Libero, 7 ottobre 2017
Le centrali sono chiuse da 20 anni. Ma il nucleare ci costa 60 milioni
La gestione dei rifiuti radioattivi, e l’eredità del nucleare in Italia, sono una Via Crucis. Una strada infinita e lastricata di una lunga serie di inerzie, rinvii, errori, situazioni critiche, pesanti ritardi. Costi colossali, che continuano ad aumentare. E a pagare il conto salato, sempre più alto con il passare del tempo, sono come sempre i cittadini. Ecco con quali risultati, e prospettive. A trent’anni dal referendum che nel 1987 ha bocciato il nucleare e fermato le centrali, serviranno ancora molti anni, circa una ventina, e altre montagne di soldi pubblici, per mettere la parola fine alla vicenda. Ma oggi le urgenze, che non si possono più dilatare, sono innanzitutto due: «Ci sono ritardi da colmare nei processi di trattamento e condizionamento dei rifiuti radioattivi, e per la realizzazione del Deposito Nazionale. Per entrambe le operazioni è essenziale accelerare molto» rimarca Lamberto Matteocci, coordinatore tecnico del Centro nazionale di sicurezza nucleare e radioprotezione, che fa parte dell’Ispra (l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale).
I COSTI CRESCONO
È indispensabile accelerare innanzitutto perché mantenere in sicurezza le centrali e gli impianti nucleari in disuso e da rottamare ci costa circa 60 milioni di euro l’anno. É a partire da qui, da questa voce di spesa, che più passa il tempo più i costi totali crescono, anno dopo anno. E queste sono solo le spese fisse e di manutenzione per le 4 centrali spente da trent’anni, a Caorso (Piacenza), Trino Vercellese, Sessa Aurunca (Caserta) e Latina, e per gli altri impianti collaterali e sperimentali, a Saluggia (Vercelli), Casaccia (Roma), Rotondella (Matera), Bosco Marengo (Alessandria).
Ma le spese ordinarie di queste strutture sono solo una parte dei costi complessivi di questa Via Crucis nucleare. L’intero programma di smantellamento di centrali e impianti, il “decommissioning” in termine tecnico, in un arco temporale che va dal 2000 al 2035, ci costerà in totale 7,2 miliardi di euro. Di cui 3,2 miliardi già spesi. Questo secondo l’ultima analisi di pochi giorni fa. Perché fino a qualche settimana prima la stima ufficiale ammontava a 6,8 miliardi di euro. Poi l’Aiea (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica), analizzando e avallando l’intero progetto, ha alzato di altri 400 milioni di euro il costo complessivo. Tutti soldi pubblici presi, in gran parte, direttamente dalla nostra bolletta elettrica, alla voce “oneri nucleari”.
Il programma di smantellamento è stato avviato nel 2000, diciasette anni fa, ma procede a rilento, per svariati motivi. I vari siti nucleari hanno ancora i rifiuti radioattivi al proprio interno, e molte di queste scorie, resine o fanghi contaminati, devono ancora essere trattati per lo stoccaggio finale, in quello che sarà appunto il Deposito Nazionale, di cui si parla da quarant’anni. Dovrà accogliere fino a 75mila metri cubi di rifiuti a bassa e media attività, e 15mila metri cubi ad alta attività.
In più, fino a quando non sarà realizzato e aperto questo speciale sito dove stoccarli tutti in via definitiva, devono essere attrezzati in loco, presso le varie strutture, depositi temporanei. E ogni soluzione temporanea significa costi che, intervenendo per tempo, potevano essere risparmiati.
Qui si apre l’altro grande capitolo della vicenda, con altre inerzie, lungaggini, rinvii. E costi che lievitano. C’è già uno stallo e un ritardo di due anni sulla tabella di marcia, prevista dalla legge in materia, per la realizzazione del Deposito Nazionale, la cui apertura è fissata per il 2025. Una scadenza che, se i tempi si allungheranno ulteriormente, sarà ancora più difficile da rispettare. Aumentando ancora di più gli oneri di questo vortice nucleare.
IL RIENTRO DEI RIFIUTI
Per il 2025 è previsto il rientro in Italia dei rifiuti radioattivi mandati a riprocessare in Francia e Gran Bretagna: se la struttura non sarà pronta in tempo al momento non ci sono alternative. Anche in quel caso, una via d’uscita probabile potrà essere quella di spendere altri soldi pubblici per tamponare la situazione, gli errori e le inefficienze, con un’altra soluzione temporanea.
La legge che ha varato la realizzazione del Deposito Nazionale è del 2010, il primo passo operativo concreto del 2014.
Quattro anni dopo. Con i passaggi tra le varie parti coinvolte, è stata predisposta la “Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee” a ospitare la struttura. E l’Ispra l’ha avallata nel luglio 2015. Entro trenta giorni i due Ministeri competenti, Sviluppo Economico e Ambiente, avrebbero dovuto dare il nulla osta alla pubblicazione della Carta, atto che dopo due anni non è ancora avvenuto.
Con una variante non prevista sul percorso e sulle scadenze indicate dalla legge, infatti, un anno dopo i Ministeri competenti hanno deciso di posticipare il via libera alla Carta dopo la definizione del Programma Nazionale e del Rapporto Ambientale per la gestione dei rifiuti radioattivi. Presentati, in versione provvisoria, solo a luglio di quest’anno. Ma questi documenti «non contengono informazioni tali da giustificare la scelta fatta, il rinvio e lo stallo di due anni del percorso previsto» rilevano alcuni consulenti tecnici della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti: «Il rinvio fu spiegato con il fatto che le informazioni avrebbero consentito ai cittadini di avere un quadro per meglio comprendere. Il quadro, in sostanza, non c’è, almeno per le parti più pertinenti al Deposito Nazionale». Tanto che, altro tassello mancante del puzzle, in questi documenti non sono neanche indicate dimensioni e altre caratteristiche che questa famigerata struttura dovrà avere. In pratica, non si sa ancora come dovrà essere. Un altro, grosso, punto interrogativo. L’atteso via libera politico alla pubblicazione della Carta dovrebbe ora arrivare senza far passare troppo tempo ancora, in modo da sblocare lo stallo e i rinvii. Ma, con le elezioni in vista, che venga fatto entro la fine dell’anno pare un obiettivo improbabile, secondo la tradizione di passare la patata bollente al prossimo governo.
RISORSE E GIOVANI
Nodi, ritardi e incongruenze non finiscono qui. Il personale specializzato dell’Ispra, che ha il compito di controllare la sicurezza della situazione e i livelli di radioattività, è ridotto all’osso, una trentina di persone in tutto, e se le cose non cambieranno diminuirà ancora nei prossimi anni. «È necessario acquisire in tempi rapidi risorse nuove e giovani» rileva Matteocci, «per garantire la continuità dei controlli». Nel 2014 è stato creato un nuovo organo di controllo, l’Isin (l’Ispettorato nazionale per la sicurezza nucleare e la radioprotezione), e dopo tre anni non è ancora operativo. Sono stati nominati i vertici, manca il resto: a cominciare dal regolamento e dal trasferimento dello scarso personale specializzato che fa parte dell’Ispra.
L’ennesimo capitolo di questa saga nucleare riguarda poi i rifiuti radioattivi prodotti in ambito sanitario e industriale: la stima è di circa 200-300 metri cubi l’anno, ma in realtà nessuno sa esattamente quanti siano in totale. Non esiste nemmeno un elenco nazionale delle strutture sanitarie autorizzate all’impiego di materie radioattive. Sono rifiuti a bassa attività che continuano ad accumularsi, presso i diversi operatori, in strutture di deposito temporanee, anche qui in attesa del grande Deposito, ma senza un adeguato processo di condizionamento. Per cui risulta alquanto difficile, se non impossibile, verificare la correttezza dei flussi di smaltimento, e l’assenza di rischi di contaminazione.