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 2017  ottobre 08 Domenica calendario

La rete dei sospetti jihadisti

ROMA Il numero 214 è stato espulso due giorni fa. Marocchino, 52 anni, frequentatore del centro islamico di Città di Castello, dove più di una volta si è scagliato contro gli altri musulmani in preghiera perché troppo moderati e dunque kuffar, miscredenti. L’Antiterrorismo lo stava monitorando da un paio d’anni per via della sua amicizia con artigiano albanese estremista allontanato da Perugia nell’agosto 2015. Venerdì mattina l’hanno accompagnato a Malpensa e l’hanno imbarcato su un volo di sola andata per Casablanca. «Motivi di sicurezza dello Stato», c’era scritto sul suo foglio che teneva in mano.
PICCOLI CRIMINALI E 13 IMAM
Quella sicurezza nazionale che il governo italiano sta cercando di tutelare spingendo al massimo sul pedale dell’espulsione amministrativa. Dal 2015 ad oggi, sono 214 i provvedimenti firmati dal ministro dell’Interno: 66 il primo anno, quando è entrato in vigore il decreto Alfano che ha stretto le maglie della prevenzione contro il terrorismo; 66 nel 2016; già 83 nel 2017, sotto il mandato del ministro Minniti. Ma chi stiamo rimandando a casa?
Repubblica ha consultato la lista dei rimpatri e dei rimpatriati. Ne viene fuori la mappa italiana del fermento islamista quando ancora è nello stadio di incubazione, e sono più di duecento puntini sulla penisola che disegnano i focolai del fanatismo in potenza. Alcuni più prevedibili, altri inaspettati come Perugia e le sue 11 espulsioni. La galleria umana che si intravede è varia, anche se qualche tratto comune ricorre: il 70 per cento ha precedenti per spaccio, droga, violenze e altri reati comuni; il 30 per cento ha scontato una condanna in carcere; marocchini (74) e tunisini (64) insieme fanno più della metà del totale degli espulsi. Nell’elenco, poi, figurano i nomi di 13 imam radicali, i più temuti per la capacità di instillare il germe dell’odio.
LA REGIONE PIÙ A RISCHIO
A leggere i dati, la Lombardia ha un problema serio: 20 espulsi da Milano (Roma ne registra solo 7), 6 da Varese, 8 da Brescia, 4 da Cremona, 2 da Bergamo, 2 da Como, 2 da Mantova, 1 da Monza e 1 da Lecco. In totale 46, un quinto del totale. Nessun’altra Regione ne conta altrettanti. Ancora una settimana fa la polizia ha rimandato in Egitto un 36enne che stava in carcere a Monza perché aveva rapporti con un foreign fighter dell’Isis. Era l’espulsione numero 80 dall’inizio dell’anno, l’ultima in ordine di tempo per la regione.
«La Lombardia è stata il laboratorio della lotta al terrorismo islamico negli anni Novanta e nei primi anni Duemilia», spiega una qualificata fonte della nostra intelligence. «Qui sono state fatte le prime inchieste giudiziarie a vasto raggio che hanno smantellato cellule e dimostrato i legami con la moschea di viale Jenner. Sono servite per costruire un metodo di lavoro». Quello, sicuramente. Ma anche scoprire di avere a due passi da casa Maria Giulia Sergio (viveva a Inzago prima di andare in Siria col Califfato), o il “kickboxer della Jihad”, Abderrahim Moutaharrik, arrestato nel 2016 a Lecco e terminale dell’unico caso finora documentato di ordine impartito dallo Stato Islamico per compiere un attentato in Italia. Storie, e indagini, che talvolta causano il rimpatrio di altri. Come è successo ad Aprilia: i quattro espulsi tunisini sono i contatti del terrorista di Berlino Anis Amri, che soggiornò per una decina di giorni nell’Agro Pontino.
L’ENCLAVE UMBRA
Dopo Milano in classifica si trova la provincia di Ragusa con 12 casi. Un dato spiegabile con la presenza del centro di accoglienza di Pozzallo e con la prassi di rimpatriare immediatamente chi sbarca ed è già segnalato a rischio jihadismo. Più insolito il terzo posto di Perugia.
Undici espulsioni dal 2015 ad oggi, che affondano le radici nel passato prossimo della città, quando la Digos nel 2007 scoprì che l’imam della moschea di Ponte Felcino, Mostapha El Korchi, non era un muratore come voleva far credere, ma addestrava i suoi discepoli alla Guerra Santa. Uno di questi, un 52 enne che ha continuato a predicare odio tra Perugia e il centro islamico Assalam di Corciano, è stato rimandato al suo Paese il 14 luglio di quest’anno. Per dire. L’indagine su El Korchi ha infatti permesso agli investigatori di sviluppare una buona rete di informatori sul territorio umbro, e anche così si spiega quel numero di espulsioni.
I PERCHÉ DI UNA STRATEGIA
Ma se uno è un sospetto jihadista – è la contestazione che nelle sedi diplomatiche gli italiani si sono sentiti fare – perché non arrestarlo invece di rimandarlo a casa? Ridotta all’osso, la logica del Viminale è questa: quando a carico di uno straniero si accumulano indizi di radicalizzazione difficili da tradurre in solide prove in un processo, quando ci sono fondate informazioni di intelligence che ne evidenziano la pericolosità e il tempo stringe, si passa all’espulsione.
È assai probabile che non tutti i rimpatriati fossero effettivamente dei pericolosi estremisti pronti al martirio. «Può essere – ribatte la fonte dell’intelligence – ma di questi tempi una prevenzione troppo rigida è meglio di una non prevenzione».