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 2017  ottobre 07 Sabato calendario

Nel regno di Kim

In Corea del Nord a bordo di un vecchio aeromobile russo significa entrare in un universo alternativo, dove il “Leader Supremo” sconfigge i vili imperialisti americani, dove quando una donna partorisce tre gemelli lo Stato li toglie ai genitori per provvedere direttamente alla loro educazione, dove la guerra nucleare è imminente ma non fa paura e dove non esiste nessuna solidarietà verso detenuti americani come Otto Warmbier.
Warmbier era lo studente dell’Università della Virginia arrestato per aver rubato un manifesto, condannato a 15 anni di lavori forzati e alla fine rimandato in America in stato vegetativo. «Ha infranto la legge nel nostro Paese», dice Ri Yong-pil, un alto funzionario del ministero degli Esteri, aggiungendo che Warmbier è stato rimandato in patria (una settimana prima di morire) come atto «umanitario».
Seguo le vicende nordcoreane a intervalli fin dagli anni 80, e da questo viaggio di cinque giorni sono tornato più allarmato che mai per la prospettiva di un catastrofico conflitto armato. Il regime, molto di più dell’ultima volta che sono stato qui, sta incitando la popolazione a prepararsi a una guerra nucleare con gli Stati Uniti. Gli studenti liceali marciano per le strade tutti i giorni in divisa militare, inveendo contro l’America. Manifesti e cartelloni lungo le strade mostrano missili che distruggono il Campidoglio di Washington e fanno a brandelli la bandiera americana. Le immagini dei missili sono onnipresenti: nel parco giochi di un asilo, a uno spettacolo di delfini ammaestrati, sulla televisione pubblica. Questa mobilitazione militare è accompagnata dall’onnipresente convinzione che la Corea del Nord non solo potrebbe sopravvivere a un conflitto nucleare, ma perfino prevalere.
«Se dovessimo entrare in guerra, non esiteremmo a distruggere completamente gli Stati Uniti», mi ha spiegato Mun Hyok-myong, un insegnante trentottenne in visita a un parco di divertimenti. Ryang Song-chol, un operaio quarantunenne, è sembrato sorpreso quando gli ho chiesto se il suo Paese avrebbe potuto sopravvivere a una guerra con l’America. «Vinceremmo senza alcun dubbio», ha detto. Queste interviste sono state condotte alla presenza di due funzionari del ministero degli Esteri, ma anche senza di loro non c’era da aspettarsi che la gente comune fosse disposta a parlare liberamente con un giornalista straniero. La Corea del Nord probabilmente è il Paese più rigidamente controllato che esista al mondo.
A Pyongyang, la capitale, una città piena di strade larghe ed edifici monumentali, i funzionari pubblici non sembrano pensare più di tanto a quali compromessi servirebbero per risolvere la crisi. «Nella penisola coreana siamo sull’orlo di una guerra nucleare», mi dice Choe, il funzionario del ministero degli Esteri. «Noi siamo in grado di sopravvivere a una guerra di questo tipo», ha aggiunto, e lui e altri funzionari affermano che non è il momento giusto per aprire negoziati con gli Stati Uniti.
I nordcoreani insistono che devono essere gli Usa a fare la prima mossa, rimuovendo le sanzioni e cessando il loro «atteggiamento ostile»: cosa che non avverrà. E gli Stati Uniti sono altrettanto irrealistici quando pretendono che la Corea del Nord rinunci interamente al suo programma nucleare.
Dico a Choe che la visita mi dà una sensazione di déjà- vu, perché mi fa tornare in mente un viaggio che feci nell’Iraq di Saddam Hussein alla vigilia dell’invasione americana. La differenza è che una guerra qui non sarebbe solo un disastro regionale, ma un cataclisma nucleare. Choe non rimane impressionato dal mio ammonimento e mi risponde che l’Iraq e la Libia hanno fatto l’errore di rinunciare al loro programma nucleare: in entrambi i casi, l’America ha poi abbattuto il regime. Aggiunge che l’insegnamento di questi due Paesi è evidente e che la Corea del Nord non accetterà mai di trattare su una rinuncia alla bomba atomica.
In ogni caso, nonostante l’ombra minacciosa di una possibile guerra, ho notato alcuni cambiamenti positivi: la carestia è finita (anche se la malnutrizione lascia ancora un bambino su quattro rachitico), l’economia si è sviluppata e i funzionari pubblici sono molto più aperti e competenti di quelli della generazione precedente. La Corea del Nord non è più sigillata ermeticamente e la musica pop e le soap sudcoreane entrano nel Paese su pennette e dvd contrabbandati dalla Cina (guardare una di queste soap è un reato penale grave). C’è anche un’intranet (una versione nazionale di internet, rigidamente controllata), e gli studenti studiano l’inglese già dall’equivalente della terza elementare.
Ma è comunque la Corea del Nord. Ho chiesto ai ragazzini se avevano mai sentito parlare di Beyoncé o dei Beatles: nessuno ne aveva mai sentito parlare. Ho chiesto se avevano mai sentito parlare di Facebook: uno ha risposto di sì, perché il software del computer a volte faceva riferimento a Facebook, ma non sapeva che cosa fosse. Gli apparecchi radiofonici o televisivi in grado di ricevere trasmissioni estere sono illegali, e internet è accessibile soltanto agli stranieri e agli alti funzionari. Ogni casa o villaggio ha un altoparlante, un collegamento con il Grande Fratello che ogni mattina martella la sua propaganda. Religione e società civile non sono consentite. Il controllo pubblico si è sfilacciato durante la terribile carestia degli anni ‘90 – che ha provocato la morte, secondo alcune stime, del 10 per cento della popolazione – ma con la ripresa economica sono tornati anche i controlli. È lo Stato più totalitario che sia mai esistito nella storia mondiale, perché dispone di computer, telecamere a circuito chiuso, telefoni cellulari e altre tecnologie di monitoraggio che Stalin o Mao potevano soltanto sognarsi.
La Corea del Nord a volte è anche semplicemente disorientante: quando una donna partorisce tre gemelli, lo Stato li toglie ai genitori e provvede direttamente alla loro educazione, perché sono considerati di buon auspicio. Il culto della personalità è inflessibile e ogni individuo adulto indossa spillette del “Grande Leader” Kim Il-sung, morto nel 1994, o del figlio, il “Caro Leader” Kim Jong-il, morto nel 2011, e i loro ritratti sono in tutte le case, le fabbriche e le aule scolastiche del Paese.
Ho intervistato tantissimi fuoriusciti nel corso degli anni, e mi dicono che c’è più disincanto tra i giovani e quelli che vivono al confine con la Cina, dove si può vedere con facilità quanto sia rimasto indietro il Paese. Ma aggiungono che molti nordcoreani, in particolare i più anziani e quelli che vivono lontano dal confine cinese, credono sinceramente nel sistema e venerano la famiglia Kim, perché non conoscono nient’altro.
Il fatto che rende così rischiosa la fase attuale è che tra la popolazione è profondamente radicata l’idea che hanno ripetutamente sconfitto gli Stati Uniti e possono riuscirci di nuovo. Ogni singola persona con cui ho parlato, dai funzionari agli studenti, si è detta certa che se scoppiasse una guerra l’America verrebbe ridotta in cenere e il regime di Kim ne emergerebbe vittorioso. Kim stesso probabilmente non ha tutta questa fiducia. Ma storicamente esiste sempre il rischio che i dittatori finiscano per credere alla loro stessa propaganda.
Per qualche motivo, nonostante tutta l’ostilità ufficiale, i nordcoreani di solito sono amichevoli con i singoli americani. Nel nuovo grattacielo dedicato alla scienza e alla tecnologia, a Pyongyang, ho incontrato un ragazzino di tredici anni, Paek Sin-hyok, che partecipa tutti i giorni alle parate militari nella sua scuola media, nel quadro della mobilitazione bellica. Era la prima volta che incontrava degli americani, e ha detto che gli batteva forte il cuore. Gli ho chiesto di quell’espressione molto diffusa in Corea del Nord: «Come un lupo non potrà mai diventare un agnello, così un imperialista americano non potrà mai cambiare la sua natura aggressiva». «E noi?», gli ho chiesto. «Siamo lupi? O agnelli?». Non riusciva a trovare una risposta educata. «Metà e metà», ha detto alla fine.
Con questa sfiducia reciproca, è facile immaginare che le cose possano andare a finir male. Ho il sospetto che il regime sia razionale e che in realtà gli interessi soltanto garantire la propria sopravvivenza, e non credo che sparerebbe un missile nucleare contro Guam o Los Angeles solo per il brivido di vedere cosa succede. Ma un incidente armato tra un aereo nordcoreano e uno americano potrebbe innescare una crisi che sfuggirebbe al controllo. Oppure Trump potrebbe ordinare un raid aereo contro un missile nordcoreano durante la fase di carico del carburante, mentre si trova sulla rampa di lancio: e questo, come ogni funzionario nordcoreano ha dichiarato, porterebbe alla guerra. Tutti e due stanno camminando sul filo del rasoio: è per questo che i conflitti conoscono un’escalation rapida, quando si gioca alla guerra. La mia sensazione è che entrambe le parti abbiano paura di apparire deboli e stiano cercando di intimidire l’avversario a suon di spacconate militari, ma sia Pyongyang che Washington preferirebbero una soluzione pacifica, solo che non sanno come arrivarci politicamente.
Ho lasciato la Corea del Nord con lo stesso cattivo presentimento con cui lasciai l’Iraq di Saddam nel 2002: la guerra è evitabile, ma non sono sicuro che verrà evitata.
(Traduzione di Fabio Galimberti)