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 2017  ottobre 08 Domenica calendario

Un incubo 60 anni dopo: l’Italia senza i Mondiali

Se non andasse ai mondiali di calcio, l’Italia sarebbe un po’ meno Italia. Tutti noi che amiamo quel pallone saremmo un po’ meno italiani e forse pure gli altri, gli scettici, gli agnostici, perché il calcio qui è di tutti e riguarda tutti.
Sbiadita la politica, in evidente crisi le identificazioni di massa, il vecchio football è forse rimasto l’unico momento davvero collettivo di un paese sempre più diviso e sconsolato. Giochiamo a palla da sempre, abbiamo vinto il Mondiale quattro volte e non ci siamo andati una volta sola, nel 1958 in Svezia, esattamente sessant’anni fa: la cifra tonda della potenziale, funesta ricorrenza già mette i brividi. 60 milioni di cittì, e l’unico che davvero siede su quella panca di chiodi rischia di lasciarci a casa. Si chiama Gian Piero Ventura e certamente conosce la storia di Alfredo Foni, antica gloria in campo e poi cittì, che in quel malefico ‘58 riuscì a perdere a Belfast contro l’Irlanda del Nord, mica il Brasile, mandando in campo tre punte e due mezze punte, quasi peggio di Ventura al Bernabeu contro la Spagna. Il muro delle qualificazioni gli cadde addosso, e con lui all’Italia intera.
Non si può non andare al mondiale, davvero. Non si può non organizzare i riti di visione collettiva e catartica all’inizio dell’estate. Non si può non guardare l’Italia in campeggio, in auto, nel tinello di zia Carmela, al parco dopo la grigliata. Non si può non decidere che l’allenatore sta sbagliando tutto. Non si può non gridare al gol azzurro come pazzi, non si può non chiedere al vicino di casa, come Fantozzi, “scusi, chi ha fatto palo?”. Non si può guardare le partite degli altri e noi niente: piuttosto si scappa in Groenlandia, piuttosto si sfascia la tele a colpi d’ascia.
Perché, anche se pure ieri gli azzurri sono stati fischiati, loro siamo noi, e noi siamo loro. I ragazzi azzurri, le protesi dei nostri cuori, il prolungamento delle gambe da campioni che non abbiamo mai avuto. Loro, la proiezione del nostro sogno. Il riscatto di un’ora e mezza salvo supplementari e rigori, l’estratto in purezza di felicità, il ritorno all’infanzia del campetto, dell’oratorio, del custode che ti bucava il SuperTele se lo tiravi contro il portone (e per forza lo tiravi, quella era la porta e tu eri Gigi Riva). Senza i mondiali è una mezza vita, un sogno che si spezza a metà della notte perché devi andare in bagno.
Eppure ne abbiamo avuti, di giorni mondiali neri. In Brasile nel ‘50, quando ci andammo in nave per paura dell’aereo, dopo Superga, e ci si allenava sul ponte (tre settimane di traversata!) e i palloni si perdevano tra le onde e arrivammo già stremati. O in Cile nel ‘62, quando i padroni di casa ci menarono di brutto e finimmo partita e coppa in 9. Per non dire della Corea e di Mondino Fabbri, anno di disgrazia 1966, la Regina d’Inghilterra era Pelè come canta Venditti e noi fuori per colpa di Pak Doo Ik. E chi si scorda l’arbitro Moreno (ladro!) nel 2002, chi può ignorare come per due volte consecutive (Sudafrica 2010 e Brasile 2014) siamo riusciti a farci eliminare al primo turno come pivelli. Ma almeno, accidenti, ai Mondiali ci eravamo arrivati. Adesso, invece, davanti al portone c’è il custode. Vuole la nostra palla. Cos’è quel chiodo che tiene in mano?