la Repubblica, 7 ottobre 2017
L’amaca
Il Signor D, di professione geometra in un ente pubblico, a tempo perso (molto tempo: dalle 16 alle 24, in pratica un turno lavorativo) linciatore su Facebook, smascherato e denunciato da una delle linciate, si difende dall’accusa di scrivere cose abominevoli, soprattutto contro le donne, con questa interessante giustificazione: «Sono semplicemente uno che dice quello che pensa».
È in buona e folta compagnia. Ci sono un sacco di persone convinte che dire quello che pensano sia, in sé e per sé, una virtù. Uno sbocco di schiettezza, un punto segnato contro l’ipocrisia, e a tutti i livelli, mica solo tra i geometri. Non si contano i leader politici, specie recenti, che hanno avuto grande successo perché «finalmente qualcuno dice quello che pensa»: vedi, uno per tutti, Donald Trump. C’è però una complicazione: se uno pensa una cazzata, o una porcheria, dirla non lo redime né lo soccorre. Se si è convinti – mettiamo – che gli ebrei devono essere deportati, o che una donna che divorzia è una zoccola (è questo il caso specifico sollevato dal signor D), è evidente che il grosso problema non è quello che si dice. È quello che si pensa.