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 2017  ottobre 09 Lunedì calendario

Catalogna, storia di una crisi

Appena dieci anni fa il panorama fra Spagna e Catalogna, che oggi sembra quello di una partita che si può vincere o perdere solo annichilendo l’avversario, era completamente diverso. Il governo di Madrid e quello di Barcellona erano dello stesso colore: il rosso del garofano socialista. E le due amministrazioni collaborarono nella prospettiva condivisa di spingere la penisola iberica verso una nuova dimensione pienamente federalista per le autonomie storiche (Paesi Baschi, Catalogna e Galizia). Zapatero e Pasqual Maragall. Il primo dalla Moncloa, il secondo dal palazzo della Generalitat, nella struggente bellezza di plaça Sant Jaume a Barcellona, scrissero, trattarono e approvarono, il nuovo Statuto dell’autonomia catalana. Il parlamento spagnolo, le Cortes, lo votò (189 a favore, 154 contro) nel marzo del 2006. Due mesi dopo, alla fine di maggio, gli elettori della Catalogna aggiunsero il loro “Sì” in un referendum vincolante. Ma dal quel momento iniziò dal centro-destra, dal Partito Popolare, che aveva votato contro in Parlamento, la guerra per bloccarne l’attuazione. Alla Corte costituzionale arrivarono raffiche di ricorsi e Mariano Rajoy, oggi presidente e allora capo dell’opposizione, propose un referendum sullo Statuto catalano nel quale, però, avrebbero dovuto votare tutti gli elettori spagnoli. A destra, il personaggio decisivo di quella stagione fu Soraya Sáenz de Santamaria, allora responsabile nell’esecutivo dei Popolari delle politiche regionali. 
Soraya alla fine vinse pochi mesi prima che i Popolari tornassero a guidare la Spagna dopo i due mandati di Zapatero. Nel 2010 una sentenza dell’Alta corte dichiarò incostituzionali alcuni articoli 14 in tutto dello Statuto. Grazie al successo della battaglia contro i nazionalisti catalani, Soraya iniziò la sua ascesa a star nell’olimpo della destra. Divenne prima portavoce e poi vicepresidente, e delfino in pectore, del grande capo, ossia Rajoy. Certo, nessuno s’immaginava che, anni dopo, quello scontro legale vinto avrebbe prodotto la crisi alla quale stiamo assistendo. Sondaggi alla mano, nel 2010, i catalani favorevoli alla secessione dalla Spagna erano appena il 13%. Dopo la revisione dello Statuto quadruplicarono di fronte a uno scenario politico completamente nuovo. I loro amici, Zapatero e Maragall, non c’erano più, e il nuovo palco del teatro della politica spagnola era ormai occupato dai peggiori nemici della Barcellona “catalanista”, Mariano e Soraya. 
Il processo di radicalizzazione fu lento ma inesorabile, con i nazionalisti catalani leader Artur Mas che avevano disarcionato i socialisti dalla guida del governo locale, e con la nascita di nuove organizzazioni civiche di base, come la Anc (Assemblea nazionale catalana), che si misero alla guida dell’onda secessionista montante. 
A Madrid non capirono nulla di quello che stava succedendo 600 km a nord-est alla frontiera con la Francia o, se lo capirono, decisero di ignorarlo. Incassata la sentenza del tribunale costituzionale l’offensiva del nuovo governo Rajoy iniziò subito. 
I temi più conflittuali dello Statuto in parte depotenziati dall’Alta corte erano la definizione di Catalogna come “nazione”, la partita del bilinguismo nelle scuole, l’obbligo di conoscere il catalano, un nuovo sistema di finanziamento e una giustizia autonoma. Forti del verdetto della Corte, i ministri di Madrid, soprattutto Istruzione e Economia, partirono all’attacco mentre sotto i colpi della crisi Artur Mas era costretto a tagliare il bilancio locale e ridimensionare il welfare. Fu così che, in poco tempo, sulla questione identitaria shakerata con la crisi economica crebbe il movimento indipendentista. Il primo strappo nel 2014, quando Artur Mas, dopo aver cercato un nuovo patto fiscale con Madrid indisse un referendum consultivo sull’autodeterminazione. Nelle elezioni regionali successive, l’anno dopo, nacque una coalizione trasversale (Junt pel Sí insieme per il Sì) nella quale si presentarono riunite la destra e la sinistra nazionalista: il PdeCat di Mas e la Esquerra republicana di Oriol Junqueras. Vinsero ma senza raggiungere la maggioranza assoluta dei seggi. Un accordo con una formazione nazionalista di estrema sinistra, la Cup, consentì la formazione del governo e l’elezione del presidente. La Cup mise il veto su Artur Mas che propose, al suo posto, Carles Puigdemont, un ex giornalista su posizioni più radicali delle sue. Così arriviamo ai nostri giorni dove le due intransigenze, quella del governo di Madrid e quella di Barcellona, hanno creato una situazione surreale e drammatica. Un referendum realizzato nonostante fosse stato dichiarato illegale dall’Alta corte, la repressione, l’assenza di un quorum, i dubbi su quanti hanno effettivamente votato che erano comunque meno della metà degli elettori. Ora Madrid grida al golpe mentre la Catalogna secessionista rischia di commettere l’errore finale e di perdere anche tutta l’autonomia conquistata negli ultimi 40 anni.