Il Messaggero, 7 ottobre 2017
Il delitto d’onore una storia all’italiana
«C’è da noi un imperativo categorico più forte di noi: se sei tradito, uccidi! Te lo gridano i tuoi avi da tutti i millenni, i tuoi morti dalle loro fosse; te lo grida la tua gente da tutte le case prossime e lontane: uccidi. Se no, sei disonorato due volte!».
Con queste parole, enfatiche ma significative, Giuseppe Casalinuovo, un grande giurista calabrese, perorò la causa di Annibale Mazzone, che nel 1929 aveva ucciso la moglie Carmela Cimarosa colta in flagrante adulterio. Il processo si svolse nel 1931 e l’omicida fu assolto per il grave turbamento provocatogli dal tradimento. Fu uno dei tanti delitti d’onore che deliziarono i giornalisti, eccitarono i lettori, e divisero il Paese. Da quello di Filippo Cifariello, assolto nel 1905, fino a quello di Alfonso La Gala, maresciallo di polizia, condannato nel 1978 a due anni con la condizionale. L’ultima assoluzione fu del 1981.
L’omicidio per causa d’onore, secondo il nostro codice penale, si verificava quando il marito – o la moglie – scopriva l’illegittima relazione carnale del coniuge, e agiva nello stato d’ira determinato dall’offesa all’onor suo e della sua famiglia. Era punito da tre a sette anni, che tra attenuanti e amnistie si riducevano a pochi mesi. Non era una creazione del regime fascista: era già previsto nel codice Zanardelli, di ispirazione liberale, che era ancora più mite, e poteva condurre all’assoluzione piena. Come avvenne per Annibale Mazzone, dopo le efficaci declamazioni del suo avvocato.
DIFFERENZE
La norma non era così singolare. Era anzi radicata in molti Paesi, e spesso giustificava solo il marito: il tradimento della moglie era considerato più grave, in quanto rischiava di vulnerare l’unità familiare con l’inserimento di un figlio adulterino. L’evoluzione dei costumi aveva eliminato, in Europa, questa forma di impunità. Il fascismo l’aveva mantenuta, estendendola tuttavia anche alla donna nei confronti del coniuge fedifrago: la dispersione delle energie maschili poteva infatti compromettere il risultato di otto milioni di baionette che il Duce si prefiggeva. Strano a dirsi, la norma rimase anche nell’Italia Repubblicana, che avrà anche adottato la Costituzione più bella del mondo, ma mantenne – e mantiene – il codice di Mussolini.
Poiché tuttavia i comportamenti umani sono assai più articolati degli articoli di legge, la liberalizzazione e l’emancipazione sessuale fecero sorgere i primi problemi interpretativi, suscitati dalle multiformi trasgressioni dei coniugi infedeli. Ci si chiese, ad esempio, se fosse necessaria la copula cum eiaculatione o se bastasse una componente abnorme dell’atto. La Giurisprudenza provò a stilare un dettagliato catalogo di variazioni sul tema, che l’indomita fantasia dei protagonisti riusciva sempre a rendere insufficiente e obsoleto. Non solo. Che dire dei rapporti originati da interessi? Durante la guerra molte donne si erano concesse ai tedeschi per aiutare la famiglia o per carpire informazioni. Nella Francia occupata una famosa attrice, accusata di collaborazionismo orizzontale, disse: «Il mio didietro lo do a chi voglio, ma il mio cuore appartiene alla Patria!». Da noi qualche donna avrebbe potuto sostituire alla Patria la famiglia. Alcuni mariti avevano subìto, o tollerato. Altri avevano reagito. Potevano invocare l’attenuante dell’onore? La discussione si allargò.
TEMPO
In tale pasticcio, mentre l’Italia rientrava tra le democrazie e l’uomo si preparava a sbarcare sulla luna, si potrebbe supporre che il legislatore intendesse eliminare questa norma stupida e inutile. E invece no. Passarono divorzio e aborto, confermati dai referendum popolari. Fu riformato il diritto di famiglia e quello ereditario per i figli naturali. Ma il delitto d’onore rimase, come rimase la vergogna del matrimonio riparatore che scagionava il violentatore che avesse sposato la vittima. Ancora una volta fu il cinema a far emergere il problema. Pietro Germi con Divorzio all’italiana e Damiano Damiani con La moglie più bella strapazzarono – il primo con l’ironia, il secondo con l’indignazione – un sistema giuridico ormai screditato. Ma si dovette aspettare ancora. Il delitto d’onore fu abrogato nel 1981. Per la riforma sulla violenza sessuale, si dovette aspettare il 1996.
Che lezione dobbiamo trarre da queste leggi e da questi processi? Che i cosiddetti valori etici sono volatili e mutevoli. L’omosessualità, un tempo punita con la morte, è oggi legalizzata nelle unioni civili o celebrata con il matrimonio. L’adulterio non è più reato, e l’infedeltà non è nemmeno causa di addebito nel divorzio. Lo stesso per la bestemmia, che un tempo ti mandava al rogo, e oggi si ascolta in televisione; o per le fantasie eccentriche, che fino a ieri figuravano nei manuali di medicina legale tra le perversioni e ora sono accessibili su internet anche ai ragazzini. È possibile che, come noi ridiamo dei nostri nonni per il loro bigottismo, i nostri pronipoti rideranno di noi per la nostra permissività. Così come è possibile che il delitto d’onore, cacciato dalla porta della democrazia laica, rientri dalla finestra di un nuovo fanatismo religioso.
Perché questo è il pericolo. Da tempo, in alcuni Paesi di tradizione legislativa anglosassone, si dibatte sulla liceità delle cultural defences, o esimenti culturali: quelle che giustificano alcuni reati quando l’imputato tiene una condotta conforme al costume e alle regole culturali del proprio gruppo di appartenenza. Questo pericolo non è attualmente percepito nemmeno dalle donne che si battono più energicamente contro le violenze e i femminicidi, e che magari il giorno dopo predicano la generosa accoglienza contro ogni discriminazione. Senza accorgersi che la libertà è un frutto delicato, esposto al vento del fanatismo e dell’intolleranza. Già oggi la segregazione femminile – se non addirittura il delitto d’onore – è praticata nelle enclaves di alcuni Paesi europei, da uomini che opprimono le mogli in ossequio alle regole loro, senza rispettare le nostre. E dal loro punto di vista non hanno nemmeno tutti i torti. Come il gesuita che alcuni secoli fa disse al Re di Francia: «Maestà io pretendo la libertà religiosa in nome dei vostri principi, ma la nego in nome dei miei».