la Repubblica, 7 ottobre 2017
Nell’era dei nuovi wargames l’orologio dell’Apocalisse è in troppe mani inesperte
NEW YORK Se il premio Nobel per la pace serve a qualcosa, quest’anno ha fatto centro. La decisione di assegnarlo a Ican, la campagna per l’abolizione delle armi atomiche, arriva in un momento drammatico. L’orologio atomico – nel senso di un potenziale conto alla rovescia prima della deflagrazione – ha ripreso il suo sinistro ticchettìo come alla vigilia di Hiroshima e Nagasaki, o come nei tempi più bui della guerra fredda. Mai il mondo era stato così vicino alla possibilità di un attacco nucleare, almeno negli ultimi 55 anni. Per la precisione, era dalla crisi Usa-Urss sui missili di Cuba, anno 1962. Dopo quell’episodio di tensione tremenda in cui l’uso di testate nucleari fu una possibilità concreta a Washington e a Mosca, ci eravamo abituati a considerare il fungo atomico come un orrore consegnato nei libri di storia. (La crisi degli euromissili, anni Settanta, fu più geopolitica che militare). Forse anche per questo la vigilanza dell’opinione pubblica è diminuita, e “giocare” con scenari nucleari, simulare wargame con lanci di missili dalle testate all’idrogeno torna all’ordine del giorno. Ne discutono i vertici militari, i leader politici, i media, con un tono di quasi- normalità che è già di per sé un fatto nuovo e allarmante.
Nell’ordine giusto, la colpa è prima di tutto di un piccolo regime criminale, la monarchia comunista dei Kim che regna col terrore sulla Corea del Nord. È da tempi “non sospetti”, dall’anno 1994 quando alla Casa Bianca c’era Bill Clinton, che Pyongyang ha cominciato a perseguire un programma nucleare illegale, destabilizzante, minaccioso per i suoi vicini. Né Clinton né Bush né Obama sono riusciti a negoziare un congelamento di quel piano. Disgrazia vuole che la Corea del Nord sia arrivata al traguardo di una vera capacità distruttiva (bomba all’idrogeno più missili a lunga gittata) proprio quando alla Casa Bianca c’è Donald Trump. Il quale, come ha sostenuto l’analista della Cnn Chris Cillizza, tratta una possibile offensiva nucleare «come la suspence in un reality-tv show». Ci gioca sopra, come ha fatto giovedì sena a una cena coi vertici militari, con una battuta che ha raggelato la sua audience: «Questa è la calma prima della tempesta». Quale tempesta, gli è stato chiesto? «Aspettate e vedrete…» Lo stesso presidente rischia di aprire un secondo fronte di rischio nucleare. Sembra ormai sicura la sua decisione di “de-certificare” l’accordo con l’Iran. Tradotto dal gergo si tratta di comunicare al Congresso che secondo la Casa Bianca gli iraniani non rispettano l’accordo firmato nel 2015 con l’America e altri cinque paesi. È il primo passo di una procedura al termine della quale il Congresso può chiedere la cancellazione dell’accordo e il ripristino delle sanzioni contro Teheran. Questo probabilmente spingerebbe i falchi iraniani a rilanciare il loro programma nucleare a fini militari. Sarebbe la “seconda atomica islamica” dopo quella del Pakistan, e in una zona ancora più conflittuale.
Né la Corea del Nord né l’Iran hanno giustificazioni per l’escalation nucleare. Nessuno minaccia seriamente questi due paesi. Sia pure in situazioni assai diverse, sia Pyongyang che Teheran seguono un tragico copione collaudato da tanti regimi autoritari: l’avventurismo militare come fuga in avanti per coprire i propri fallimenti interni. L’aggravante però è che a Wahington hanno di fronte una leadership insicura, maldestra, imprevedibile. Dove i più saggi appaiono i militari: il generale Mattis, segretario alla Difesa, tenta di difendere l’accordo che Obama firmò con l’Iran. Siamo nella situazione opposta rispetto al 1950 quando il presidente Harry Truman cacciò il generale Douglas MacArthur che nella guerra di Corea voleva usare l’atomica contro le truppe cinesi.
L’ex tycoon e showman televisivo che oggi è Commander- in-Chief dell’armata più potente della terra, è ben diverso per formazione e letture, da quel John Kennedy che nel 1962 aveva un’idea molto chiara: voleva ad ogni costo evitare la guerra su Cuba. Oggi l’orologio atomico è in mani inesperte, con una Casa Bianca dove rimpasti e licenziamenti si susseguono. E ci si riduce a dover sperare che l’ultima parola ce l’abbiano i militari. Cioè gli unici veri adulti nello Studio Ovale.