la Repubblica, 7 ottobre 2017
L’abbraccio di Lucia all’assassino del marito. «Aiuto anche i suoi figli»
NAPOLI Si sono incontrati per la prima volta molto tempo dopo. «Quando mi dissero dov’era, rivolsi lo sguardo verso di lui. Cercavo un mostro, vidi un ragazzino», ricorda Lucia. La sera del 4 agosto 2009, Antonio non aveva ancora diciassette anni, un bimbo concepito appena sette giorni prima ed era uscito a far rapine con tre coetanei. Gaetano Montanino invece aveva 45 anni, una figlia piccola. Faceva la guardia giurata e quella notte era in servizio a piazza Mercato, nel cuore di Napoli. La moglie, Lucia, lo aspettava a casa contando le ore che la separavano dalla fine del turno.
Le loro strade, le loro stesse vite, si sarebbero incrociate tragicamente quando il commando di rapinatori tentò di impossessarsi della pistola del vigilante. Gaetano Montanino si oppose e fu ammazzato. Ma quella pagina di violenza, oggi, sembra solo il primo capitolo di un’altra storia. Una storia di riconciliazione, speranza, riscatto.
Antonio è stato condannato a 22 di carcere. Ora ha due figli. E se, al compimento del venticinquesimo anno di età, non è stato trasferito dall’istituto minorile di Nisida in una cella di Poggioreale è anche grazie a Lucia. La moglie dell’uomo che ha ucciso. La donna che i suoi bambini chiamano «nonna Lucia». La persona che dà consigli alla sua compagna. Colei che gli ha aperto la strada per ottenere un lavoro e aiutare così anche i suoi figli. Perché da un paio di mesi Antonio lavora in un bene confiscato intitolato proprio a Gaetano Montanino. Lucia ha di fatto “adottato” la sua famiglia. «È il mio angelo custode», dice di lei il giovane. «È come il figliol prodigo», dice di lui Lucia Montanino. E racconta: «Antonio era a Nisida. Aveva chiesto al direttore dell’istituto di incontrarmi. Ma il solo pensiero mi faceva stare male. Non volevo trovarmi davanti a un assassino. Sono passati anni. Ogni tanto mi ripetevano che quel ragazzo voleva vedermi. “È importante per il suo percorso, ma bisogna farlo prima che venga trasferito a Poggioreale”, dicevano. Il 21 marzo scorso è capitato quello che non avrei mai immaginato prima. Eravamo sul lungomare, alla marcia di Libera. Mi sentivo stanchissima. Mi trovavo accanto a don Tonino Palmese, esponente napoletano di Libera, quando il direttore di Nisida mi disse che Antonio era lì. Sul palco. Tremava, piangeva. Non ho mai avvertito tanto dolore negli occhi di una persona. Era come un animale ferito dal male che lui stesso aveva provocato. Mi sono avvicinata. Antonio mi ha abbracciata. Chiedeva perdono. “Non dovevo farlo. Non lo farò più”. Mentre parlava, stava per svenire. Mi sentii di stringerlo, di accarezzarlo. “Ormai è fatta. Ma ora devi promettermi che cambierai vita”, gli ho risposto». Antonio ci sta provando. Fa le pulizie per una cooperativa e, all’occorrenza, il cameriere. Qualche volta parla ai ragazzi che rischiano di finire stritolati dal crimine come accaduto a lui e si presenta così: «Mi chiamo Antonio e nella mia vita ho fatto tanti errori. Ma ho promesso a Lucia, il mio angelo custode, di uscire dalle tarantelle. Lavoro con i disabili e non c’è cosa più bella al mondo che aiutare i più deboli. Lucia mi ha fatto capire tantissime cose. Prima di qualsiasi passo, anche il più piccolo, mi confronto con lei. La ringrazio, ma so che è sempre poco quello che fa per me».
Lucia sa che il cammino è lungo. «Non sono la madre di questo ragazzo, né una terapista. Ma ci sto mettendo grande impegno. Amavo tantissimo mio marito. Ogni volta che vedo Antonio, vedo il dolore. Ma sapere che dal sangue di Gaetano sta nascendo qualcosa di buono, mi dà sollievo. Penso che sia un miracolo».