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 2017  ottobre 08 Domenica calendario

Storia dell’Io

Un paio d’anni fa mi trovavo a Venezia in piazza San Marco seduto davanti a una tazza di caffè e osservavo il passaggio di migliaia di turisti come me. Quasi tutti avevano un apparecchio fotografico. A decine scattavano foto non già del Palazzo Ducale tanto splendidamente descritto da John Ruskin, bensì di sé stessi davanti a quel palazzo. Tenevano i cellulari il più lontano possibile o si facevano aiutare da appositi estensori. Le meraviglie di Venezia non erano complete senza la testimonianza di un io in mezzo a loro. Guardatemi, sono qui. Molti tra quei turisti, specie i più giovani, sarebbero finiti su Facebook il giorno stesso per far conoscere al mondo le gesta dei loro insostituibili, specialissimi io. Quanto al sottoscritto, a mia volta avevo trascorso la mattinata a contemplare autoritratti del Sedicesimo e Diciassettesimo secolo, in svariati musei. Che cos’è dunque un io, un’entità biologica incontrovertibile o per certi versi invece un prodotto culturale, affinato dall’arte e dalla letteratura in modo particolare? Non c’è dubbio infatti che nella letteratura di un passato pre-moderno, l’io non rappresentasse affatto un tema di rilevanza primaria. In un’era come la nostra, che idolatra la celebrità e l’autopromozione attraverso la Rete, stiamo forse vivendo il colmo di quel che significa essere un io.
Esiste un altro ente mentale che raggiunga i livelli di paradosso dell’io? Di una schiacciante ovvietà da un lato, ma fastidiosamente inafferrabile dall’altro. Ogni mattina, svegliandoci, ce lo calziamo addosso, o viceversa l’io indossa noi, come un paio di scarpe comode. Anzi, per la precisione, ci svegliamo e ci ritroviamo già quelle scarpe ai piedi. Nemmeno nel sonno sfuggiamo pienamente all’io che, nei nostri sogni, svolge un ruolo di testimone o di ente attivo, spesso di entrambe le cose. Eppure, siamo in difficoltà a definirlo, questo io. Di certo lo sono i filosofi. E il compito di descriverlo, di comunicarlo ad altri io – nei quali per definizione non potremo mai penetrare – è questione complessa, immancabilmente incompleta che, come andrò a sostenere tra poco, è approdata nella nostra letteratura in modo sistematico, consapevole ed esteso solo agli albori dell’era moderna, con il che intendo grosso modo il Sedicesimo secolo. Laddove affermando “nostra” assumo una prospettiva genericamente euro- centrica che affonda le proprie radici nel mondo greco-romano. Per la letteratura del mondo intero il mio cervello non basta. Potremmo essere tentati di far coincidere l’io con la coscienza stessa, ma sappiamo che l’aderenza non sarebbe perfetta: non tutte le parti dell’io ci risultano costantemente attingibili. La coscienza comporta senza dubbio la consapevolezza dell’io, e l’identità accoglie tutto ciò che la coscienza ha da offrire, ma continua a non essere l’io, almeno non l’io propriamente detto. Né d’altra parte lo è il carattere, coi suoi tratti da terza persona, utile per la descrizione degli altri, o per comprenderne e prevederne il comportamento, ma privo della qualità soggettiva, percepita, del sé. Se è di sinonimi approssimativi che siamo in cerca, questi non mancano di sicuro: il cuore, l’anima, la mente, l’individualità.
Pensiamo alla frequenza con cui la lingua ricorre a espressioni come autostima, autocritica, autoaccusa, autoreferenzialità, autolesionismo: l’elenco assai lungo sarebbe il prodotto linguistico di altri io, ovviamente. Quando Bob Dylan canta Yer gonna make me give myself a good talking ( “mi farai a lungo pensare tra me e me”, ndr) rivolgendosi all’amata che lo sta lasciando, noi comprendiamo quello che dice. E sappiamo anche che a fare e ad ascoltare quella chiacchierata sarà per forza lo stesso io.
I neuroscienziati insistono che non esiste nel cervello nessun luogo deputato a ospitare l’io, quello che era stato il ruolo della ghiandola pineale nella descrizione cartesiana dell’anima. Nessun homunculus acquattato e guardingo dentro di noi. Al contrario, sembra che l’io sia piuttosto ovunque e in nessun luogo nel cervello, spalmato su vaste e complesse reti neurali. È tuttavia assodato che i traumi subiti dalla corteccia prefrontale possono causare alterazioni profonde nella percezione soggettiva dell’io. Lesioni che compromettono se non addirittura cancellano la memoria autobiografica devasteranno massicciamente la struttura dell’identità, suggerendo l’idea che tempo, memoria e continuità siano elementi essenziali di quel che significa essere un io.
Con il che ci inoltriamo in un altro territorio controverso. L’io come forma narrativa, come storia che raccontiamo a noi stessi, costituisce l’ortodossia contemporanea. Nessuno ha scritto in proposito meglio né più esaustivamente del filosofo Galen Strawson. Stando alla sua analisi, non mancano di certo sostenitori convinti e autorevoli, tanto in campo umanistico quanto in ambito psicoterapeutico, della teoria secondo la quale ciascuno di noi sarebbe il testo che personalmente compone. Qualche esempio di dichiarazione “narrativista/costruttivista” secondo Strawson: “Ciascuno di noi costruisce e vive una narrazione… noi siamo tale narrazione”, dice Oliver Sacks; “L’io è un racconto incessantemente riscritto”, scrive Jerome Bruner in The Remembered Self; e ancora, da svariate altre fonti accademiche: ciascuno “crea la propria identità dando forma a una narrazione autobiografica”; siamo tutti “romanzieri esperti e raffinati”; “il protagonista d’invenzione al centro della autobiografia è l’io”.
Uno degli aspetti seducenti di questa visione è che conferisce al soggetto un lusinghiero livello di efficacia performativa. Ci sentiamo corroborati al pensiero di essere costruzioni volontarie di noi stessi. La romanziera americana Mary McCarthy ebbe a scrivere: “… prima o poi cominciamo in un certo senso a scegliere e a inventarci l’io che vogliamo”.
Va da sé che l’idea di un io autoriale incanta i romanzieri. Ci sentirete alle tavole rotonde dei vari festival di letteratura sostenere regolarmente che siamo, tutti senza esclusione, più di ogni altra cosa, creature narranti, che mettiamo al mondo noi stessi scrivendoci e che, in assenza di questo racconto dell’io, andremmo incontro a una sorta di decesso mentale e all’inevitabile dissoluzione della nostra umanità. Vale tuttavia la pena ricordare che i romanzieri sono pagati per inventare storie.
Personalmente, per un discreto lasso di tempo, sono stato un “narrativista” poco convinto in occasione di quelle tavole rotonde. Sentivo che avrei dovuto mostrare una partecipazione più solidale ed entusiastica. Il mio disagio aveva ben due ragioni di essere: prima di tutto, un certo scetticismo nei riguardi del libero arbitrio necessario a scrivere e costruirmi un io. Non mi sono scelto l’infanzia, né il patrimonio genetico, non mi sono mai scelto l’io con il quale ho finito per ritrovarmi. In secondo luogo, la mia generale tendenza a ricordare ben poco. Infanzia, adolescenza, giovinezza sono semplici brandelli, nemmeno disposti in successione affidabile, raggiungibili solo con fatica o in risposta a domande mirate, e di sicuro non appartenenti a un “racconto” quotidianamente esperito. Mi sono sempre sentito in soggezione al cospetto di autori come Saul Bellow, John Updike o Charles Dickens. I loro romanzi sono brulicanti di materiale di ogni genere, personaggi minori e protagonisti, odori, voci, luoghi precisi dei primi anni di vita – un formidabile, ricchissimo compendio di esperienze al quale essi erano in grado di attingere senza fatica per trasformarle in narrazione.
A differenza di Updike non ricordo tutte le filastrocche delle bambine al parco giochi, il nome della signora che vendeva le caramelle, l’odore che aveva l’alito del mio primo dentista. Date queste lacune, è stato per me un sollievo, per non dire una liberazione, leggere Strawson e scoprirlo citare a sua volta Bill Blattner: “Noi non siamo testi. Le nostre storie non sono narrazioni. La vita è diversa dalla letteratura”. Come scrive Strawson: “Qualcuno doveva dirlo, prima o poi”.Strawson per esempio non vive il proprio io come un racconto confezionato dall’io medesimo bensì come qualcosa di episodico, una catena di momenti erratici legati da un susseguirsi di presenti. Strawson rivendica a sé stesso un livello “assolutamente dignitoso” di conoscenza del proprio passato ma non crede che una narrazione autobiografica svolga “un ruolo significativo nell’esperienza della realtà”. Si appella alla “immensa baraonda della vita” di cui parla Henry James. Strawson non contrasta la versione narrativista della vita interiore (pur domandandosi se i sostenitori della tesi riferiscano la propria esperienza in modo accurato). Si limita a dire che per lui e per altri non è così.
A sostegno del proprio senso dell’io fa appello a Emerson: “Siamo trascinati dal destino lungo il fiume della vita con l’espressione seria e l’assoluta ignoranza di infanti portati a spasso su un carrozzino di vimini”. A dispetto della sua memoria eccezionale, John Updike scrive: “Ho la costante sensazione nella vita, di essere sempre al principio”. Strawson invoca ancora Updike, ricordando un altro suo saggio nel quale l’autore lamentava la pochezza della biografia come forma letteraria. Essa “non è in grado di trasmettere la strabiliante innocenza che, nell’eterno presente della vita, accompagna l’io apparentemente reale”. Strawson non resiste alla tentazione (chi potrebbe, del resto?) di citare il citatissimo passaggio del saggio di Virginia Woolf dal titolo Modern Fiction: “La vita non è una serie di lampioncini disposti simmetricamente; la vita è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che ci racchiude dall’alba della coscienza fino alla fine…”.
Ciò che manca a tante indagini sulla natura dell’io ha a che fare con il suo incarnarsi in un corpo. Nessuno di noi è un cervello su una piastra di Petri. L’esperienza di essere un io va di pari passo con quella di avere un corpo, con quel che comporta in fatto di confidenza, crescita, declino, sofferenza, piacere. Quel dolore che sentiamo alla mandibola quando mangiamo un gelato; il neo sul ginocchio che è stato con noi dall’infanzia; il dito del piede che ci dà delle noie dopo qualche chilometro di marcia, il brivido lungo la spina dorsale che proviamo all’ascolto di un particolare brano di Schubert. Ma anche, venendo all’essenziale, la semplice sensazione di trovarci confinati dentro un corpo in questo momento orientato in un certo modo, con gli arti in una determinata posizione. Updike è bravissimo in queste cose, come in ogni minuto dettaglio, le note in corpo minore dell’esistenza. Nel suo saggio On Being a Self Forever scrive: “Quando alzo gli occhi verso l’azzurro terso di un cielo, o poso lo sguardo su una luminosa distesa di neve, prendo coscienza di uno schema fisso di imperfezioni ottiche: macule nel mio umor vitreo, simili a microbi congelati, che vagano incessantemente, di norma inosservate, nel mio campo visivo”. Non solo, brani di vecchie canzoni, frammenti di rime strampalate gli viaggiano d’abitudine nei pensieri come entità extracorporee: Quando scrive il suo nome gli si blocca d’istinto la mano in cima alla -d-. Ha una cicatrice sul palmo che si è procurato tantissimi anni addietro, quando al liceo gli capitò di ferirsi accidentalmente con una matita.
Ecco un paradosso consueto dell’io: riconosciamo che il tempo ci trasforma, che il nostro io di cinque o quattordici anni era profondamente diverso dall’attuale, eppure quel cinquenne, quel quattordicenne rivendicano su di noi diritti inalienabili. Secondo la convinzione di Updike: “invecchiamo e ci lasciamo alle spalle una nidiata di io irrimediabilmente defunti”. Non sono del tutto d’accordo: mai proprio defunti, ancorché irrecuperabili, mai proprio alle nostre spalle, ancorché dimenticati. Un esile filo di causa, effetto e casualità ci lega comunque ai nostri io precedenti. Ogni giorno, ogni minuto di ciascuna ora, ogni battito cardiaco legano la bambina alla vecchia signora, come pietre di passo su un corso d’acqua. Anche dopo trent’anni al colpevole tocca affrontare il processo per l’omicidio perpetrato. In quanto titolari di quel vecchio io restiamo responsabili delle sue azioni. Crollerebbe altrimenti l’intero sistema giudiziario.
Possiamo guardarci indietro e vedere una pluralità di io in lenta evoluzione nel tempo. E se non ci fosse un io del presente, ma solo un simposio di io impegnati in un eterno dibattito, un parlamento perennemente in conflitto? Che succede quando ci confrontiamo con alternative morali equamente ponderate o, più banalmente, cerchiamo di scegliere tra la gratificazione immediata e il traguardo a lungo termine, tra un bicchiere, una sigaretta, un pezzo di cioccolato qui e ora e la vaga prospettiva di un’esistenza più longeva? Sono queste le voci dentro la nostra testa. C’è una breve strofa di Philip Larkin sulla fine di una relazione che ben ci illustra l’idea di un’interiore camera di consiglio: Poiché la maggioranza di me Si oppone alla maggioranza di te, Il dibattito si chiude seduta stante, e Ci separiamo.
Che valutiamo tali voci come un’autentica molteplicità di io o come il prodotto di un io unico, abile come un attore provetto nell’interpretare persone diverse, risulta, a conti fatti, una questione di scelta personale. Si tratta del nostro panorama mentale da allestire al meglio delle possibilità.
Consideriamo infine l’io nella sua forma più ovvia: come l’intrinseco, imprescindibile produttore e recettore di pensieri, l’entità alla quale ineriscono sofferenze e piaceri, sogni e desideri, per dirla con Locke “l’essere pensante e cosciente… capace di felicità e tormento, e pertanto preoccupato di sé nella misura e nei limiti della propria coscienza”. Lo schermo sul quale precipitano i dati sensoriali, nucleo di identità, l’essere per il quale arrossiamo, di cui siamo orgogliosi o ci vergogniamo. Non c’è dubbio inoltre che, in quanto animali sociali, quell’io che consideriamo tanto privato in realtà assume la propria forma, come gli alti e bassi di autostima, dagli altri.
Il cervello umano anatomicamente moderno, in tutta la sua gloria cognitiva, assilla il pianeta da appena duecentomila anni, o forse molto meno. Da certe fratture craniche e altri traumi ossei sappiamo che i primi esseri umani conducevano esistenze violente. L’aspettativa di vita era inferiore ai venticinque anni. Non possiamo tuttavia sapere nulla riguardo alle esperienze private delle schiere di morti che si sono accumulate alle nostre spalle. Per questo abbiamo dovuto aspettare l’avvento dei mezzi di trasmissione culturale, e l’invenzione della scrittura che risale ad appena cinquemila anni orsono.
L’esperienza privata non era un’istanza urgente per gli scrittori del passato. La decodifica dei nostri testi più antichi – sumeri, babilonesi, egizi – ci consegna codici legali, elogi di sovrani, eroi e divinità, dottrine religiose, perizie commerciali, osservazioni astronomiche, cronache di alluvioni, siccità, guerre, raccolti. La scrittura cuneiforme non ci concede neppure uno sguardo di sfuggita sulla rappresentazione di una soggettività. In un certo senso non sappiamo praticamente nulla della vita interiore degli antichi egizi.
Procedendo nel tempo fino alla classicità, siamo messi di fronte a un paesaggio mentale in cui la rappresentazione dell’io potrebbe essere descritta come una serie di punti di luce ben distanziati, simile a una pista d’atterraggio vista di notte da un aereo, o meglio ancora, simile al panorama rurale contemporaneo visto dalla vetta di un monte: punti di luce isolati e sconnessi che raffigurano fugaci ritratti individuali, scorci di profonda autenticità umana. Si stagliano su uno sfondo affollato di eroici guerrieri, modelli etici, uomini in lotta contro il proprio destino, di sogni, sventure, profezie, collera divina e grandi temi degni della trilogia dell’Orestea, di vendette private in opposizione alla giustizia ufficiale. Si tratta di un gioco assai divertente al quale tutti possono partecipare, perché ognuno di noi qui oggi avrà i propri personali esempi di analoghi episodi di umanità nel passato remoto: un’osservazione, uno scambio di battute, una verità emotiva che attraversa d’un balzo la distesa degli anni e ci dà prova dell’esistenza di una natura umana immutabile che trascende tanto le circostanze storiche quanto lo sviluppo tecnologico.
Vi propongo il mio preferito: Penelope ha atteso per vent’anni a Itaca il ritorno dell’amato Odisseo. La sera del suo arrivo, la regina discende nella grande sala e scorge una figura seduta accanto al fuoco. Sarà proprio lui, dopo tutto?
Guardandolo, a volte lo riconosceva con ogni certezza, altre volte non lo ravvisava, così vestito di stracci.
E poco dopo il celeberrimo trucco del letto nuziale. Penelope ordina che venga rimosso dalla stanza. Soltanto Odisseo che lo ha personalmente costruito, incorporandovi un antico ulivo dalle radici profonde, sa che quel letto è inamovibile. E in tal modo dimostra con piena soddisfazione della sua sposa di essere l’uomo che dice di essere. Ora tuttavia è offeso di non essere stato riconosciuto. Pentita, Penelope gli si getta al collo: Non ti adirare con me, tu che sei il più saggio tra gli uomini, Odisseo… Ora non ti adirare con me, non serbarmi rancore, se non ti ho accolto subito, appena t’ho visto.
Sempre nel petto il mio cuore tremava che qualche uomo non m’ingannasse con le parole; Si riconcilieranno, naturalmente. Ma ciò a cui abbiamo assistito, dall’interno, si potrebbe dire, è un esempio delle dinamiche di una lite matrimoniale, il lieve intoppo dell’incomprensione, la delusione, il recupero. Di certo non si tratta ancora del ritratto di un io, ma ci offre l’intenso annuncio di un ritratto possibile. Superando un baratro di duemilasettecento anni, il brano omerico comunica la vita delle emozioni, una realtà soggettiva che siamo intuitivamente in grado di comprendere.
Simili punti di luce, momenti di rivelazione soggettiva, si trovano sparsi qua e là in tutti i secoli pre-moderni. Non permettete ai teorici di raccontarvi che l’io non esiste prima del Diciottesimo secolo. Esiste in Marco Aurelio, Virgilio, in Catullo e Lucrezio, in Dante, nelle Note del guanciale di Sei Shonagon, quando la narratrice, con una punta di particolare dispetto, osserva: “Capita inoltre di quando in quando di far recapitare a qualcuno un componimento poetico di cui ci compiacciamo senza riceverne uno in cambio”. In Chaucer come in Petrarca e in altri innumerevoli poeti. Ma si tratta di attimi, giusto un paio di versi eccezionali che portano alla ribalta la vita interiore. L’io certamente esisteva, ma ancora non era un soggetto adatto alla letteratura. Si potrebbe in questo senso immaginare un compendio semplificato della letteratura come la storia di una costante espansione di temi e soggetti accettabili.
Occorre aspettare l’inizio dell’era moderna per imbatterci in un’indagine sistematica dell’io. Come nel mese di maggio può capitare, osservando un prato, di accorgersi che certe piante raggiungono la piena fioritura prima di tutte le altre, così nella storia della cultura alcuni individui anticipano gli altri in modo dirompente.
Il che mi conduce a Michel de Montaigne.
Attivo a partire dalla seconda metà del Sedicesimo secolo, Montaigne fu certamente tra i primi autori a considerare sé stesso un valido argomento di scrittura, un soggetto per il quale occorreva inventare la forma letteraria adeguata, vale a dire il saggio confidenziale, a finale aperto. L’intero suo progetto fa perno sull’io. Montaigne sa quel che vuole. I suoi contemporanei possono averlo considerato superbo quando dichiarava: “Sono io stesso la materia del mio libro”. Il lettore moderno è portato a una partecipazione più immediata. “Il mondo guarda sempre avanti. Quanto a me, io concentro lo sguardo all’interno, e lo tengo fisso, impegnato… Non mi interesso che di me stesso; mi osservo senza sosta, rifletto su di me, mi assaporo… mi rotolo su me stesso”.
Leggere i Saggi significa contemplare un uomo nell’atto di concepire a mani nude una delle condizioni essenziali della modernità. Nel saggio Sui Libri egli rivendica il diritto di discettare di questioni che sono al di là della sua competenza. Così facendo rivelerà al lettore di più sul conto di sé stesso chedell’argomento a tema. “Pertanto l’opinione che esprimo (sui testi) verrà a palesare la misura della mia visione più che non la misura delle cose”. E l’io che ne emerge, com’è? Generoso, tollerante, liberale, diffidente delle teorie (una posizione anomala, per un francese) e della professione medica, delle autorità in genere, di teologie e fanatismi religiosi, estasi e visioni. Nauseato dalla violenza, nemico ante litteram del razzismo. Un soggetto induttivo, socievole, scettico, tendenzialmente pacato, sereno amante della vita e dell’umana varietà. Uno che predilige l’ordine naturale delle cose. “Ciascuno di noi è un mosaico”, dichiara. “Il traguardo più grande è sapere come appartenere a sé stessi”.
I Saggi sono tra le più luminose pietre miliari della storia dell’autoritratto. Montaigne mise a segno un nuovo modo di vedere, di vedere sé stessi, e, sia pur tardando ad affermarsi, la sua lezione stabilì un precedente senza ritorno.
A proposito dei Saggi, possiamo avere la ragionevole certezza che, tra coloro che li lessero in lingua originale ricevendone una profonda impressione ci sia stata l’altra mia pianta dalla fioritura precoce; sto parlando di Shakespeare. Se qualcuno volesse redigere una storia completa della vita interiore, almeno un lungo capitolo dovrebbe essere dedicato allo stupefacente mistero di Amleto che, nella moltitudine degli io d’invenzione, spicca dalle tenebre come il personaggio più compiutamente delineato, geniale, contraddittorio, impenetrabile, autentico e inconfondibile di tutti i tempi. Registriamo l’ombra, per non dire l’esplicita eco, di Montaigne quando nell’Atto II, scena II Amleto pronuncia, in prosa, le fatidiche parole: “Da un po’ di tempo, non so neppure io per quale ragione, ho perduto tutta la mia allegria, dimenticato i miei svaghi abituali…”. Un uomo si dice depresso ma senza conoscere il motivo. Anche tenendo conto della contestuale dissimulazione destinata a Rosencrantz e Guildenstern in quel “non so neppure io per quale ragione” si percepisce come l’antico sistema di certezze arbitrarie di Aristotele e Galeno, insieme agli esili contorni della conoscenza non verificata, comincino a dissolversi dinanzi a una forma inedita e tipicamente moderna di dubbio.
Amleto deve dunque, e in misura significativa, rappresentare un autoritratto, giacché non sarebbe possibile costruire una coscienza di tale complessità senza rivolgere intensamente lo sguardo nello specchio dell’io. Non esiste, prima del Seicento, un altro io immaginario che regga il confronto con lo splendore di questa mente eccezionale. Meno di un ventennio prima, altri drammaturghi erano alle prese con personaggi ancora dominati da un singolo vizio o una singola virtù. La figura incontrastata di Amleto si colloca all’inizio di una lunga tradizione di personaggi complessi, caleidoscopici, che non riusciamo mai completamente a definire. Come avviene con le persone reali, possiamo trovarci in disaccordo sul loro conto. È a questo margine di impenetrabilità che pare si debba la loro sopravvivenza nei secoli. Elizabeth Bennet e Fitzwilliam Darcy, Stephen Dedalus, Madame Bovary, Anna Karenina, Fabrizio Corbera principe di Salina, ciascuno stilerà il proprio personale elenco.
Non faccio distinzione, in questa sede, tra l’autoritratto e il ritratto di un io. Vale a dire, tra l’autoritratto di un individuo reale storicamente esistito, e un io d’invenzione, concepito dalla fantasia di un narratore. Ritratto documentario e ritratto inventato hanno radici comuni. Prima di tutto la nozione necessariamente condivisa dal sistema culturale, di un’entità costante, assolutamente unica e come tale percepita, del tipo di cui si diceva; un individuo fantasmatico irripetibile, un centro di consapevolezza e identità, il soggetto che prova dolore e si emoziona, accumula ricordi, ragiona, agisce. Alcune voci autorevoli sostengono che questa entità soggettiva sarebbe per lo più un prodotto culturale legato al tempo e alle circostanze storiche. Ritroviamo una delle più eloquenti espressioni di tale concezione in La civiltà del Rinascimento in Italia di Jacob Burckhardt. In questo brano giustamente celebre lo storico si riferisce alla mente medievale: “…entrambi i lati della coscienza umana – quello rivolto al mondo come quello rivolto a sé – restavano di fatto avvolti dallo stesso velo, in uno stato di sogno o di dormiveglia. Il velo era tessuto di fede religiosa, ingenui pregiudizi, false credenze; l’uomo si riconosceva solo come membro di una razza, una nazione, un partito, una corporazione, un casato o qualsivoglia altra categoria generale. Fu in Italia che per la prima volta il velo prese a dissolversi come nebbia al sole, producendo da una parte una percezione e un trattamento oggettivo dello stato e di tutte le cose del mondo, ma, parallelamente e con piena energia, anche il soggettivo. L’uomo diventa così un individuo che ha coscienza di sé e che come tale si riconosce… Verso la fine del Tredicesimo secolo, l’Italia cominciò a brulicare di individui: la messa al bando della personalità umana era stata revocata”.
Secondo una visione meno sensazionale, l’io sarebbe invece sempre esistito a vari livelli, precisamente nei termini in cui lo descrive Locke – come prodotto inevitabile, non meno della coscienza stessa, di un certo volume di plasticità neuronale pre-frontale. Anche i cani recepiscono la propria sofferenza, la propria gioia. La cosa più probabile è che l’autocoscienza umana si sia da sempre collocata su uno spettro; le culture, in modo particolare attraverso le arti, svolgono un ruolo cruciale nel promuovere il nostro collettivo avanzamento su quello spettro. La storia poi ci mostra come esistano circostanze che possono risospingerci in massa in senso contrario. Niente accorcia il fiato ai pensieri più della paura e della fame.
L’autoritratto, come il ritratto di un io in letteratura, non ci propongono un io idealizzato, né uno stereotipo o un modello etico al quale sforzarci di aderire o grazie alla cui emulazione possiamo sperare di essere accolti in paradiso, bensì individui che non rappresentano altro che sé stessi. E che sono perciò, in qualità di umani tanto imperfetti quanto virtuosi. Naturalmente lo scrittore che ne penetri i meandri ha anche il compito di mantenere un certo livello di distacco, per non dire di scetticismo. Il linguaggio impiegato in questo genere di ritratto ha l’arduo compito di comunicare in modo plausibile uno stato interiore e, nel migliore dei casi, di illustrarne il cambiamento in base al tempo, alle circostanze e alla natura provvisoria delle emozioni. Ciascuno di noi abita agevolmente i cosiddetti qualia della vita quotidiana, ma non altrettanto agevolmente è in grado di trasferirli su una pagina. Affinché questo accada occorre inventare forme letterarie adeguate; in modo dialettico l’espressione dell’io ha favorito lo sviluppo di tali forme. L’epica eroica non poteva funzionare. Ma allora, cosa? La lettera confidenziale, il diario, il memoriale, la confessione, perfino il diario di bordo e, in ultima analisi, il romanzo.
Il romanzo che si sviluppò nel Diciottesimo secolo, in concomitanza con la crescita esponenziale del suo pubblico di lettori, sembra riproporsi fermamente fin dall’inizio di rappresentare il soggettivo.
Clarissa di Samuel Richardson, pubblicato nel 1748, con i suoi quasi nove milioni di parole (per un totale di suppergiù tremila pagine di testo), è stato descritto da alcuni come la prima rappresentazione estesa di una coscienza nella storia della letteratura. Sarebbe stato possibile realizzare questa impresa senza Montaigne e Shakespeare? Quasi certamente sì, perché erano in gioco molti altri fattori che contribuirono alla nascita del romanzo. Eppure il più grande critico e commentatore shakespeariano di tutti i tempi, Samuel Johnson, lodò definendolo “il primo libro al mondo per la conoscenza che rivela del cuore umano”.
Nella sua prima maturità il romanzo inglese si compiacque di apparire “reale” – la vera cronaca, l’epistolario ritrovato, il diario di un viaggiatore scampato al naufragio e sopravvissuto su un’isola deserta, insieme a vezzi come “correva l’anno 176... nella città di L…”. Ben presto tuttavia, fu pronto a sbeffeggiare la propria presa sulla realtà nella follia comica del Tristram Shandy. Ma esisteva un ulteriore espediente che faceva della lettura di un romanzo un atto analogo al pensiero stesso. Mi riferisco all’espediente di sfumare il confine tra descrizione oggettiva e percezione soggettiva. Il resoconto in terza persona poteva, se l’autore era d’accordo, colorarsi delle sensazioni del personaggio. Quest’ultimo poteva divenire il punto focale della coscienza senza doversi incatenare a una prima persona. L’espressione “indiretto libero” fu inventata per descrivere le tecniche narrative di Flaubert, ma si attaglia perfettamente già alle opere di Jane Austen. Da allora si è saldamente radicata nell’arte del romanzo, senza che il lettore comune quasi se ne renda conto. L’io risulta sparso nel paesaggio fisico e sociale del romanzo.
Nel tempo, la consapevolezza soggettiva si è diffusa senza necessariamente accrescersi. Non abbiamo proceduto di molto sul cammino del “conosci te stesso”, in realtà. Possiamo essere consapevoli della nostra identità a livello collettivo, i nostri sistemi politici possono provvidenzialmente sfruttare efficaci espressioni di appartenenza etnica o sessuale, ma ciò che resta è la nostra impotenza dinanzi agli eventi che collettivamente provochiamo. E questo a dispetto di tutta la nostra tecnologia e delle nostre tramontanti superstizioni. Ma la nostra letteratura, per tornare a Bob Dylan, continua a essere una specie di bella chiacchierata che rivolgiamo a noi stessi.
Anche identificando il cervello con la mente, rimaniamo sbalorditi all’idea che un io frutto di pura materia abbia saputo descrivere sé stesso, che l’io insomma non sia la causa del pensiero, bensì il suo prodotto. Almeno nell’Occidente europeo, molti di noi hanno fatto ritorno a quello spazio un tempo identificato da Flaubert – dopo la morte delle divinità romane e prima dell’avvento di Cristo e il chiudersi della mente occidentale. Siamo orfani di un dio consolatorio ma anche liberi dalle sue imposizioni. Viviamo in tempi più duri, ma più interessanti. Possiamo radunarci in massa in luoghi turistici come piazza San Marco, armati di smartphone e pronti a scattare selfie, ma siamo soli dinanzi alla tragica impermanenza del nostro io mentre, come Amleto, affrontiamo la mortalità di questa “quintessenza di polvere”.