro piatto della bilancia Arcelor mette a sua volta 2,4 miliardi di investimenti (1,13 per i piani ambientali e 1,25 per il piano industriale), l’impegno ad implementare il piano ambientale come proposto dal Governo e l’aumento della produzione di acciaio a 6 milioni di tonnellate/anno entro il 2018 e quindi a 8 dopo il 2023 a piano ambientale completato.
«Se queste sono le condizioni di partenza, il piede è quello sbagliato» commenta il segretario generale della Fim Cisl Marco Bentivogli che lamenta «presupposti ancora più arretrati rispetto a quanto concordato tra l’acquirente e la gestione commissariale. Se tale approccio sarà confermato nell’incontro di lunedì è chiaro che il ricorso alla mobilitazione generale diventerà inevitabile». Ancor più dura la Fiom, che col segretario generale Francesca Re David annuncia che «allo stato attuale non ci sono le condizioni per aprire un negoziato». Arcelor Mittal «è arrogante inaffidabile» e «l’unica risposta possibile a tale provocazione è una forte azione conflittuale». «Condizioni inaccettabili» anche per il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella, per il quale così «l’accordo sindacale è impossibile».
A Genova, dove l’annuncio di Arcelor è stato subito respinto dal Pd, da Comune e Regione, Bruno Mangaro della Fiom annuncia che lunedì non sarà a Roma e definisce «vergognosa» la lettera di Arcelor ricordando che «l’accordo di programma garantisce che Genova livelli occupazionali e salari non si possono toccare».
A sera arriva il commento del viceministro dello Sviluppo Teresa Bellanova che tenta di gettare acqua sul fuoco: ricorda come nuovi organici e condizioni contrattuali sono quelle note, ma anche queste sono solo «la base di partenza della trattativa». E comunque «al termine del confronto nessun lavoratore rimarrà senza tutele». 

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MARCO PATUCCHI, LA REPUBBLICA 4/9 –
DOVE IL LAVORO NON RIPARTE
ROMA Sono 166 imprese con un totale di oltre 190mila lavoratori. Due numeri per misurare la “temperatura” di un autunno che si preannuncia caldo. E anche le coordinate della mappa delle crisi industriali italiane, emergenze che intaccano il quadro della ripresa economica tratteggiato dagli ultimi dati su Pil e mercato del lavoro. Non a caso il ritorno dell’occupazione ai livelli pre-recessione, certificato in questi giorni dall’Istat, esclude la fascia di età tra i 35 e i 49 anni (-116mila posti in un anno), ossia quella più legata ai processi di ristrutturazione aziendale. Niente di nuovo sotto il sole, verrebbe da dire, se non fosse per un “dettaglio” che pesa (e allarma) come un macigno: perché di fronte alle crisi industriali ci presentiamo con un armamentario in scala ridotta degli ammortizzatori sociali, tra strumenti ormai cancellati e coperture tagliate dalle riforme targate Jobs Act. E così, per la prima volta, si materializza lo spettro dei licenziamenti tout court.
Uno scenario inedito che preoccupa i sindacati e che non viene sottovalutato anche all’interno del governo nella prospettiva di possibili tensioni sociali. Esaurite mobilità e cassa integrazione in deroga, ridotta la durata di cassa ordinaria e straordinaria, il dominus sarà la Naspi (l’indennità mensile di disoccupazione), uno strumento che recide il cordone ombelicale tra la persona e l’azienda affidando al mercato e alla politica attiva del lavoro, fin qui deficitaria, le speranze di recupero.
Scorrere il documento (aggiornato al 31 agosto) sui “Tavoli di confronto aperti presso il ministero dello Sviluppo Economico” arrivati, appunto, a quota 166 – è come viaggiare in lungo e in largo attraverso il Paese reale, incrociando la stragrande maggioranza dei settori produttivi: dal Piemonte alla Sicilia, dalla Lombardia alla Puglia; dalla siderurgia ai call center, dall’edilizia alla chimica. Le fabbriche di multinazionali come Bridgestone, Ericsson, HP Hewlett Packard, Whirlpool, Nokia… nomi storici dell’industria nazionale come Cementir, Ilva, Burgo, Carraro, Ferretti… Marchi familiari per tutti gli italiani come Perugina, Tuodì, Mercatone Uno, Ideal Standard, Alitalia… Crisi più o meno gravi, più o meno recuperabili: i 190mila lavoratori compongono, naturalmente, il perimetro occupazionale delle 166 aziende in difficoltà, non gli esuberi e i posti realmente a rischio che, comunque, molto spesso rappresentano fette consistenti della forza lavoro delle singole imprese. In ogni caso, emergenze che coinvolgono intere comunità ed economie locali, spesso scomparse dai radar dell’opinione pubblica nazionale. La stragrande maggioranza (74) delle aziende sedute al tavolo del ministero ha più di 500 dipendenti, seguono quelle con 251-500 addetti (38), poi le 24 con 151-250 lavoratori e le sedici con 100-150, infine le 14 con meno di 100 lavoratori.
«E a questi numeri vanno aggiunti quelli dell’indotto e quelli delle crisi dei tavoli regionali – dice Maurizio Landini, una vita nella Fiom che ha guidato per sei anni, e ora entrato nella segretaria della Cgil con la delega sull’industria -. C’è il rischio che l’emergenza si saldi ad altre tensioni sociali come, ad esempio, quella dell’immigrazione. Servirà una mobilitazione, insieme a Cisl e Uil, ma sarà una battaglia dura per il sindacato, perché da un lato attraversiamo una evidente crisi di rappresentanza e, dall’altro, avendo perso lo strumento degli ammortizzatori sociali non ci resta che chiedere modifiche legislative. Opzione davvero complicata». Anche Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil, non nasconde l’allarme: «Prima di tutto perché siamo passati da ammortizzatori sociali “in costanza di rapporto di lavoro” a strumenti che intervengono solo dopo il licenziamento. Inoltre – aggiunge – c’è una diversa dinamica delle crisi aziendali: prima erano legate solo all’andamento dell’economia mentre adesso le ristrutturazioni, anche drastiche, spuntano in settori non colpiti dalla crisi o addirittura all’interno di aziende che fanno utili, come dimostrano i casi di Sky e Perugina. Qualcuno l’ha definita selezione darwiniana della globalizzazione. Insomma, dobbiamo abituarci all’idea che anche con un Pil in crescita ci saranno ristrutturazioni dolorose e, dunque, bisognerà fare una seria riflessione su come il sistema di protezione sociale segua certe dinamiche».
Nel governo, e in particolare tra i tecnici che seguono direttamente le vertenze, si cerca una risposta all’emergenza e c’è chi guarda verso Bari dove in queste settimane sta andando in scena una vicenda che potrebbe fare da laboratorio anche per altre crisi aziendali. Il gruppo tedesco Bosch (componentistica auto), che lì ha uno stabilimento con 1900 operai, ha prospettato 500 esuberi a causa del calo degli ordinativi di pompe diesel dopo gli scandali Volkswagen: la proposta avanzata dal management ai sindacati per scongiurare i tagli è quella di un contratto “ponte” (in attesa di una eventuale ripresa del business) che nell’arco di cinque anni ridurrebbe progressivamente le ore settimanali di lavoro da 40 a 30, con una relativa sforbiciata degli stipendi pari, secondo le stime dei rappresentanti dei lavoratori, al 25% mensile. Quasi una provocazione per Cgil, Cisl e Uil che l’hanno rispedita al mittente perché, oltre a determinare pesanti sacrifici economici degli operai, rappresenterebbe un pericoloso precedente che smonta gli istituti retributivi di base. Un modello da non scartare completamente, invece, secondo i tecnici del governo. Comunque la si voglia mettere, il chiaro segnale dello sconfinamento nella terra di nessuno delle crisi industriali senza rete.

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CORRIERE.IT 9/10 -
Salta il tavolo dell’Ilva al Mise. La conferma arriva dal ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda «Bisogna ripartire dall’accordo di luglio, dove si garantivano i livelli retributivi. Se non si riparte da quell’accordo la trattativa non va avanti». «Abbiamo iniziato l’incontro con l’azienda comunicando che l’apertura del tavolo in questi termini è irricevibile, in particolare per gli impegni sugli stipendi e l’inquadramento, su cui c’era l’impegno dell’azienda» prosegue il ministro, che poi insiste: «Non possiamo, come Governo, accettare alcun passo indietro su retribuzioni e scatti di anzianità acquisiti che facevano parte degli impegni». «Sconcerto» ha espresso la delegazione dei vertici di Ancelor Mittal sulla decisione del ministero di non aprire il tavolo di trattative, «una decisione del tutto inattesa» fanno sapere spiegando di essersi presentati disponibili ad avviare una trattativa che potesse essere sostenibile «da tutti i punti di vista, compreso quello economico».

L’incontro al ministero dello Sviluppo Economico
Proprio entrando al ministero dello Sviluppo Economico il segretario della Fim, Marco Bentivogli, aveva posto l’accento sui «troppi errori della politica che i lavoratori non devono pagare». «La posizione del governo è che si parte dalla proposta che era stata fatta nel bando di gara. Si parlava di un costo di 50.000 euro medio a lavoratore e quindi rispetto alla proposta che è stata avanzata nella comunicazione alle organizzazioni sindacali, si parla di una cifra più alta - aveva spiegato la viceministra Teresa Bellanova, in un’intervista al Gr1 - Apro il tavolo con l’auspicio che tutte le parti facciano un confronto di merito e che il governo agevolerà questo confronto per arrivare ad un’intesa che sia soddisfacente per tutte le parti».

Il presidio a Taranto
Intanto è adesione quasi totale degli operai Ilva di Taranto allo sciopero indetto da Fim, Fiom, Uilm e Usb contro i tagli di forza lavoro annunciati da Am Investco Italy insieme alle nuove condizioni di inquadramento contrattuale dei lavoratori.Tra gli operai del primo turno l’adesione è stata praticamente totale. E c’è anche la partecipazione dei lavoratori delle imprese. L’agitazione è stata decisa venerdì scorso , dopo che Am Investco ha formalizzato il piano degli esuberi che consiste in 4mila lavoratori quantificati sui 14.200 addetti totali del gruppo Ilva (e 3.300 sono in eccedenza proprio nella sede pugliese). Presidi di lavoratori e sindacati davanti alle portinerie A, D, tubifici e imprese dello stabilimento di Taranto.

Blocco della produzione
Per lo sciopero, l’Ilva ha bloccato l’acciaieria 2, una delle due del polo siderurgico pugliese: le squadre che avrebbero dovuto assicurare il funzionamento dell’impianto e la sua sicurezza non si sono presentate al turno e lo stop è quindi stata una conseguenza obbligata. «Dai primi dati l’adesione a Taranto, Genova, Novi Ligure, è totale» ha precisato il segretario generale Fim Cisl Marco Bentivogli.

Il corteo di Genova: fumogeni, ma nessun incidente
Tensione si registra anche a Genova Cornigliano: i dipendenti dello stabilimento ligure alle 8.30 sono partiti in corteo verso la prefettura. La manifestazione è aperta dallo striscione «Pacta servanda sunt - i patti devono essere rispettati» che ricorda l’accordo di programma violato dal nuovo proprietario del gruppo Ilva, la cordata AmInvestCo formata dal leader mondiale della siderurgia Arcelor Mittal e dall’italiana Marcegaglia. Circa un migliaio le persone che partecipano alla manifestazione che prosegue sotto il coro «La gente come noi non molla mai»: una protesta pacifica nono stante il lancio di petardi e fumogeni, non si sono infatti registrati incidenti. Ad attenderli, davanti alla prefettura un cordone di polizia in assetto antisommossa.
Sono 600 gli esuberi previsti nello stabilimento di Genova su 1.500 impiegati nella fabbrica genovese che potrebbero perdere il posto: a sostenere la protesta sotto lo slogan «senza lavoro c’è agitazione» anche le delegazioni dei lavoratori di Ansaldo Sts e Ansaldo Energia, Fincantieri, Ericsson, i lavoratori del porto, una rappresentanza dei vigili del fuoco e i lavoratori di Riparazioni navali.

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La Gazzetta dello Sport Anno VII numero 2263 27 maggio 2013

C’è qualcuno che ha intenzione di comprarsi l’Ilva, la grande acciaieria di Taranto, come si evince da una dichiarazione di ieri del ministro dello Sviluppo, Flavio Zanonato. Il passaggio è questo: «Il polo dell’acciaio, e l’Ilva in particolare, deve rimanere italiano, dobbiamo fare di tutto per farlo rimanere italiano. È una questione strategica: dalla siderurgica dipende la meccanica, per rimanere competitiva deve avere acciaio prodotto in luoghi abbastanza vicini».

• Come mai esce fuori questa storia di qualcuno - suppongo straniero - che si vuole comprare l’Ilva?
Allora lei non conosce gli ultimi fatti. La Procura di Taranto ha calcolato quanti soldi hanno risparmiato i Riva evitando di mettere in atto le bonifiche che sarebbero state obbligatorie. Finiti i calcoli, hanno disposto il sequestro della somma venuta fuori: otto miliardi e cento milioni di euro. Non credo che nella storia giudiziaria del Paese la magistratura abbiamo mai tentato di metter le mani su un capitale simile.

• Mi faccia capire: i giudici di Taranto hanno sequestrato ai Riva otto miliardi e cento milioni? E dove li hanno trovati? In qualche cassetto? E i Riva non si sono opposti?
I Riva, compreso il vecchio Emilio, sono agli arresti domicialiari da una decina di mesi. Uno di loro è latitante. La Procura ha deciso di sequestrare gli otto miliardi e cento milioni, ma finora è riuscita a trovare poco meno di un miliardo. «Abbiamo cercato in dodici città. Da Potenza a Milano. Abbiamo visitato 16 banche diverse, bloccato e aggredito depositi, titoli, partecipazioni societarie, immobili. Presto apriremo le cassette di sicurezza». Ma più di un miliardo, per ora, non è venuto fuori. C’è però un punto, nell’ordinanza di sequestro, che mette a repentaglio tutta la fabbrica. I giudici hanno colpito i beni della società che possiede l’83% dell’Ilva, e che si chiama Riva Fire, «e in via residuale gli immobili dell’Ilva che non siano strettamente indispensabili all’esercizio dell’attività produttiva». Cioè, dicono i giudici: sequestriamo gli otto miliardi e cento milioni, prendendoci, se i contanti non bastano, gli immobili di Riva Fire, e se gli immobili di Riva Fire non bastano, prendiamoci i beni della stessa Ilva, purché non siano indispensabili alla produzione. Però il consiglio d’amministrazione dell’Ilva ha risposto che tutti gli immobili dell’Ilva sono necessari alla produzione e che l’ordinanza di sequestro mette di fatto la fabbrica nell’impossibilità di produrre. Sono seguite le dimissioni di tutti i consiglieri, compreso l’insospettabile Enrico Bondi, già risanatore di Parmalat e messo lì a fare l’amministratore delegato da poche settimane. Bondi sarà oggi a Roma per incontrare il ministro Zanonato. Domani dovrebbe esserci un vertice con lo stesso Letta. Il rischio che l’Ilva chiuda per sempre esiste. La preoccupazione, o l’insinuazione, del ministro sono un nuovo elemento di confusione/tensione. Tutto questo baillamme prepara l’ingresso di uno straniero nel complesso tarantino?

• Chiunque arrivasse dovrebbe mettere questi otto miliardi per bonificare.
Si direbbe di sì. Ma la legge varata in tutta fretta dal precedente ministro Clini ne prevedeva tre, da imputare ai Riva, e dava tempo per il risanamento fino al 2017, con il cosiddetto "cronoprogramma", cioè c’erano delle scadenze, il governo avrebbe controllato, eccetera.

• Che soluzioni ci sono?
Tutto è reso più difficile dal fatto che anche qui è in corso uno scontro feroce tra coloro che giudicano più importante l’ambiente e coloro che mettono al primo posto il lavoro. Il giudice - una signora, che si chiama Patrizia Todisco - leader suo malgrado degli ambientalisti, ha poi davvero ragione al cento per cento? Girano statistiche dalle quali si evince che a Taranto, benché avvelenata, si muore meno che da altre parti, se chiude Taranto deve allora chiudere più o meno tutto il sistema industriale italiano, inquinante ovunque. La soluzione più ovvia sarebbe quella suggerita da Carlo De Benedetti: lo Stato si piglia l’acciaieria, risana e poi vende. Per statalizzare l’Ilva, però, ci vuole il permesso di Bruxelles.

• Che cosa stiamo rischiando, sul serio, in caso di chiusura?
L’Ilva di Taranto dà lavoro, compreso l’indotto, a 24 mila persone. Se si considera tutto il gruppo, i posti a rischio sarebbe 40 mila. Federacciai ha calcolato i danni finanziari: senza l’Ilva dovremmo cominciare a comprare all’estero anche i cinque milioni di tonnellate di acciaio che adesso le industrie prendono a Taranto. Fa un danno di 2,5-3,5 miliardi. Le mancate esportazioni ci costerebbero 1,2-2 miliardi l’anno. La bilancia commerciale peggiorerebbe di 3,7-5,5 miliardi. I nuovi costi per la logistica, per gli oneri finanziari, per gli ammortizzatori sociali, il calo dei consumi dovuto al tracollo dei redditi, più lo spopolamento della città, destinata a scendere da poco meno di 200 mila a 30 mila abitanti, valgono ancora un danno di altri 4-5 miliardi. Un danno minimo di 11,5 e massimo di 16 miliardi l’anno. Senza contare le ripercussioni sociali.